L'alba

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Non aveva idea di come sarebbe stato, ritrovarlo. Né di cosa avrebbe detto, per iniziare a ricucire, se mai sia possibile. E, ora, quasi non riesce a parlare. Perché vede davanti a sé tutte le conseguenze, e insieme la stessa persona, apparentemente non molto cambiata. Le pare solo più drammaticamente bello, così dimagrito, provato. Ma la vita ha dilatato quel tempo, trascorrendo, modificando loro due. Lo sente, oscuramente.

Le cose sono diverse, da prima.

E, da quando gli ha detto di sapere, lui a tratti la guarda come sollevato da un peso, in certi altri momenti, come gravato da domande troppo pesanti.

Senza sapere cosa dire, sono i piccoli gesti a parlare per loro.

“I capelli…” esita a sfiorarli. Una timida carezza intenerita, col cuore gonfio di un impeto d’amore.

“Ti sono ricresciuti…” In un altro momento, glieli avrebbe percorsi con le dita, indugiando, soffermandosi sulla sua pelle, sulle onde scure, morbide, sulla nuca.

Lui coglie l’esitazione del movimento che si trattiene.

Le serra il polso. Se lo avvicina.

Alle labbra.

 

Le tende la mano. “Vieni qui”.

Scuote la testa, lei. Lo guarda.

“Vieni qui”, insiste, “voglio solo dormire. Non ti faccio niente… voglio solo dormire con te”, le dice, abbracciandola, piano, forte, insieme. “È così tanto tempo…”

Si stringe a lei, che rimane come incarcerata da quelle braccia, come se davvero le impediscano di muoversi.

Lo sente, respirare piano. Resta lì, immota. Spossata, tutta la fatica del viaggio e di quei lunghi giorni, che chiederebbe ristoro, riposo. Lui, piano, si è addormentato. Ne sente il respiro, il ritmo mutato.

È destino, forse, un’altra notte di veglia. Come quell’ultima.

 

La abbraccia. Stretta. Sembra incapace di distaccarsi da lei. Stupita, lo sente serrarla, mentre lui assapora il contatto. Corpo. Vesti. Capelli. Mani.

Ha acceso candele, lumi. Non sa se vuole venire a patti col buio. Non sa come sarà.

È un’atmosfera strana. Sospesa. Lo sente anche lei.

Poi, chiude gli occhi e, con le mani, lentamente, ripercorre, di nuovo, lei. Di nuovo, come una prima volta.

“Come sei bella…”, le dice, ancora con gli occhi serrati. Cercando di immaginarla, solo dalle ombre che percepisce, indugiando, dai suoni. Dall’aria che si sposta. Il respiro. Le dita che sfiorano pelle. Ciglia. Capelli.

La ritrova. La riconosce.

Lei resta in quei gesti. Attonita, prima.

È terribile. E meraviglioso.

La spaventa, quel modo di averla. E la eccita, confondendola, come abbattendo freni, barriere.

“Aspetta”, gli dice, poi, la voce delicata, accorata. “Solo un attimo…” e spegne tutto, ogni fonte di luce.

Poi, torna da lui.

 

Se la riprende. Sua. Sua. Sua.

Così vicina. Così, fisicamente, a contatto, a colmare una lunga distanza. Nel suo corpo, attraverso di esso. Con la pelle, le mani, il contatto, la pelle sulla sua. Ogni respiro. Ogni attimo di labbra.

Le dita di lei sulle sue palpebre. Che sfiorano le ciglia, lunghe. Che si infilano tra i suoi capelli, carezzandolo, giocandoci; che lo tengono saldo, non gli pare più di fluttuare nel buio, tra le alghe, in una palude soffocante.

Ora l’acqua è limpida. La luce si riverbera e si deforma, da lassù, in superficie. Ora si sente libero. Non ha paura. Non è più una palude. È un mare. Un infinito che ora si contrae. Poi si annulla. Li riunisce.

 

Ora che recupera le forze, André quasi realizza il suo piccolo sogno, conducendola in quel pezzo di mondo, in quella parte riservata di vita.

Sono angoli, scorci. Sentieri. Ricordi che affiorano e si sommano alla memoria di vecchie abitudini. Gesti nuovi.

Insieme, scoprono quella vita. I luoghi, la casa. Lui sembra felice. Casa nostra, osa formulare nella mente, sognando, sulle nuvole.

Le tiene stretta la mano, quasi non la lascia mai.

Sono giorni strani, come a conoscersi di nuovo. Incuriosita, lei, da quella nuova dimensione, così privata, nuova, intima. Osservarlo in gesti ignoti. Sedersi alla tavola mentre lui prepara, di là.

La sera, poi, rimanere insieme a leggere, coperti da un plaid.

Fare l’amore senza doversi nascondere. Attardandosi tra le coperte, nudi, a coccolarsi. Baciarsi liberamente, ogni volta che ne hanno voglia. A lui piace tenerla accanto a sé, percorrendole il corpo in carezze, descrivendo le sue forme. Adora addormentarsi sul suo seno, cullato nelle braccia di lei.

La mattina, svegliarsi abbracciati.

È lui, ed è diverso.

È strano rivederlo e osservarlo comportarsi sentendosi padrone di qualcosa. Si rende conto che non è cambiato lui, ma è qualcosa, forse, di mutato nella sua percezione.

 

“Sei bravo, sai?” Osserva Stupita, compiaciuta, perché non lui cucina male. “Mi piace…” gli sorride, servendosi un’altra porzione. “E hai sistemato tutto, tieni in ordine…”

Allora, lui, arrossendo: “Sarò un marito perfetto!”, osa, nel candore di un sorriso. E un velo d’imbarazzo, perché di quello, no, non hanno mai parlato. Lei, a guardare improvvisamente lontano, come rabbuiata, persa in un pensiero. Ma sono attimi.

Sono cose di cui non hanno mai parlato. Neanche del dopo, lo hanno mai fatto. Restano lì, come sospesi. A ritrovarsi. Riprendersi.

 

Riscoprirsi. Rintracciare memorie, angoli di passato.

“Lo avevi anche tu?” Si sorprende lei. Quasi non osa toccare le pagine ingiallite, l’inchiostro sbiadito. Sorride, al ricordo. “Il precettore mi inseguiva, brandendo questo!”

Si scioglie in un riso. “Anche mia madre”, scherza lui. Grattandosi il mento, poi, pensando ai metodi educativi d’epoca.

Lei, allora, si gira a guardarlo e, improvvisamente, lo abbraccia. La stessa disperata nostalgia dei sogni in cui non riusciva a raggiungerlo.

Forse per la tenerezza che ha provato. O forse è il rimpianto. Come una mancanza ancestrale, impossibile da colmare, irragionevole. Ma di cosa…

“Io allora non ti conoscevo…” e quasi si nasconde in lui, che non osa stringerla. Poi, sì. Chiude le braccia attorno a lei. Che riconosce respiro. Movimenti. Odori.

“Mi sembra impossibile pensare che ci sono cose, di te, che non so…” le trema la voce. La stoffa della camicia contro le sue guance. Le parole che significano altro. “Non lo so… mi pare strano…” Cerca le parole, commossa. “Inconsueto…”

La guarda, intenerito. Scuote la testa. “È normale…”

“No… no…” Ancora trattenuta. Poi, erompe, nella paura di non ritrovarlo: “È un tempo che abbiamo perduto… e io… non voglio più…”

 

 

È possibile essere felici, in un’oasi, fuori dal mondo? Sarebbe bello se il tempo della vacanza durasse all’infinito.

L’irrealismo di tutta quella situazione li ha calamitati in quel microcosmo. Vivere lì è come un gioco. Come quando, da bambini, si chiudevano nella soffitta polverosa, e costruivano con la fantasia. Ne sono consapevoli, eppure, come sospesi, non ne parlano.

André si gode ogni attimo. Forse perché, quando la cerca, stendendo le dita in una richiesta di lei, trova la sua mano che lo stringe forte, lo rassicura. Forse perché nell’amore si annulla nei suoi abbracci, nei suoi capelli. In lei. Forse perché svegliarsi, la mattina, ora, non è solo riemergere dalla nebbia per cercare la luce. Ora, ogni mattina, ritrova lei.

E lei sta a quel gioco. È raggiante, appagata dalle sue attenzioni. Si industria a tenerlo impegnato. Se deve finire, quel periodo vuole renderlo intenso, vuole che sia bello. André è felice. Ogni attimo è solo loro. Passeggiate, abbracci. Parole. Sguardi. Forse mancano solo i progetti. Ma quelli, per loro due, sono troppo oltre. Intanto, costruiscono ricordi insieme. Che non è poco.

Oscar lo spinge a cucinare per lei, lo trascina in giro a farsi raccontare dei luoghi, a raccogliere memorie. Se lo tiene stretto, mentre camminano sulla battigia, il braccio attorno alla vita di lui, che, rapito, a momenti farebbe le fusa, mentre le cinge le spalle. Lo rincorre sui massi scuri, dal lato delle mura, nello scatenarsi delle onde, tra gli spruzzi, cercando le sue dita, le mani appena unite, lui che quasi la travolge, raggiante, i mantelli a ripararli.

Quei pochi giorni, per loro, sono una vita piena. Quella che, insieme, non hanno mai avuto. Fino a che non arriverà il momento. La data per rientrare. Per prendere servizio.

 

Perché, come quando erano ragazzini e rientravano da quel viaggio, lei, ricordando quei momenti, anche ora, non vorrebbe questo tempo finisse. Vorrebbe che continuasse. Cristallizzato lì, loro due, insieme per sempre.

 

Cerca di non riflettere troppo sul ritorno. Su come sarà il dopo. André si sente almeno appagato. Oscar, lì, risponde alle domande elementari che si è posto. Con lei, un po’ per volta, forse, le altre troveranno qualche risposta, forse no. Quello che ha chiaro è che senza lei non vuole più stare. Lui, ora, con un futuro tutto incerto, avendola accanto, sente di completare quella forza, quella consapevolezza di sé che, nella lontananza ha ritrovato.

Quell’André diverso, ricentrato, ora le sa stare di fronte.

Rasserenato, i pensieri neri ricacciati lontano dalla forza di Oscar, André ora sorride di sé, rendendosi conto che, in quel piccolo Eden, sono soltanto loro, non c’è nessuno, niente altro se non un romantico vuoto pneumatico attorno e il pacchetto vacanze non prevede che sia Oscar, giustamente, per carità, a muovere un dito e a lui, ormai, tutto preso dalle sue occupazioni da massaia, quasi non resta un attimo per loro due. E, improvvisamente, ride, ride, ride di sé e comprende, finalmente, il suo ruolo in tutta la faccenda, come è sempre stato e come si evolverà: un maritino perfetto, anzi, una moglie formato domestico e lavorativo, il degno completamento per la carriera di Oscar! Se la ride, scuotendo la testa. Un giorno diventerai famoso, ragazzo! L’innamorato cronico, altrimenti detto moglie!

Lo trova così, Oscar, mentre lo squadra, perplessa.

Divertito, allora, la tiene per le mani e le domanda: “Mi prenderesti, assieme al pacchetto casa al completo?!”

Lo abbraccia: “Altroché, tutta la vita!”

 

Quella casa, di cui una volta le aveva parlato, da ragazzino. Quando aveva capito che cominciava a innamorarsi di lei. Quando, appena adolescente, non si rendeva bene conto di come gestire quel sentimento che erompeva, che lo faceva emozionare e tremare solo a guardarla e avrebbe unicamente voluto tenerle la mano, abbracciarla e, così, poterglielo dire, poterla dire sua. Senza ancora comprendere a fondo quale sarebbe stato il modo, tra adulti, di esprimere i sentimenti, senza saperlo riconoscere in quella passione che ribolliva in lui – ciò che sarebbe stato, da grandi –; solo lasciandosi trasportare da quell’emozione, dentro, profonda, che lo faceva ardere e gli sembrava amore.

 

Si sveglia, nella luce del mattino che filtra dalle persiane.

Gli odori, l’aria, la luce sono ancora nuovi. Come lui, circondato da cose che lei non conosce. Che ha ignorato per anni.

Gli si accosta, respirando piano. Lo scruta.

Lo sfiora, in una carezza leggera. La pelle vicina alla cicatrice. Il mento. Quasi commossa. Come se nella vita di tutti i giorni avesse dimenticato di dare il vero valore a ciò che aveva, e ora potesse iniziare a rimediare.

Non vuole svegliarlo. Eppure, non è riuscita a trattenersi. Si è accoccolata contro di lui. Stringendolo forte.

“Non voglio lasciarti mai più.”

 

L’ha condotta davanti all’ingresso.

Emozionato. Cerimonioso. Come nelle grandi occasioni.

Lo squadra preoccupata, lei, domandandosi, con un misto di incertezza e di sospensione nel cuore, scoprendo di avere paura, se lui non voglia chiederle di sposarlo.

Le prende le mani tra le sue. Vorrebbe riuscire a fare il discorso che si è preparato, qualcosa che sogna fin da bambino, come la sua cosa più preziosa per la sua migliore amica. Ride di sé, in fondo, si sente un sognatore, e la guarda, quasi con timidezza, covando le parole giuste, ma lo sguardo di lei, vagamente inquisitorio, lo mette a disagio.

Così, quasi precipitosamente, esordisce con: “Te la regalo.”

Aggrotta le sopracciglia, lei, che non capisce finché lui, in un gesto ampio della mano, non include la casa.

“Ma… cosa dici…” Quasi si scandalizza lei, sperando di non aver capito bene, di quella generosità, perché lui, che non ha niente, soltanto quella casa, dona a lei, che ha tanto… d’altra parte, riflette in una consapevolezza dolorosa, non le ha dato un occhio? La vista? No, non può permetterglielo. Proprio perché avrà bisogno se non di una casa, di un reddito.

“Ma…” si costringe a correggere i toni, “è la casa dei tuoi genitori… è tua. È giusto che sia tua.”

Sembra deluso, lui.

“Io non ho altro da darti…”, quasi si scusa. “Questa casa io l’ho rimessa in vita… pensando a te, a noi due…”

Gli prende le mani. “È vero. E te ne ringrazio”. Poi, abbassando lo sguardo. “Però mi dai il tuo amore, ogni giorno…”

E poi, per sdrammatizzare, per spezzare subito il velo di disagio. “Dimmelo, vuoi regalarmi una casa e una catena! Così mi tieni al sicuro!” Fintamente imbronciata.

“È vero!” Confessa lui, stando al gioco, stupendola ancora una volta.

Sei una persona eccezionale, André... davvero…

Le ricambia gli occhi, improvvisamente serio. No, la vorrebbe correggere, non era una catena. Era una speranza. Un sogno. Poi, la butta sul concreto: “No”, ammette, divertito. “È semplicemente l’unica cosa materiale che ho.” Un sorriso disarmante, fanciullesco.

“Per questo devi tenerla”, ribatte, riflessiva. “È importante per noi due che resti tua. Che tu abbia qualcosa. Credimi, è importante. Devi tenerla tu. Come fosse nostra.”

“Tua.”

“Mia”, acconsente.

“Perché lo è.”

Uno sguardo d’intesa.

“Appunto.”

 

Il diluvio, prepotente, improvviso, l’ha sorpresa fuori.

Oscar…, pensa, mentre corre, corre sotto la pioggia, il mantello di lei al braccio. Sopra, il cielo si è spento nel buio, tutto si è fatto grigio, le nuvole, cariche, inondano di pioggia.

Scivola, la strada. Si ferma, ansante.

Non sa dove cercarla, poi un’illuminazione.

La ricorda davanti al mare, al muretto da cui le piace restare a guardare le onde.

Corre. Corre.

Infine, la trova, addossata a un arco, proprio di fianco alle mura. Intirizzita, si stringe le braccia al corpo.

 

Nel frastuono delle cateratte d’acqua che si riversano sulle strade, alberi, case, mare, non sente più niente. Sembra un mondo senza più tempo. il rumore è talmente forte da aver annullato ogni suono. Sembra un profondo, infinito silenzio.

In quegli attimi sospesi, come dal limbo riemerge una voce.

Ma non è quella di ora.

È quella che lei ricorda. Anni prima. Così tanto tempo fa. Sulla strada per Fersen. E non era ancora sua.

Ora, ancora adesso, come allora, la protegge sotto il suo mantello. E lei ricorda. Ricorda quando era corso da lei, a recuperarla. Proteggerla. Come sempre. Lo ricorda pallido, in quel diluvio, il mantello, i capelli ancora lunghi, quando l’aveva accolta sotto il suo abbraccio, i loro visi lividi, la pioggia che scorreva sulle guance, dalle ciglia, dalle ciocche dei capelli, si erano accostati. Erano così giovani allora…

Poi, rientrando, sempre abbracciati, senza lasciarsi mai, dalle stalle, al camino, che li aveva riscaldati. Quando si erano abbracciati di nuovo, e poi baciati. Ed erano fuggiti via, loro due soli, ad Arras. La loro prima volta. Lì, nel riquadro della finestra della vecchia casa. La valle, sotto, e loro due stagliati, nudi, contro il riverbero pallido della luna.

Da allora, erano stati insieme. Da allora, era stata sua. Solo sua.

 

 

“Ho contattato un insegnante... della scuola di Haüy...”

Solleva lo sguardo verso di lei, senza osare guardarla apertamente, confuso tra curiosità, speranza, timore.

Anche lui ci aveva pensato, poi era accaduto tutto il resto. Forse... forse è finalmente tempo di riprendere in mano il resto della sua vita, quello che giace oltre la soglia delle domande primordiali. Se ora si sente meno instabile.

“Ho contattato anche degli altri medici. Specialisti”, riprende. “Vorrei che ti vedessero. Ci deve essere qualcosa che si può fare…”, aggiunge, senza enfasi.

Oscar… tu… davvero… Scuote la testa, incredulo.

“Questo è quello che ti regalo io”. Poco, in confronto a quello che meriti… e vorrei potere di più… “E”, prosegue, “per questo, per non perdere tempo prezioso, vorrei che tornassimo.” Mentre lo sguardo di lui si rabbuia.

Poi.

Raccoglie il coraggio in un respiro e prosegue, Oscar. “Prenderò per noi due una casa. Nostra. Andremo a vivere lì”.

Una casa tutta per noi… “E verremo qui, ogni tanto…” osa lui, timidamente.

“Certo”, gli sorride, incoraggiante.

“E…” abbassa lo sguardo, improvvisamente scoperta. Come temendo di aver osato pensare troppo.

Le prende le mani. “Dimmi…” la incoraggia.

“Vorrei che… mi dicessi che… io diventerò tua moglie…”

Un’emozione profondissima gli riempie il cuore. Quasi lo piega. Ma allora… anche tu… Se la stringe contro, d’impeto. “Ma certo, Oscar, lo diventerai.”

Chiude gli occhi, si accosta alle labbra le mani di lei, serrate nelle sue.

“È la cosa che più desidero al mondo…”

 

Cade la neve, soffice, ovattata.

Andrà avanti tutta la notte.

Fuori, dai vetri, intravvede il riverbero azzurro, le altre case immerse fino alle finestre.

La penombra avvolge la stanza. Arde, piano, il camino.

Sfinito, si è addormentato.

Si ferma. Rimane lì, a sfiorarlo con lo sguardo. A lungo. Trattenendo respiro e gesti. Come per non far rumore.

Lo guarda. È bellissimo.

Piano, si rannicchia accanto a lui, sentendo il respiro. Il calore della pelle. Lo copre, condividendo la vecchia imbottita.

Chiude gli occhi, come lui. È stato bello, tornare lì, con lui, in quel Natale. Il suo compleanno.

Per rimanere lì.

 

 

 

Il tempo era passato.

 

Quando riaprì gli occhi, lui era lì.

Le parve come fosse trascorso un profondo, lungo lasso di tempo. Un tunnel denso. A volte con immagini. A volte sensazioni. A volte, solo il denso nulla.

Si sentiva stanchissima.

Felice di ritrovarsi viva.

Poi, all’improvviso, ricordò tutto.

Lo fissò in viso.

Credette di ritrovare in lui gli stessi ricordi. Le stesse sensazioni.

Io lo so che tu non vedi più bene…

Tu, non vedi quasi più… ricordò.

Non vedeva più bene.

Dio… che pena…

Qualcosa che strappava il cuore.

Dilaniandolo.

Il dolore che nasce dall’amore.

Qualcosa che paralizza. Annienta.

In altri momenti, lo sguardo avrebbe scintillato, avrebbe incontrato il suo e si sarebbero parlati con gli occhi. Ora, era solo stanca, sorpresa, annientata. Lo fissò in viso, allora, e sentì che lui le stringeva la mano. Le dita, attorno alle sue. Le serrò più forte.

Era lo stesso.

Aveva capito.

Aveva ricordato le stesse cose. Quegli ultimi momenti insieme, da soli, prima della battaglia.

Stanotte, prima della battaglia, pensa a me…

È finito… è davvero tutto finito? Si era domandata.

Io voglio vivere… io voglio continuare a vivere… aveva detto.

Prima della battaglia.

Ora, era il dopo.

Ora, era il tempo di vivere.

 FINE

 

Nota: alcune delle mie illustrazioni tratte dalla versione cartacea sono riportate nella versione web.

 

Laura, da autunno 2013 a novembre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner luglio 2019

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

  

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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