L'alba

V

Warning!!!

 

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V

 

Gli pare di starla mettendo su proprio bene.

La vernice sta asciugando e la tinta gli piace.

Anche le comari, che si sono presentate a sorpresa, con dei biscotti e un po’ di stufato e zuppa, hanno approvato. E lui sorride, sornione, alle loro battute, e scambiare due chiacchiere non gli dispiace. Però in certi momenti i pensieri risalgono il livello della coscienza. A tradimento si insinuano e aprono crepe dolorose.

E, sebbene lui si dica “Avanti, non fare l’orso”, perché, a volte, gli pare di essere diventato totalmente silenzioso, si rende conto che in alcuni momenti il suo sguardo vaga come perso, distante, come se stia cercando di raggiungere qualcosa di lontano. Perduto.

Se stesso. Una sorta di nucleo di sé. O lei.

Sono momenti.

 

A volte pensa a una casa sua, ma la verità è che lui lì, a parte le mura, non ha niente. Non ha una realtà, lì, la sua è lontana, e non ha neanche modo di costruirsi qualcosa, e comunque niente che abbia a che fare con Oscar. Oscar stessa, la sua presenza, glielo impedisce. Se lo proibisce da solo, come a non voler neanche sognare. Non sarebbe sognare. Sarebbe cancellare. E lui non saprebbe come ricostruirsi. Non ora. Non così.

Al massimo, quella casina, mettendola a posto, potrebbe sperare di rintanarcisi insieme a lei, qualche giorno ogni tanto, sempre che a lei vivere in un posto simile, tanto distante in mille cose dai suoi standard abituali, potesse andare bene.

Certo, si vede lui ai fornelli, non certamente lei, ma è un pensiero che non stona, anzi, lo diverte. Si immagina, rammollito dagli agi e dalle abitudini, perso dietro cose semplici. E sorride al pensiero. Perché non dovrebbe essere possibile puntare tutto sull’appagamento nel privato? O, almeno, in una finestra di tempo, nel privato?

Bisogna per forza raggiungere alti obiettivi, essere i migliori?

È anche strano che, proprio lui, che ha difeso il ladro mascherato, si trovi lì a riflettere di queste cose. Che contrasto con l’André che rintuzzava le aspre parole di Oscar, che cercava in qualche modo di dirle che, prima o poi, qualcosa di quel mondo iniquo si sarebbe dovuto scardinare. Il taglio ha cambiato così tanto, nella sua vita. Non le idee, ma lui ora è stato costretto a fermarsi, preso dal doversi ricostruire. Da una fuga, per tornare più forte, diverso. Certo, pensa ancora che, in una società più giusta, tutto sarebbe più semplice. Ognuno, forse, indipendentemente dai natali, potrebbe sperimentare maggiori opportunità, fatte salve le incredibili possibilità della realtà vera, che supera sempre la fantasia. E, volendo pensare oltre il rannicchiarsi nel privato, volendo provare a volare più alto, sarebbe degno di un essere umano poter dare un contributo a una maggiore equità sociale. Ma sono discorsi che, tra lui ed Oscar, in certa parte suonano come terreno accidentato, in altra come indicibili, se ripensa alla situazione di pochi mesi prima. La stessa situazione che si è concretizzata letteralmente sulla sua pelle. Quella stessa che, infine l’ha condotto lì, appunto, raccolto in se stesso, a riflettere sulla vagheggiata fuga nel privato. Possibilmente con Oscar.

Chissà che direbbe, lei. Dinamica e inarrestabile. Le farebbe piacere leggere, al calduccio, davanti al caminetto, loro due soli, ma soli davvero? Senza sempre temere che entri qualcuno e li scopra? Almeno per una vacanza? Per una fuga, ogni tanto? Lì, in quella stanza che a lui pare calda, accogliente. Così sua.

Oscar, che ama esercitarsi, ma anche leggere. Riflessiva, ma impetuosa. Così dinamica, davvero.

 

Già, ma lo è perché c’è lui.

Improvvisamente, si domanda cosa sarebbe Oscar – e cosa sarebbe stata –, senza di lui.

Cerca di ritornare a come l’aveva conosciuta. Una ragazzina che, in fondo, nascondeva la vera se stessa anche agli altri, oltre che a sé, tutta impegnata a sembrare più forte, perfetta. E che, in fondo, forse avrebbe desiderato essere trovata, ma soltanto da un eletto, da qualcuno che lei avesse accettato nella sua vita. Si era domandato per quale motivo, poi, fosse toccato a lui quel privilegio inusitato. Perché era chiaro che, ad un certo punto, lei aveva compiuto il passo. Aveva deciso. Gli aveva accordato una fiducia timida, risentita, altera. Lasciandosi scoprire. Lasciandosi, dopo, scegliere.

E con lui, da allora in avanti, era rimasta così, nei suoi momenti più veri. Quando non indossava la maschera e non doveva nascondersi. Fingere. O, perlomeno, trattenersi troppo.

Eppure, quella persona ardente, incapace di tollerare le ingiustizie, quella persona troppo intrinsecamente coerente, giusta, era talvolta venuta fuori anche con gli altri. E una Oscar impulsiva, irruente aveva a volte squarciato le cortine e si era mostrata, esprimendo le proprie idee più profonde. Rischiando. Procurandosi anche guai. Spesso, mediata, moderata proprio dalla presenza più rasserenante, più pacata di lui. Sapeva, in fondo, Oscar, di poter sfiorare gli eccessi, perché qualcuno, accanto a lei, avrebbe fatto in modo che non ne fosse preda o, peggio, vittima.

Forse loro due non erano concepibili separati. Come per un’impossibilità di natura. Ora, di certo, non lo sono più. Ma il fatto è che, quasi da subito, lui aveva fatto parte della sua vita. Si erano adattati. Plasmati. Creati esistendo.

E, allora, non è soltanto lui ad essere stato cresciuto e condizionato in certo modo dall’essere stato accolto presso quella famiglia.

Anche lui ha comportato, per Oscar, ma anche per loro due insieme, modifiche, adattamenti, dubbi. Un rompicapo. Uno scambio reciproco.

Senza un  bambino coetaneo delle figlie, accolto in casa, forse tutto sarebbe stato più rigido. Ma la sua presenza, di necessità, creava un legame, esistente, reale, concreto, ingenerava dubbi e, se non altro, comportava meno rigidità, una partecipazione non prevista alla vita degli altri. Delle altre. Soprattutto nella vita di Oscar, nei suoi studi, un confronto costante che aveva plasmato due persone diverse da come, forse, sarebbero potenzialmente state.

 

 

Corre precipitosamente verso casa. Vola, sulle scale, senza quasi respirare.

Con freddezza, metodicamente, apre i cassetti, mentre ancora le tremano le mani. Poi, passa ai fogli sulla scrivania. Cerca. Lo sguardo attento, preciso. Fino a che non trova un indizio.

 

Poi, improvvisamente, la realtà irrompe. Un pensiero mostruoso.

Cieco.

Cieco.

Povero André… deve aver introiettato le parole udite poco prima. Che strano, anche, straniante, percepirle pronunciate.

Come farà?

Come si deve essere sentito?

E come? Come ha fatto a tenersi tutto dentro? A far finta di niente? A comportarsi come se niente fosse. Mentre tutto, ogni cosa, i singoli componenti della sua realtà, gli crollavano addosso?

Che cosa poteva aver provato?

Lei, lei, sua amica, sua amante, sua, sua, sua, lei, neanche riusciva a immaginarlo…

E non aveva saputo comprendere. Accorgersi. Anzi, l’aveva allontanato. Senza notare niente.

Quei movimenti rallentati, incerti. Li aveva attribuiti alla necessità di adattarsi alle nuove distanze, alla mancanza di prospettiva… e già così era stata malissimo. Le era parso, poi, che, lentamente, svanissero dai suoi gesti. Si era voluta ingannare. E quelle volte che lui era come perso. Assente. Altrove. Le mani esitavano troppo. Ora capiva perché. Ora capiva quale peso si portasse dentro.

Rimane lì, buttata sul letto. Incredula. Colpita. A prendere coscienza. A non volerlo accettare.

 

Resta il silenzio, della memoria di quei giorni.

 

In cui continua a pensare a quando gli ha detto che voleva lasciare l’incarico. A come si deve essere sentito lui, a immaginare di dover reimparare, senza la vista, cose diverse, luoghi nuovi. Tutto, ogni cosa più ardua, per lui. Senza che lei fosse stata capace di rendersene conto. A quando gli aveva detto che preferiva allontanarsi. Alla fin fine, da lui. Una pazzia. Una pazzia… egoista e insensata.

 

Non ricorda molto altro, se non una lama di gelo, immobile, che la trapassa. Le fa male. Quasi la soffoca.

Non riesce a parlare.

Prova solo un dolore indicibile.

Lei che, muta, a cavallo, si reca al lavoro. Come un automa esegue. La testa china, sempre, irrevocabilmente, sola, torna a casa. Evita la regina, scambia monosillabi di circostanza con Girodel, evita pure Fersen.

In ogni singolo giorno.

Uguale all’altro.

 

In cui vive, soffrendo. Senza riuscire e senza volere tirarsene fuori. Scontando quello che ha fatto, e non le pare abbastanza. Mai abbastanza.

Poi, ad un certo punto, qualcosa subentra. Alla sensazione iniziale di stupore, dolore, poi, impotenza, poi, agnizione, si sostituisce come un’accettazione. Dolorosa. In cui i pensieri, però, si ribellano. La mente tempestata di idee sconnesse, scomposte. Siede, per terra, accanto al letto di lui. Le dita serrate in pugni, attorno alla fronte. “Deve esserci qualcosa che si possa fare… che si possa tentare…” sente la propria voce, quasi estranea, articolare. “Altri medici… cure… qualcosa…”

“Io lo devo curare.”

“Io devo farlo curare.”

E allora, rincorrendo quel pensiero come un’ancora, stringendolo come un conforto, se non un aiuto, dopo un lungo momento di stordimento, si alza. Stanca, rigida, un peso enorme addosso, ma con un obiettivo. Provare a fare qualcosa per lui. Tentare di aiutarlo. Cercare, informarsi.

 

La va a trovare, al tramonto, a casa.

Ci ha pensato, prima di muoversi. E, dopo, prima di andare. Guardandosi allo specchio. Scrutandosi, come in una sorta di comparazione.

André il non-rivale. Lui che, se non fosse per il proprio lignaggio, vorrebbe essere al posto del Grandier, il servitore.[1] Lui, alieno dai moti dell’animo. Si considera freddo. Cinico. Avvezzo alla corte e quant’altro. Più vicino a Fersen. Poco propenso a rapporti e vite come quelle di quei due sciagurati, la sua capa e il suo amato. Ma, negli anni, Oscar detestata, la ragazzina arrogante che gli ha soffiato il posto pur non desiderandolo, l’ha prima conquistato e, in questi ultimi tempi, come avvinto a sé. Per quello che sa essere. Per una sorta di purezza cristallina. Di fragilità, anche. Che lei non si rende forse neanche conto di mostrare, ma che l’ha colpito. Per quella sorta di ridicola, risibile onestà e assieme ostinata cecità ai giochi di corte e di potere. Così poco nobile. Così borghese. Con André, che, semplicemente, ha saputo come starle accanto. Maledettamente adatto.

Sebbene non voglia ammetterlo, Oscar gli piace. Gli piace parecchio e già questa è una considerazione che uno come lui non dovrebbe neanche formulare, figuriamoci elaborare, eppure è così e, ovviamente, mai oserebbe portarla in casa e proporla ai suoi, eppure gli piace proprio, inaspettatamente. Una persona sorprendente. Infilata a forza negli schemi, eppure totalmente fuori da essi. Leale. Adamantina. Forte. E il Grandier, quello che non osa neppure definire il rivale, tanto è infimo, è parte del pacchetto.

Anche il solo immaginare di chiedere Oscar in sposa sarebbe quantomeno sconveniente, per una famiglia come la sua. Lo vedrebbero come uno zimbello o come un provocatore. Oscar, pericolosa anticonformista da domare o trofeo da esibire? Poco importa. La ridurrebbero in ceppi, lo irriderebbero o marginalizzerebbero e lui non se la sente. Meglio continuare ad amarla a distanza. Lasciarla dov’è. Che viva, libera, se possibile, felice, se possibile.

Per quanto.

Censura pensieri e immagini, in prossimità della meta.

Torna se stesso. In un gesto si ravvia i capelli. Si sistema i polsini. È pronto, ora, e si fa annunciare.

 

Eccola. Raramente l’ha vista in tenuta civile.

Eccola. Bellissima. Con la camicia bianca che le illumina la carnagione di porcellana, un velo appena di rosa, splendido, sulle guance. Quegli occhi impossibili. I capelli mossi che la incorniciano. Quasi scocciata, da quell’invadenza. Come a dire che ci fai, qui, come osi invadere i miei spazi privati. La mia vita.

E lui a domandarsi se giochi sporco, la ragazza, se si renda conto di come è, senza uniforme – anche con, a dire il vero –, di quale effetto faccia, con la pelle così bella, luminosa e accesa di vita dalle espressioni, dalla luce negli occhi. Unitamente al carattere. Alla voce. E a chiedersi se riuscirà a resistere ed essere leale (ai suoi proponimenti, non certo al Grandier nullo) fino in fondo. Fino a rinunciare a lei. Cosa che, avendocela davanti, gli pare inevitabile e insieme impossibile.

Si fa coraggio. Un passo avanti. Veniamo al dunque.

 

“Oscar, forse ho scoperto qualcosa.” Non appena restano soli. “Scusatemi se non mi attendevate, ma mi è parso importante…”

Solleva, sorpresa, gli occhi su di lui. “Che cosa?” incredula.

“Su André, su dove possa essere…”

Lo guarda, attenendo che continui. Trattenendo a stento l’’agitazione.

“Scusatemi se… ma ho pensato…”

Notizie. Da un soggetto inaspettato. E, soprattutto, perché non ha avuto lei per prima la prontezza di muoversi in quel senso? Di cercare? Cosa le ha spianato la mente?

Registra quelle emozioni, Victor. Forse c’è qualcosa che la stona, allora. Che la smuove.

“Ho scoperto che…” esita, non sa bene come  nominarlo. Lui, il vostro… il vostro cosa? Amante, servitore, attendente? Ogni cosa rischia di suonare volgare, e forse non lo è, invece. Non è triviale, non è solo uno schifo di storia di padrona che si scopa il servo, di lui che ne approfitta per ottenere qualcosa. Forse è solo, banalmente, amore. “… Che…” recupera, mentre la voce si schiarisce, il filo delle parole. Delle intenzioni. Originarie. “… André ha preso una diligenza.”

Oscar solleva lo sguardo. Aveva immaginato qualcosa del genere. Non mancava il suo cavallo.

“Diretta verso ovest”, conclude lui, a quel cenno di interesse.

 

La nonna ha fatto servire un vassoio, che torna indietro quasi intatto. Si fa vicina alla stanza. Qualcosa ha intuito. Non sa cosa pensare. Il cuore in doppio tumulto. Il nipote. Lei. L’intruso. Certo, quello sarebbe un partito desiderabile, per la bambina.

Che, però, non pare volerne sapere. Gratitudine a parte.

“Porta questo vino”, esorta la ragazza. “E lascia socchiuso”.

 

“Ovest”, si domanda lei? “Siete sicuro? Pensavo verso Nord-Ovest, verso la Normandia…”, azzarda, quasi parlando a se stessa. È una zona che conoscono, ci sono stati in vacanza…

“Sembrerebbe di no…” Scuote la testa, un gesto di diniego.

Poi, riprende. “Penso di mandare qualcuno… ci sono i diritti di pedaggio, ma qualcuno della Guardia può domandare e passare, senza troppi problemi.”

“Quanto vi devo?” Cogliendo l’allusione.

Sorride, lui. “Privilegio reale, noi passiamo gratis…” Raro gesto di complicità. “Paghiamo abiti, gioielli, feste, una volta tanto approfittiamo…” un gesto noncurante della mano. “Absit iniuria verbis”.

Accenna un sorriso pure lei. Poi, aggrottando le sopracciglia, riprende il cipiglio naturale. “Chi può conoscere…” le pare strano…

Come osi andare via senza di me? Finalmente formalizza quel pensiero. Sollievo. E rabbia. Risentimento. Ora che inizia a sapere qualcosa.

Silenzio mentre i servizi segreti irrompono nella stanza.

“Grazie”, dice distrattamente, e poi, aggiunge, rivolta alla giovane: “Chiudete, per favore”. Un minimo di privacy, almeno!

 

“Devo ancora completare una verifica.”

“Va bene…” annuisce. Infine, senza riuscire a trattenersi, solleva lo sguardo su di lui. “Perché lo...”

Non la lascia terminare. “Lasciate che me ne occupi. Se posso aiutarvi….” Leale sì, ma, almeno, avvicinarsi un po’. Solo questo. Solo questo.

“Perché?...” Scuote la testa.

Alza le spalle, quasi noncurante. “Ho dei contatti… lasciatemi tentare…” Sul tavolo, accosta appena la mano alla sua. Ha delle belle mani, nota lei. Ma quelle di André sono più belle, come quelle del David di Michelangelo.

 

La lascia stringendo la mano nella sua, sottraendosi in fretta.

“Grazie, Victor”.

Giusto un cenno noncurante. Ricordando a se stesso non devi crederci, non devi sperarci, fallo e basta.

Conquistare un po’ di tempo con lei. Conquistare un po’ di amicizia. Un po’ di contatto. Sa di non poter chiedere altro. Che lei conosca qualcosa in più di lui. Che lo apprezzi un po’ di più. Almeno, un po’ più vicina.

 

Resta, attonita, a guardarlo andare via. Gli hanno portato il cavallo dalle stalle. I riquadri della finestra incorniciano il saluto che le lascia, la mano alzata, voltandosi appena. Il mantello sulle spalle.

La mano ricade, sfiorando il legno, il vetro, nel gesto che si spegne.

Abbassa lo sguardo sul tumulto che ha dentro. Sulla speranza che non osa erompere, che lei cerca di sopire. Sulla rabbia che riemerge. Sui mille sentimenti contrastanti. Sul dolore che sente, per lui e per sé. Sul rimpianto per non essere stata migliore – ma avrebbe potuto esserlo? – Sulla pena per lui, la vista. Quella solitudine autoimposta – e se non fosse solo? Si macera –. E, comunque, un esilio dalla vita di sempre. Basta, Oscar, basta! Sta con te, lui sta con te. Non ti tradisce. Non è per voi due. È per… non vede più la stanza. Si è mossa d’impeto. Né vede le scale che percorre, la mano dove la metteva lui, per guidarsi, si rende conto, ora, con una stretta al cuore. Né la stanza di lui. Che l’accoglie. E quasi conforta. Lui. Seduta, sul letto, perché, in quella camera, così ridotta, ha perso le abitudini che aveva nelle proprie stanze, di una poltrona, un divanetto, un salottino, uno studio, e ne ha costruite, nelle ore, nei giorni che diventano troppi, altre, che forse sono quelle di lui. Ciò che gli ha visto fare, da lungo tempo adattato a quell’ambiente.

E, lì, seduta, inerme, ferita, cercando consolazione almeno nella memoria, sperando in lui, imponendosi di non dubitare, ricorda quella notte che, di soppiatto, erano scesi a farsi una cioccolata calda.

Lui le aveva preso la mano, di nascosto, in cucina. Mentre scaldava il pentolino. Lei, controllando che non arrivasse nessuno, allora, gli si era fatta più vicina. Fino a sentire il calore del suo corpo. Lo stesso che, fino a poco prima, era stato abbracciato a lei. Lo ricorda, ancora adesso, quel brivido. Può sentirlo come fosse presente.

Le si riempiono di lacrime gli occhi, ora, nel quadrato di luce disegnato dalla finestra sulle assi del pavimento, su cui lo aveva sorpreso, intento a fare gli addominali, tutto preso, concentrato. Situazione che l’aveva colpita. Fatta sorridere.

E ora lui le manca. Le manca da morire. Le manca lui, la sua presenza. Il suo esserci, anche quando le stava qualche passo indietro, un po’ distante, quando occorreva mostrare rispetto formale. Qualcosa di dato totalmente per scontato. Se solo avesse potuto non sentire il cuore che batteva. Incontrollabile. All'impazzata, al ricordo di lui. Al ricordo di quando avvertiva la sua presenza, accanto, senza che si sfiorassero: solo, sapeva che lui era lì. Lo percepiva. Un alone. Un calore umano. Lui.

Stavolta l’ha fatta grossa. Quel suo egoismo, quella sua totale, assoluta, incapacità di averlo compreso, di aver capito qualcosa di così importante che lo riguardava, la devasta. La distrugge. Neanche aver pensato di cercarlo. Paralizzata dalla decisione di lui. Annichilita da quelle parole inaspettate. Dal suo dolore.

Si passa le mani sul viso. Gelate.

Sente, prepotente, l’assenza del calore, della dolcezza delle mani di lui. Il suo respiro, la sua voce.

Eppure, ci sono notizie, si dice.

Bisogna andare avanti.

 

*** Grazie, davvero, a Sydreana

 

Continua

 

Laura, da autunno 2013 a novembre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Versione originale dello script.