L'alba
VII
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VII
Interessato a me? Possibile? E chi…
Chi…
Oscar, sei tu?
Pensa, in un tuffo al cuore. Mi stai
cercando?
Stranito, perplesso, riflette. Forse Oscar ha inviato qualcuno – improbabile
si tratti di lei in persona, a giudicare dalla scarna descrizione ricevuta
–. Eppure, ora che si rende conto di una remota possibilità, non sa se
davvero si senta pronto. A ritrovarla. Confrontarsi, più che con lei, con
(lei di fronte a) un se stesso che si è fatto troppo silenzioso, a forza di
vivere solo; che, via via, perderà autonomia, capacità. A parlarne con lei
apertamente. Affrontare una cosa così diversa, tra di loro. A ricominciare a
fingere davanti a tutti. E lui, come prima, non potrà essere più.
“Torno”, l’aveva rassicurata, prima di partire.
Ma cosa dirle, come chiarirle, come farle capire che è stata una necessità –
e lo è ancora – e non un abbandono? Un cercare e non un lasciare. Non un
lasciarla…
“Sto via solo per un po’…”
Era vero. Ma difficile da spiegare. Sarebbe parso immotivato. Anche se le
ragioni esistevano, e, sia pure indirettamente, era stata proprio Oscar a
renderlo consapevole.
Vorrebbe parlarle.
Almeno, poterle scrivere.
Un biglietto?
Prova una tentazione fortissima di comunicare con lei.
Si sente stonato.
L’ha sognata, stanotte. Erano ragazzini, e non riusciva a raggiungerla. A
parlarle. La cercava, in mezzo agli altri, a una festa, ma non la trovava.
Non la trovava più.
Nel giardino, poi, nel campo, il battito d’ali delle farfalle sembrava
coprire tutto il resto, assieme al frinire delle cicale.
Correva, controsole, senza avere possibilità di respirare. Quasi soffocato
dall’erba che cresceva sempre più alta nascondendo tutto, dal mondo sfocato
che si trovava attorno. Sempre più grigio. Mentre perdeva i colori. Sempre
più buio.
Infine, la rintracciava. Ma ormai era lontana. Vedeva solo la sagoma
evanescente. Con qualcun altro.
Stranito, si alza.
Va in cucina. Cerca rassicurazione in gesti ripetitivi, divenuti in breve
tempo consueti, calmanti. Cerca conforto in oggetti amici.
Sfiora le pareti, le porte.
Sente sotto le dita i mobili, cerca la pietra di marmo del tavolo. Si versa
dell’acqua.
Ormai si è quasi abituato. Ormai, quando, la mattina, a volte la luce tarda
ad arrivargli, riesce quasi a muoversi come se niente fosse. Per fortuna,
non succede spesso.
Si siede in soggiorno.
Passa una mano sul tavolo. Ne scorre i contorni. Chiude gli occhi, la testa
abbandonata indietro.
Prova una sensazione piacevole, al contatto col legno. Con la pietra.
Sorride, suo malgrado.
Pensa che sarebbe bello svegliarsi, qui, con lei accanto.
Gli viene da ridere e si dà dello stupido. Perché, di là, nell’altrove, con
lei può svegliarsi moderatamente spesso.
Solo che…
Solo che qui è suo. Sarebbe una cosa loro. Non la casa di famiglia con
annesso personale circolante. Un inghippo pazzesco che fornisce lavoro a
diverse persone, fatti salvi i privilegi feudali. Qui, non dovrebbero
nascondersi.
Oscar…
Oscar…
Se tu…
Se tu… fossi qui…
Non ha senso girarci attorno. Se l’idea torna sempre più spesso.
Deve scriverle.
Deve riprendere il contatto.
Deve raggiungerla, in qualche modo. Tornare da lei o andare, prendersela e
portarla via con sé, come un eroe delle fiabe con la sua principessa. Almeno
potesse! Almeno per un po’. Condurla con sé in quel limbo autosospeso in cui
si sta reinventando. Sta ritrovando cose nascoste. O smarrite. Un se stesso
che, dalla partenza, all’alba, anni prima, dagli eventi e dalle scelte di
allora, era finito accantonato e da cui era emerso un altro André, non
diverso, ma con qualcosa oltre. Ora, era come riportarlo alla vita,
lentamente.
Era strano.
Gli pareva di raggiungere il passato, recuperando gli oggetti,
aggiustandoli. Verniciando le sedie, le porte. Ma aveva anche la sensazione
di costruire qualcosa. Di porre davanti a sé un’ipotesi o un pezzo di
futuro.
Ogni volta.
Rimettere in funzione quella casa, prendere una quotidianità diversa, nuova,
ritrovare i passato, ma farlo diventare una prospettiva.
Cancellare gli errori, anche.
Ricostruire.
Le pagine dei libri riesumati dalla cassa sono ingiallite. Ne sfoglia uno e,
in un lampo, ricorda sua madre, che ora gli appare giovanissima e lo
commuove, richiamarlo dai giochi, brandendo proprio quel volume. Aveva
quattro anni, lui, era estate, e voleva solo star fuori a giocare.
“Io la so fare la firma!!!” Aveva protestato.
“Non basta saper firmare, nella vita!” Lo aveva raggiunto in due falcate e
gli si era parata davanti, risoluta. Un’ombra immensa contro il cielo
azzurro, Gwen. Soffiava una leggera brezza. I capelli gli solleticavano il
collo. Li scostò con la mano, sentendo la cicatrice di qualche tempo prima,
altri giochi spericolati, un crollo dall’albero e la mamma, quella volta,
gliele aveva suonate. Addolorata, preoccupata, ma implacabile. “Tu sei
figlio unico”, gli aveva spiegato, passato l’urgano. “Abbiamo solo te. Per
scelta. Per farti vivere decentemente, senza troppe rinunce. Noi vogliamo
che tu abbia un futuro.” Ragazza pratica e lapidaria. “Vedi di non
azzerarti”, aveva concluso.
“Papà”, aveva cercato riparo lui nel complice di genere.
“Ha ragione la mamma”. L’aveva guardato, un fascio di carte sotto il
braccio. Poi, con gli occhi che gli ridevano, aveva aggiunto. “In effetti,
fossi in te eviterei di suicidarmi in tenera età.”
“Che significa?” aveva domandato, scuotendo la testa.
“Significa: non buttarti giù dagli alberi. Dal tetto. Dalle finestre. Non
annegarti nel fiume e neanche nel mare. Non infilarti nelle stufe, né nei
camini”, aveva elencato, paziente, contando sulle dita, poi scompigliandogli
i capelli. “Avrai tutto il tempo, sai… cerca almeno di arrivare ai
turbamenti d’amore di un adolescente inquieto!”
“Stephan! Ma che gli metti in mente, povero bambino!” Lo stesso povero
bambino che lei stava corcando di responsabilità e sottraendo alle gioie
spensierate dell’infanzia, ascoltava, esterrefatto.
“Agli amori infelici…”
“Taci, sciagurato!”
“Capito, André? Come me con la mamma…” e se ne era fuggito, sornione, con le
sue carte, lasciandolo attonito, dopo aver stampato un prudente bacio sulla
guancia della gentile e risoluta consorte.
La quale, appunto, tornando al flusso di coscienza precedente, aveva
ricordato al pargolo, sempre incombendogli sopra, che, nella vita, bisognava
non solo firmare, ma saper leggere, e bene, e scrivere, bene. “Altrimenti,
non sai neanche cosa firmi!” Quindi.
Quindi.
E gli fa tenerezza, ora, quel librone una volta minaccioso, gli fa tenerezza
sfogliarlo, rivedere la calligrafia di lei, e la sua, incertissima.
Ricordare lei, che, china sui fogli, nella luce ampia del giorno
inchiostrava in bella le sigle appuntante a matita dal marito e, sui grandi
fogli che lui usava, acquerellava, attenta, in tinte leggere con inchiostri
diluiti le campiture dei progetti. Gli si stringe il cuore al pensiero di
quanto tenevano a lui, chissà che speranze avrebbero avuto per il suo
futuro. Lui che, se la nonna non l’avesse preso con sé, sarebbe finito in un
istituto di carità di una città lontana o, peggio, per strada, e le vicine
lo avevano aiutato ad evitarlo, anche solo per un brevissimo periodo,
nutrendolo, occupandosi di lui.
Quante cose quasi perdute, così distanti nel tempo, a pensarci.
Ancora immerso in quei ricordi tanto remoti da parergli irreali, come
fossero suoi e, insieme, di una persona diversa, si è seduto, a sfogliare
quelle pagine, come a cercare.
E lì si è risvegliato.
Dopo.
Sente freddo.
Si solleva, un po’ indolenzito. Gli altri libri recuperati li ha rimessi in
ordine, per bene, nello studio. Chissà se Oscar ne porterebbe qualcuno dei
suoi? Quelli che rilegge più spesso, quelli che ama.
E magari qualche copia degli spartiti. Ma un piano, qui, dove lo
metterebbero? Forse sarebbe più semplice con il violino, se lei si adattasse
a stare senza il pianoforte per qualche tempo… gli manca ascoltarla suonare.
Ci vorrebbe uno studio. La casa delle fiabe, in formato ridotto… Gli manca
il suono pieno, nitido, che riempie la stanza. Che ti raggiunge proprio
dentro il cuore. Dentro la testa. Restare a guardarla fintamente assorta, un
leggero sorriso che, ogni tanto, aleggia, perché sa che, dopo, lui si farà
più vicino, e comincerà a baciarla. Mentre, intanto, appena dietro di lei,
le sfiora una spalla. I capelli.
Quanto vorrebbe fosse lì.
Alza le spalle, scacciando quei voli pindarici. Quasi dovesse vergognarsene.
E lo fa, se ripensa a quell’ultima scena tra loro, lei al piano. Meglio
archiviare i pensieri neri ‒ stare ancora più male, rivangare: non serve a
niente ‒.
È vero, ma intanto sta venendo a patti con se stesso. Con la nuova
situazione. Lentamente, costruendo, sta accettando le cose.
Sta imparando a convivere con i momenti di buio. Un po’ per volta, sta
riuscendo a capire come affrontarli. Come muoversi. Come continuare a
vivere.
Ora, forse, può tornare. O cercarla.
Cosa sta facendo lei, ora? Ha evitato di domandarselo per giorni.
Improvvisamente, tutto si scatena. A quel pensiero, ricacciato in fondo
all’anima troppo a lungo, lo avvolge una nostalgia terribile. Dolorosa. Una
cappa nera e soffocante che gli serra il cuore e quasi non lo fa respirare.
Rivede lei. I loro luoghi, anche i non-luoghi, le cose che non potranno mai
avere e neanche mai essere. E desidera stare con lei. Vicino. Presente.
Mettere fine a quella separazione.
È qualcosa che lo lascia senza fiato, che avviene senza quasi prenderne
coscienza. In una violenta istantaneità.
In momenti così si sente schiacciato.
Paralizzato, senza voce, soffocato, come negli incubi.
Interdetto, come attonito. In un prolungato calvario di sofferenza che lo fa
stare male. Malissimo.
Ma a che serve…
Che senso ha…
Ora basta.
Tira fuori con gesti febbrili dal cassetto della scrivania della carta,
ingiallitissima, e gli inchiostri quasi secchi. Non è cosa.
Esce, di corsa. Carta e inchiostro nuovi.
Sceglie, senza poter fare a meno di voler selezionare quello che preferisce.
Il cuore gli martella nel petto.
Chiede al negoziante di potersi appoggiare al banco, così, di fretta.
Scrive. Mentre le mani gli tremano e la calligrafia non sembra bella come al
solito. E il rivenditore ogni tanto gli getta un’occhiata incuriosita.
Si informa su come spedire. Quando passa il corriere.
Fa tutto di fretta. Prima di cambiare idea.
Poi, come svuotato, pacificato, torna a casa. Stranito, anche. Sospeso.
L’ha rivisto bambino.
Come un lampo che
squarcia la realtà, e ora ricaccia in fondo alla memoria le immagini,
talmente vivide da ferirla, che, prepotenti, le sono comparse dinanzi agli
occhi, nel vedere Fersen con Louis Charles.
In un flusso, che
quasi la lascia stordita, ritrova visioni di André, a pochi anni, con suo
padre, ancora vivo. Cose che neanche pensava di ricordare. Di loro due,
bambini, sempre insieme, le loro mani, così piccole, spesso sporche, i loro
giochi, lui che la guarda, come a sostenerla, orgoglioso di lei, luminoso.
Di suo padre, mentre, fiero, severo, le insegna personalmente a tirare di
scherma e a sparare, oltre alle lezioni del maestro d’armi. Il generale non
era mai stato affettuoso come le era parso il padre di André, quelle poche
volte che l’aveva visto, in visita alla governante.
Sono pensieri
improvvisi, incontrollabili, scaturiti dalla visione di Fersen col presunto
figlio, così simili tra di loro. Il carattere ombroso della principessa
contrasta con quello solare del fratellino, che ama stare al centro
dell’attenzione e, inseguendo il delfino nella sua predilezione per Oscar,
tenta anche lui di attirare l’attenzione del colonnello in rosso e degli
altri adulti attorno a lei. E lo straniero alto gli piace, così diverso,
quindi lo cerca e lo tiranneggia come può, visto che lui lo lascia fare,
letteralmente sopraffatto.
Si passa le mani
gelate sul viso, un gesto informale che le sfugge, rispetto al protocollo e
che Fersen, che, di tanto in tanto, le lancia uno sguardo, da lontano,
registra. Sembra davvero persa nei propri pensieri, annota, chiedendosi se
sia vera la voce che circola, che ha deciso di lasciare la Guardia reale.
Oscar ricorda come, a
volte, quando era ragazzina, avrebbe voluto domandare alla governante dei
genitori di André, ma si era sempre censurata, perché sentiva che c’erano
dolori che erano troppo, indicibili. Così, quando si era scoperta innamorata
di André, nel bisogno di ritrovarlo il più distante possibile nella propria
memoria, cercandone traccia nei
ricordi, aveva recuperato immagini di lui, prima dell’ingresso nella propria
famiglia, alcune delle quali contemplavano come la percezione positiva di un
uomo, accanto a lui, che aveva cura, affetto per il figlio. Non avrebbe
saputo dire altro, ma era una sensazione che le dava calore, confermata
dalle rare cose che André aveva condiviso con lei, lo sguardo distante, la
voce lontana, come esitasse a toccare i ricordi, come potesse soffrirne.
Come li avesse blindati in un luogo remoto di sé, e parlarne li
risvegliasse, dolorosi, perduti.
Ora, dinanzi agli
occhi, vede giocare col pargolo un Hans che, chiaramente, ama la vita che
fa, non ha certo l’aria di un uomo da famiglia; eppure, come parecchi
scapoli, sembra divertirsi nei momenti in cui i bambini li cercano,
godendosi gli attimi, assieme al sollievo di non doversene occupare oltre,
quando urla e pretese superano la soglia del tollerabile e non ci sono
balie, governanti o istitutori che tengano. Mentre il padre di André
sembrava diverso, pareva tenere al figlio, trattarlo comunque con dolcezza.
Forse, come lei, André era stato un figlio voluto, ma, a differenza sua,
accettato così com’era, non modificato al volere dei genitori.
Lei, ad André, non
aveva domandato quasi niente. Un po’ per pudore, per timore di ferirlo. Un
po’, perché, in fondo, la loro vita insieme era cominciata così presto che
il tempo mancante era davvero breve e, fino a quel momento, si era fatta
bastare i proprio ricordi e poche domande. Adesso, improvvisamente, si rende
conto che vorrebbe sapere di più. Che vorrebbe potergli chiedere di sapere.
Un tocco leggero sul
braccio. Girodel, discreto, la fa riaffiorare al presente.
“Attendo notizie a
breve”.
Un tuffo al cuore.
Ma, nell’incontrare
la luce che illumina gli occhi di Oscar, non riesce a non lanciarle uno
sguardo troppo carico di verità.
Avete davvero deciso di andarvene, vorrebbe domandarle, ma non è il
momento. Né il caso. Non voglio
allontanarmi da voi…
Non voglio perdervi…
La fine del turno non arriva mai, nell’ansia di nascondere l’agitazione di
cui è preda. Quanto a breve, si domanda, impaziente.
Impartisce gli ordini, nervosa, un tono di voce troppo secco, per non
sembrare – a se stessa – inadeguata, senza riuscire a smettere di averlo nei
pensieri.
Lo ricorda, bambino, giocare con lei. Le inventava storie, racconti.
Streghe, fate, dame e donne combattenti. Era pieno di fantasia, e lei, ora,
si domanda dove li avesse appresi, se dai genitori, se dalle leggende
locali. All’epoca, neanche ci aveva pensato, tanto era scontato ascoltarlo
parlare, registrando appena, nella mente, che lui era bello, mentre si
voltava ad ascoltarne la voce. Mentre, al tavolo, con lui, il mento poggiato
a una mano, lo osservava.
Poi, erano cresciuti, e lei aveva temuto che tutto, nell’innocenza che
vigeva tra loro, andasse perduto. Erano finiti i giochi, le favole erano
sparite da prima, c’era quasi ormai un velo di imbarazzo. Non sapeva, Oscar,
che anche André si domandava se sarebbe svanito, se loro due avrebbero
saputo annullarlo o se, invece, quello che loro due erano stati, in assoluto
e l’uno per l’altra, sarebbe andato perduto.
Eppure, anche nell’adolescenza, nonostante tutti i mutamenti che li avevano
investiti, e l’incarico di Oscar, così incombente tra di loro, erano
riusciti a ritrovarsi.
Cambiati, necessariamente diversi, ma erano lì.
E, invece, negli ultimi tempi, è successo troppo. E lui si è fatto così
silenzioso.
Lo pensa anche la nonna, fonte del conforto assieme, ormai, a Victor, ai
suoi piani di contattare medici e ai ricordi.
“È vero”, ammette. “Era diverso dal solito…”
“Tu lo sapevi?” Domanda improvvisamente, Oscar, incapace di frenarsi.
È stato un attimo: l’istante in cui ha compreso, in cui si è resa conto che
deve parlarle. Ma non ha il coraggio di svelarle quello che sa. Che farebbe
soffrire anche lei.
Nanny ferma il
lavoro. La guarda. Si aggiusta gli occhiali.
“Che cosa?”
“Che sai di lui? Di
questi ultimi tempi. Dell’occhio. Non sai niente?” Un interrogatorio.
“No, bambina. Cosa
dovrei sapere?”
La fissa.
“No. Io so soltanto
che è andato dal medico. Quando gliene ho chiesto la ragione, ha risposto
che era una semplice visita di controllo e che l’occhio destro se la cavava
benissimo. Perché? C’è qualcosa?” Inizia a preoccuparsi.
Riflette in fretta se
è il caso di allarmare una povera anima oltre alla sua. Per ora decide di
tacere.
“No. Sto solo
cercando di capire dove possa essere andato.”
“E dove vuoi che
vada? Non ha altro po…” Si blocca. Porta le mani al viso. Esterrefatta. Poi,
le lascia ricadere. “No! Un altro posto c’è!”
*** Grazie, davvero, a Sydreana
Continua
Laura, da autunno 2013 a novembre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2016
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com