L'alba
VI
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VI
Ancora nessuna novità,
annota, lugubre, rientrando dal lavoro. Ogni giorno deludente, vuoto come il
precedente.
Girodel si è
avvicinato con discrezione, confermandole che la persona è partita.
Bisognerà pazientare un po’, ha concluso. Si sono lasciati, scambiandosi uno
sguardo. Lui, quasi pareva voler osare seguirla con gli occhi, lei è
sfuggita, senza permetterglielo.
Si sfila la giacca,
piegandola sulla sedia in gesti abituali. Finalmente libera dalla
costrizione della stoffa soffocante. Dal peso delle spalline. Slaccia lo
jabot, indossa una camicia più comoda, passandosi le mani tra i capelli.
Si guarda allo
specchio, quasi per caso, incontrando, con sorpresa, una sconosciuta.
Tirata. Pallida. Resta lì, a scrutarsi, come stupita.
Sono giorni che non
tocca il piano. Che non legge. Quando lui era lì, erano cose che la
rallegravano. Studiare uno spartito nuovo, parlare con lui di un libro,
appassionarsi alla lettura erano cose che la facevano stare bene. Ora non ne
ha nessuna voglia, non le mancano neanche. Normalmente, sopravvivere alla
solitudine e, non solo, all’ansia, ha dei costi. Costi che la regina conosce
bene, in un’attività compensativa che ha lungamente e fervidamente
praticato. Per non annegare. Per noia. Per pessime compagnie che propagano
cattive abitudini. Lei, diversa, certamente estremamente introspettiva, coi
molti vizi della lettura, della musica, della scherma, delle uscite a
cavallo, eppure, ogni passione ora è spenta, appiattita nella voragine
dell’assenza. E, a parte questo, per fortuna, non ha né coltiva nessun
interesse per gioielli e abiti, altrimenti, se avesse praticato anche lei le
soluzioni della sovrana, in quest’ultimo periodo sarebbe decisamente andata
in fallimento. Sorride, in fondo, di sé, ora che sa che comunque un
emissario è in viaggio, ora che, in minima parte, il grumo di dolore,
dispiacere, egoismo ferito, solitudine sta stemperando. Ora che la ragione
riprende spazio e annota che esistono notizie, certo, poche, scarne, ma
dalle quali si può partire. Sulle quali si può congetturare.
Se non altro, sta
prendendo contatti per dei dottori e non ha mai smesso di allenarsi.
Nonostante tutto.
Ogni giorno ha inviato
messaggi, sollecitato risposte, incontri, poi, si è sfiancata di esercizi,
quasi trovando pace in quella routine di completamento del lavoro. Ora, con
la mente volta a obiettivi pratici e coi muscoli indolenziti, può almeno
distendersi sul letto di lui. Troppo stanca per dormire, troppo triste.
Esattamente come quando si è troppo felici.
Allungando una mano a
impossessarsi di uno dei libri di André. Sentire la carta tra le dita.
Ricominciare a leggere… ricominciare da dove ha smesso lui. Tenere un filo.
Con lui.
Infine, senza neanche
accorgersene, nel crepuscolo che si fa notte, abbandonarsi all’oblio del
sonno, mentre il libro scivola sul pavimento, le pagine come petali, veli
impalpabili, l’una sull’altra.
“Che stai facendo?”
“Leggo…” risponde quasi noncurante.
Le si avvicina da dietro. “E cosa?” Nel tono
consueto, come possa essere ancora tutto normale, tra loro.
Vede i suoi capelli e prova un brivido,
nell’avvicinarsi. Ansia. Tenerezza. Ma non riesce a mettere a fuoco le
lettere, osservandole dalle spalle di lei, seduta.
Non riesce…
Si riscuote dalle
fantasticherie. O dai pensieri.
La casa è ormai nella
penombra. Stanco, posa a terra l’ultima cassa, nel disimpegno. In un
brivido, nota che si sta muovendo al buio, anche senza candele.
Un respiro trattenuto.
Basta! Scaccia subito l’ombra.
Immagina lei
sorridere, nell’ombra. La immagina lì. Presente. Come se, dai sogni di
prima, si sia materializzata e stia posando il libro e domandandosi, ancora
un po’ presa dalla lettura, “Che si mangia, stasera?”, mentre si alza,
guardandosi attorno, si sgranchisce. Quasi gli pare di comporla,
fisicamente, con gli occhi della mente.
Davvero, che stai facendo, ora, Oscar?
In questo preciso momento… stai bene? Va tutto bene?
Quella anomala
lontananza dal mondo non gli dispiace, in fondo, ma lei, sì, gli manca, in
quel disegno, dilavato quasi dalle ombre della sera, che avvolgono tutto,
restituendo un’immagine potentemente malinconica. Dilaniante, senza il
conforto della presenza. Con lui, lì, immoto, prima, ragazzino sconosciuto,
poi, sodale, infine, complice e, solo dopo, infinitamente troppo tardi,
compagno, tutto, vita. E ora…
Si asciuga il sudore,
scostandosi i capelli dal viso. Stanno ricrescendo.
Ricorda quando lei,
prendendolo un po’ in giro, aveva notato che gli stavano bene e lui, di
fronte alla nonna, era arrossito, tra il compiaciuto e l’imbarazzato, poi,
incapace di trattenersi, l’aveva abbracciata stretta, mentre nanny,
sbalordita, sbarrava gli occhi, e Oscar anche.
“Oscar…”
Si passa la mano sulla
nuca, una sensazione strana a cui ancora non si è abituato, dopo anni di
capelli lunghi. In un brivido, improvvisamente, si ritrova a ricordare le
mani di lei su di lui. Lei, così inaspettatamente scoperta, nell’amore.
Quelle mani.
La sua voce. Ancora
mani. Gesti. Poi, parole.
I loro discorsi di
quel periodo, discorsi che li avevano quasi allontanati.
Momenti in cui lui,
osservandola, notando come, a volte, quasi incassasse la testa, per poter
fingere di procedere senza giudicare, senza notare, senza guardarsi attorno,
ecco, lui a tratti provava rabbia.
Oscar come puoi? Come sopporti la vita a
corte? Poi, più radicale.
Quanto menti a te stessa? Quanto nascondi di quello che ti tocca
ingoiare? Avrebbe voluto dirle. E talvolta aveva provato a parlare…
“Sua maestà… il
cerimoniere…” aveva annotato, polemico, di fronte all’ennesimo rinvio di
udienze a cui avevano dovuto mettere una improbabile pezza. “E tu ogni volta
devi affannarti a trovare mille scuse plausibili per coprire le loro
pretese.” Le loro debolezze...
Aveva abbassato gli
occhi. E noi, non abbiamo debolezze?
Non tormentarmi… Uno scarto impaziente.
Avrebbe tentato di
rispondere, ma la decenza le imponeva di rimanere in silenzio. Avrebbe
preferito lui tacesse. Senza inchiodarla.
È onesto che chi ha tanto potere possa
permettersi tutto? “Sei sicura di
doverti affannare ancora a difenderli?”
Aveva girato la testa.
Per non parlare. Ma lui aveva insistito.
“Pensi davvero che
quello che ti ostini a definire ladro non abbia una enorme parte di
ragione?”
“Ruba!” Era infine
esplosa.
“No”, aveva scosso la
testa. Deridendola. In fondo era così triste. “No. Applica una giustizia
redistributiva.”
Lo aveva fulminato.
Gli occhi sbarrati. Quasi furibonda.
Lui aveva aggrottato
le sopracciglia. “Lo sai anche tu”. La voce seria. Ferma.
Quella delle grandi
occasioni.
Aveva abbassato i
pugni, lei.
“Oscar... loro
rubano”, accennando alle stanze dorate. “Loro vivono sulle spalle di chi
produce, di chi lavora…”
Perché? Perché devi difenderli così?
Mentire a noi due?
A te stessa?
Poi, c’era stato il
ferimento. E tutto.
Tutto era una parola
con cui non era facile riassumere il senso di mille pensieri, di giorni, di
nero, di bende, sangue, dolore. Del riemergere, poi, quasi annaspando a
chiedere ossigeno. Dalle profondità. Dall’abisso. A volte, nel buio, quasi
gli mancava l’aria. La mattina, svegliarsi faceva paura, era come risalire
da acque profonde, oscure, e cercare la luce, il respiro. Tutto non bastava
a spiegare quanto quel taglio avesse rappresentato una cesura, tra loro due.
Per motivi che avevano poco a che fare col loro reale rapporto e coi loro
sentimenti.
Quasi un inizio della
fine. Eppure erano ancora lì. Innamorati. Nelle loro distanze. E le parole,
anche quelle non dette, erano sempre sfumate in gesti. Baci. Corpi.
Anche quando lei, a
tratti, sembrava come lontana, persa nei pensieri. Ma era lì. Nelle sue
braccia, quando gli aveva posato tanti piccoli baci, leggeri, sulla pelle,
delicata, attorno alla ferita, poi sulle labbra, morbide. C’era ancora
un’attrazione fortissima, tra loro. E un amore che non era possibile negare,
né nascondere.
Poteva solo essere
protetto.
Da altre ferite. Da
altro dolore.
E ora siedi sul letto del bosco, che ormai ha
il tuo nome
E ora il tempo è un signore distratto, un
bambino che dorme…
Ricorda la loro prima
volta…[1]
Tanto, troppo tempo fa, si scopre
a pensare, provando un desiderio improvviso, struggente, dilaniante, di
stringerla, di averla, e non solo per fare sesso. Di averla lì, presente,
con lui. Insieme.
Di nuovo insieme.
E ora, in quel
crepuscolo, lui è lì. Loro due, quasi inspiegabilmente, distanti. E lui così
lontano, a provare una nostalgia indicibile. A darsi del coglione, perché
quella strana quotidianità di assenza che si è costruito, che qualche tempo
prima avrebbe trovato inconcepibile, improponibile, ora, che è stata
affrontata, cercata, gli è quasi diventata di conforto. Privandosi di Oscar,
che era per lui aria, luce, vita, ha dimostrato a se stesso di poter
affrontare il buio. Un abisso spaventoso, nero, soffocante, opprimente.
Certo, Oscar non è perduta, è solo lontana, è diverso, ma per lui è sempre
stata tutto, un tabù pensarla via, distante. Aver affrontato quella prova
solo, senza di lei, forse vuol dire che, in qualche modo, il resto… anche il
resto…
Quella lontananza pesa
anche in ciò che significa.
Loro due, che erano
vicini e, infine, si erano trovati, a riscoprirsi distanti. Isolati. Ad
ammettere di poter fare a meno l’uno dell’altra – sia pure in una
prospettiva temporanea –.
Noi… noi siamo entrambi soli…
sbarra gli occhi, serra i pugni, mentre si rende conto del pensiero che la
sua mente sta formulando. Siamo ritornati soli, come eravamo da bambini…
Tu basti a te stessa.
Io riesco a supplire alla tua assenza…
È mostruoso…
Scaccia l’idea. No,
non è così, e, anche se lo fosse, lui non vuole accettarlo. Non gli
interessa fare a meno di Oscar, non è per questo che è lì. È per
ricostruirsi, ritrovare se stesso, per lasciarle spazio e tempo di reagire.
Insieme non sarebbe forse possibile. Ora, lui deve diventare più forte.
Guarire. E anche lei.
Si asciuga le lacrime
che, improvvise, non è riuscita a frenare, nell’emozione lacerante che l’ha
colta a quel ricordo ingrato, scomodo. André, che si era irrigidito quando,
spazientita, gli aveva strappato dalle mani un biglietto, che lui faticava a
leggere, senza rendersi conto della ragione per cui non ci riusciva.
“Dai a me”, e ora
rammentava la fugace espressione di stupore, umiliazione, che lui si era
affrettato a cancellare per pudore, per vergogna, domandandosi come avesse
potuto essere così incapace di intuire, di notare i segnali. Che, pure,
c’erano. I movimenti più incerti, lo sguardo come smarrito, lontano. Quel
leggero serrare gli occhi, come a poter vedere meglio.
Si sente malissimo. Un
macigno inatteso nel cuore. Vorrebbe poter cancellare tutto, volare da lui,
come portata dal vento, abbandonarsi nel suo abbraccio, ma la vorrebbe,
ancora?, almeno annegare nei sogni…
Respira, cercando di
riprendere il controllo.
Sente il freddo, alle
spalle, allontanandosi. Non è come quando lui c’era, appena un passo dietro
di lei o accanto, e quella presenza era salda, costante, discreta. Si era
costruita negli anni, perfettamente adeguandosi.
Ora è tutto diverso.
Ma, almeno, almeno… Proverò a curarti…
io ci proverò…
Inutile cedere alla
disperazione. Passa la mano sul suo cuscino, come a toccare una traccia di
lui, in un gesto quasi rituale, che, in qualche modo, la sostiene, assieme
al suo proposito, alla traccia di Girodel.
Scende di sotto,
cercando un contatto umano. Per essere confortata, e rabbiosamente scaccia
l’idea nera che qualcuna, lontano, chissà dove, conforti lui. Per non
cedere, sola, ai pensieri che la abbattono.
Stupido!, torna… Stupida sono io…
“Niente nuove”,
afferma Oscar, raggiungendo le cucine.
Poiché ha informato la
governante del tentativo di Girodel, ora ha l’incombenza di aggiornarla e di
resistere, senza sottrarsi, a domande di cui non conosce le risposte.
Che pena per la nonna.
Li ricorda quasi sempre insieme. Gli occhi di lei scintillavano. Quelli di
lui si illuminavano di lei, seguendola, accompagnandola. Da tutto quel
tempo. Così belli, insieme. Una gioia e un dolore, vederli, sapendo che mai,
mai… e invece, quei due incoscienti…
Non le pare vero, il
tempo che rovina le cose, le annoda senza pudore, le straccia. Le cose. Le
persone.
“Non ti ha detto
proprio niente…” ancora sulla porta, Oscar la interroga.
Scuote la testa,
lasciando quello che stava facendo. “Figurati…” Cerca le parole. “Per certe
cose è così riservato…”
Le si siede accanto,
Oscar. “Strano”, sorride. “Invece riesce sempre a far parlare le persone…”
“Gli altri, non lui”,
precisa la nonna. “Vedi…”, sceglie di proseguire su un terreno accidentato,
“qui era chiaro a tutti che era innamorato di te”, ammette, distogliendo lo
sguardo per non doverla vedere arrossire.
Oscar, allarmata,
sulla difensiva, pronta a incassare, la schiena tesa.
“Ma, vista la
situazione, tutti pensavano avesse qualche storia senza impegno… fuori…”
alza le spalle, come a dire così va la vita, mentre Oscar, sospesa, cerca di
mantenersi impassibile. “Così, no…?”
“Tanto per sfogarsi”,
completa Oscar, cinica.
Alza i palmi in alto,
Nanny. “A casa sono sempre gli ultimi a saperlo”, consente, neutrale. “Ma
lui, niente! Non guardarmi così, ho i miei informatori!” La rimbrotta la
nonna e lei si sente più leggera.
“Dopodiché, salta
fuori che state insieme…” conclude, in un gesto, “e anche stavolta si era
tenuto tutto dentro.”
Un tuffo al cuore, un
rossore improvviso, a ripensare alla scena. Lui, che, incapace di
trattenersi, davanti alla nonna l’aveva abbracciata stretta, felice. Lei,
sorpresa, era rimasta avvinta in quel gesto, intenerita, riscaldata da
quella gioia così scoperta. Avevo
paura, allora, eppure, nella distanza, sembra tutto più semplice. Avevo
paura di lasciarmi andare. Di tradire mio padre, i suoi piani. Avevo paura
di cambiare… André, invece, lui no… ha sempre avuto più coraggio di me…
Si allunga sul tavolo,
mentre la governante le accarezza i capelli. “Dove sarà, ora… che starà
facendo…”
“Probabilmente starà
pensando a te, che gli manchi, bambina…” la consola Nanny.
E a lei manca, manca davvero. La sua voce, tutto. I gesti.
Resta il ricordo, che fa sembrare irreale ciò che davvero si è
vissuto. Che irrompe con una potenza tale, da sembrare ancora vero,
presente.
Fa strani scherzi, ritornare con la memoria, riflette Oscar,
mentre rivede se stessa aggrappata alle sue spalle, respirandogli contro,
impazzita.
Soltanto ora, nella mancanza di lui, riesce a rendersi conto
del senso di sicurezza che le aveva dato il sapersi desiderata, il ripensare
al modo in cui lui la voleva. L’aveva come cambiata, resa più consapevole di
se stessa. Ritorna a sorprendersi, quasi, di quella presa intima e
possessiva con cui la stringeva, qualcosa tutto loro e che li univa. Rivive,
nel rimpianto, nella tenerezza, nello struggimento doloroso, le consuetudini
che erano ormai divenute di entrambi. Come quando, la testa poggiata sulla
spalla di lui, le piaceva addormentarsi riscaldata dal suo corpo. Pacificata
da quella presenza rassicurante.
È
stata una giornata in fondo bella. Piena. Normalmente farebbe altro, ma
stasera è stanco e soddisfatto, non vuole inquinare il ricordo di quei bei
momenti, in cui le cose sono andate avanti e ha avuto la percezione netta di
stare costruendo qualcosa; non vuole rovinarlo con stonature e dissonanze.
Reimparare la serenità. O qualcosa che ci si avvicini.
Considera le assi di legno. Sono belle. Resistenti.
Ci
passa sopra una mano. Sente la loro consistenza piena, un po’ rugosa.
Respira, appagato.
All’imbrunire, in piedi accanto alla stufa, assaggia la zuppa. Ha chiesto
alla vicina come fare. Ha messo insieme i ricordi della nonna. Gli manca
quello che gli preparava. Ma forse ha del talento, ha ripreso dall’ava!
Ed
è andato fino in città, e poi oltre, per trovare i pezzi per riparare la
stufa della cucina, che ora funziona di nuovo. Ha anche in programma di
riverniciarla. Sorride di sé. Sarebbe carino vivere insieme, proprio insieme
come due sposini! Gli si gonfia il cuore di speranza, quasi di commozione.
Di amore. È cotto come ai primi tempi. Si sente scemo, un quindicenne
innamorato perso. Anzi, forse peggio, visto che è recidivo.
Eppure, eppure lo desidererebbe tantissimo.
Certo, Oscar non avrebbe nessun interesse a quel genere di entusiasmo che ha
messo lui nelle riparazioni e che sta impiegando nel far funzionare di nuovo
le cose, anche, semplicemente, nel prepararsi un buon pasto. Non ne ha
bisogno. Neppure lui, a ben guardare, prima di ora ne ha avuto. Eppure, nei
prossimi giorni, vorrebbe terminare di verniciare i mobili di un colore
luminoso, e rendere tutto più bello. Forse la userà poco, forse non ci
tornerà mai, o forse sì – ed evita di usare e sperare nel plurale –, ma quel
suo piccolo progetto, tutto suo, vorrebbe non abbandonarlo.
Finirlo prima di…
Di? Di che cosa, André, dillo. Quanto tempo ti sei preso? Quando pensi di
tornare? O vuoi restare davvero qui, a fare l’orso nella caverna?
Mentre carteggia il mobiletto che ha portato fuori, per dipingerlo sperando
che il tempo regga, si ferma, giusto un attimo, a scrutare il cielo. Resta
assorto, abbagliato dalla luce. Dal candore abbacinante delle nuvole
soffici. Finché non è costretto a distogliere gli occhi. Gli pare di
penetrare, nell’azzurro, l’infinità del blu, poi del nero dell’immensità. Si
sente come se stesse facendo un salto nel vuoto. Per qualche istante gli
manca il respiro.
Poi, riprende a lavorare.
Un’ombra si fa avanti.
Solleva lo sguardo.
Cerca nella memoria. È il tizio che si è fermato a parlargli del padre,
quella volta, con le comari.
Le
mani in tasca, inquadra soddisfatto la scena.
“Ben fatto, ragazzo!”, gli batte una mano sulla spalla.
E
lui sorride, certe approvazioni valgono più di tante cose.
“A
proposito, l’altro giorno c’era un uomo, un forestiero, che girava qui
attorno…”
Alza le spalle, lui. “Sarà stato un viaggiatore…” minimizza.
“Strano, però… sembrava proprio interessato a te…”
*** Grazie, davvero, a Sydreana
Continua
Laura, da autunno 2013 a novembre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2016
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] Da Laura, “12”, 2007, Laura’s Little Corner, quoting F. de André, Hotel Supramonte.