ll suono dei rintocchi
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Don! Don! Doon! …oon! …oon!
Odio le campane.
Da quando faccio i turni poi, le odio ancora di più.
“Che ore sono?”
“Le undici e mezza.” Non so come faccia ma André, anche lontano da una pendola,
sa sempre che ore sono.
“Ma come fai?!”
“Smettila Alain.”
“Guarda che è un complimento.”
“Non se me lo ripeti dieci volte al giorno.”
Lo guardo ridendo per prenderlo in giro. È impassibile: ma io non mollo.
“È il lavoro da lacchè, di’ la verità!”
Non mi degna di uno sguardo. Facile se hai un occhio in meno, è buio e stai
scivolando lentamente verso la cecità completa.
“Smettila, ho detto.”
“Cosa ho fatto?!”
“Smettila di compatirmi.” La smetto sul serio. Prima della morte di Diane me ne
sarei fregato, ma ora è diverso. Chiudo il becco. Siamo solo noi, e non vola più
una mosca per un pezzo.
Ding! Ding!
“E basta con ‘ste campane, cazzo!”
Il Grandier si volta, anch’io lo faccio e non c’entrano niente le mie fisime:
quella campanella non dovrebbe suonare a quest’ora.
“Un ladro?” Chiede il Grandier. Rimaniamo tutti e due perplessi.
“No.” Rispondo guardingo.
“Nonostante tutto sono molto più silenziosi di così.” Nonostante non ne abbiano
bisogno, perché lo sanno che li lasciamo fare. E anche noi rubacchiamo più che
volentieri. André a parte: lui non ne ha bisogno. Nemmeno io, ormai: non lo
faccio più da mesi.
“Andiamo a controllare?” Stranamente lo chiedo io; per esperienza maggiore so
cosa fare, ma questa è nuova, ho bisogno di un consiglio. Si muove qualcuno a
passo pesante. È dietro di noi, all’interno della caserma. Tendiamo le orecchie
in due, il Grandier è attentissimo: è chiaro che non ha fatto solo il leccapiedi
in trent’anni di vita a casa di un generale.
Cantano. È stonatello, il tipo! Piange?
Il Grandier in successione si stupisce, sta per mettersi a ridere, poi per poco
non gli piglia un colpo.
“Che hai?”
Adesso è sull’orlo del terrore.
”… Svedese!”
Non sono sicuro neppure che mi stia rispondendo. Tende l’orecchio e
contemporaneamente abbassa il fucile. Non mi piace che abbassi il fucile.
“Tienilo alto.” Glielo devo dire. Lui invece, accorre all’interno della caserma
come una madre sicura di trovare il proprio figlio morto. Lo seguo. In breve
tempo siamo nel corridoio che passa per i magazzini.
“Non c’è nessuno.”
Ma il Grandier è sordo e va verso destra. Il tizio di prima canta ancora, adesso
lo sentiamo bene, anche perché sbraita in una lingua stranissima; o è posseduto
o canta davvero in svedese... cazzo! Sentiamo cadere il tizio e un mucchio di
roba, probabilmente addosso al Farinelli svedese. Spero che ci sia morto sotto,
ma dal rumore non era niente di pesante, purtroppo.
“È nel deposito munizioni.” Nonostante sembri preoccupatissimo, la voce è
monotona, impersonale come se stesse solo eseguendo un ordine vecchio di anni
per il bene di qualcun altro, ma, per il resto, non fosse affar suo.
Finalmente lo vediamo. La luce della luna passa per la finestra e ci mostra un
tizio sfatto, ubriaco, semidisteso per terra con le gambe aperte come una
bambola di porcellana, la schiena contro il muro, una bottiglia di vino scadente
in mano – il nostro vino – e tre, quattro fucili addosso, dai quali fa finta di
cercare di liberarsi.
Il Grandier vorrebbe morire qui, lo vedo
bene. Io vorrei saper disegnare e avere carta e lapis a disposizione per far
circolare questa bella scenetta e ci guadagnerei pure.
Mi appoggio allo stipite della porta a braccia conserte. Sto per parlare dei
miei progetti da pamphlet, ma André
si sposta e si dirige verso il conte Fersen che ancora tenta di liberarsi – nel
frattempo con un colpo sordo di vetro sulla pietra mi rendo conto che si è
liberato della bottiglia.
“Monsieur”, mormora comprensivo André. Fersen riesce a liberarsi di due fucili e
sembra interessato a qualcosa verso le munizioni. André si mette in ginocchio:
“Prego?” Chiede.
“I-Istoha” biascica l’ubriaco. Cadono gli ultimi fucili rimasti e, con una certa
difficoltà, Fersen riesce a raddrizzarsi piegato su un ginocchio, pronto a
rialzarsi.
A parte i capelli spettinati e l’aria sconvolta, è vestito di tutto punto:
stivali, mantello e ricchissimo abito senza una grinza.
“I- sto- ha!” Ma casca all’indietro.
Nessuno dei due ride.
“Conte, non è la soluzione migliore”, spiega André. Sembra dispiaciuto davvero,
almeno per adesso. Fersen, accasciato per terra, inizia a piagnucolare nella sua
lingua strana.
“Che ha detto?” Sono curioso. Mi avvicino anch’io - dove abbiamo lasciato i
fucili? Ah, sì: fuori dalla porta. -Prima di lasciare lo stipite do un’occhiata.
Tanto, non ce li prenderà nessuno.
“Allora?”
Il Grandier ci pensa un secondo, non so se per ricordarsi il significato di
quello che ha sentito o che altro.
“Vuole una pistola. Vuole morire”, risponde asciutto.
Di rimando Fersen piange a terra accorato.
Patetico.
“Per la Regina”, concludo acido.
André è immobile, Fersen è disperato. Io sto per vomitare, anche perché la
merdina per terra puzza di alcol. Con tutte le bettole che ho frequentato dovrei
essere abituato, ma è un odore diverso e mi fa schifo insieme alla scena che mi
tocca sorbire.
“Dobbiamo riportarlo a casa. Voglio dire: per me può pure liberarci della sua
augusta persona, ma se si ammazza qui, poi danno la colpa a noi.” Al che ho il
colpo di genio e m’infervoro: “Magari pensano che il comandante è una delle sue
amanti e, gelosa della cagna, lo ha ammazzato lei, dopo una folle notte di sesso
d’addio!” André mi fulmina con l’unico occhio che ha. Mi fa davvero paura, e non
è facile spaventarmi.
Si volta verso il fetente: “Hai ragione. Dobbiamo farlo sparire.”
“Vado a prendere la pistola!”
“ALAIN!”
“Cazzo Grandier, mi hai fatto pisciare sotto!” Scherzo, ma mi faccio subito
serio. Cerco di fargli capire con uno sguardo che volevo solo calmare la
tensione. Lui mi capisce, ma ha sempre meno voglia di ridere.
“C’entra davvero il comandante, giusto?”
Sospira: “Non come hai insinuato, ma sì: il conte Fersen è un amico intimo della
famiglia Jarjayes.”
E il comandante ha fatto il cagnolino da guardia alla Regina fino a ieri. Be’:
il comandante è troppo dura e pura per farsi toccare dall’Uomo Fetente qui sotto
che, forse, si è dato finalmente una calmata.
“Dorme, secondo te?“ Chiedo.
Facciamo silenzio in due. Non si muove, respira piano. Non russa. Stronzo.
“Le hai tu le chiavi di questo deposito, Alain.”
“Sì”, le cerco, le mostro...e se si ammazza in nostra assenza? Lo pensiamo in
due e lo capiamo guardandoci.
“C’è una stanza qui vicino”, dico io.
“Bene”, fa lui.
In un attimo prendiamo il peso morto di Uomo Fetente e con una certa fatica - è
alto quanto noi, non collabora e il mantello ci dà fastidio – lo spostiamo e lo
depositiamo nella cameretta vuota a fianco. Non c’è niente lì dentro a parte un
secchio.
“Vengono qua a vomitare dopo le sbronze?” Chiede.
“Già!” Faccio io con orgoglio.
Il Grandier sbuffa.
“Chiudiamolo dentro e andiamo.” Si ferma, ci pensa. “Sì: andiamo da Oscar.” E
prima di uscire borbotta qualcosa che non distinguo.
C’è di più in questa storia. C'è sempre di più quando si tratta di loro. Non sei
un semplice amico dei Jarjayes, Uomo
Fetente. E il comandante potrebbe non essere contento di vederti.
Fine.
Aaaah! Anche questa lettera è terminata! Mi fanno male gli occhi, stropicciarli
serve a ben poco; del resto, oltre le candele non c’è illuminazione maggiore e
sono rimasti solo i moccoli.
Don! Don! Doon! …oon! …oon!
Mezzanotte. Lo dice anche la pendola. Potrei andare a casa. Secondo le regole,
dovrei esserci da ore, e dormire beata nel mio letto. Magari! Non prima di aver
bevuto. Whiskey? Brandy? Mi manca il brandy. Spaccherei la scrivania per quanto
mi manca il brandy!... Ho decisamente un problema: ed ecco che mi sento ancora
più stanca e inutile.
Nei cassetti avrò almeno qualche cosa da leggere? Non m’impedisce nessuno di
cercare, ora la scrivania è mia posso frugare nei cassetti quanto voglio. È la
prima volta, oltretutto: fino ad adesso non ne ho avuto il tempo. Trovato! Uno
dei cassetti è aperto e pieno di libri… che ho già letto. Letto. Letto anche
lui. Consunto e probabilmente illeggibile.
Le metamorfosi di Ovidio! Letto anche
lui, ovvio, ma non posso resistere! Finalmente un po’ di pace!
Ecco.
La copertina dice “Metamorfosi”: dentro è un libello pornografico dei più
rivoltanti e grotteschi. Appartenente al
vecchio comandante suppongo e, fammi indovinare?, erano una copertura anche gli
altri. Non è un mistero che molte nobildonne pudiche e timorate di Dio
nascondano con gli stessi metodi simili porcherie, ma la mia pornografia è il
latino: questa roba non m’interessa.
Ma guarda! Un
pamphlet
unto, bisunto con protagonista Vostra Maestà la Regina Antonietta. Conosco i
contenuti: li ho dovuti ispezionare personalmente. Fece male allora e ancora di
più adesso e non oso tentare di rileggerlo. Lo butto via da qualche parte
assieme al resto per non vederlo mai più, ma a causa di quella maledetta
ispezione so bene di cosa parli: la storia d’amore della Regina con Fersen ma in
termini molto più offensivi e bislacchi. Fersen. Parte domani o è già in
viaggio? Strano che non lo sappia.
Toc! Toc!
A quest’ora?
“Avanti.” Un furto? Una rissa? Esco da dietro la scrivania immediatamente.
André e Alain. No, André non mi guardare così: che succede? Si è dimenticato di
non essere a casa e ha preso la sua solita posizione da ti devo dare una
brutta notizia. Poi si ricorda di essere arruolato e si pone sull’attenti di
seguito ad Alain.
“Chiedo il permes…”
“Accordato. Cosa è successo?” Taglio corto. Sono già stanchissima e non ho
voglia di perdere tempo.
“Ecco”, è sempre Alain a parlare, trattiene un sorrisetto di scherno. Guarda
André che evita il suo sguardo. “Abbiamo
un ubriaco in caserma.”
“Qual è la novità? C’è qualcuno sobrio qui dentro a quest’ora, di solito?”
Rimprovero duro.
De Soissons fa la sua solita faccia di bronzo ma mi lascia intravedere che ho
colpito giusto.
“No, è vero”, ammette con aria da presa in giro, “ma uno dei vostri ha deciso di
unirsi a noi, anche se non ne è molto felice: ha deciso di sparasi un colpo in
fron… ahi! André!”
Aggrotto le sopracciglia, non commento la pestata di André sul piede di Alain.
Poi faccio due più due; uno dei nostri,
André è preoccupato per come posso reagire: Fersen . Perdo i filtri, mi espongo:
“Dov’è?”
“Al sicuro”, risponde André. Rimango immobile. Per giorni, secoli. Alain sembra
capire la gravità della situazione, finalmente. André non muove un muscolo.
“Va bene. Andiamo. Vi seguo.” La voce mi esce strana. Prendo il mantello ed esco
passando loro oltre.
Alain come al solito ridacchia credendo che io non lo senta. Poi chiede, credo
preoccupato, sottovoce: “André, che c’è?”
Ma André non risponde. A pochi passi dal mio ufficio li lascio precedermi e
indicarmi la strada. Credo che André mi abbia usato… non riesco a trovare il
termine, ma qualunque premura fosse, so che non è normale da parte sua.
“Andiamo.”
Nel buio si sentono i nostri passi che sbattono sulla pietra e si allontanano
dall’ufficio.
Eccolo lì, l’Uomo Fetente. Dorme della grossa: a questo punto potevo evitarmi la
storia del suicidio.
Il comandante è dietro di noi, sta sulla soglia, André è fuori assieme ai
fucili.
“Bravi!” Ci ha appena sgridato lei, quando li ha visti appoggiati al muro. Ho
chiesto scusa io e la dice tutta su quanto sia grave la situazione perché André
è preso con ben altro. La osservo come sempre: voglio capire! È impassibile. No,
invece: è pensierosa. Non sembra preoccupata.
Prova schifo, anzi ribrezzo?
Era veramente una delle amanti di Fersen? Non può essere venuto qui solo
per amicizia con una così? Non è mica
davvero un maschio! Non la vede? Se anche avessero parlato tutto il santo giorno
di greco, latino e arte, io li avrei chiamati preliminari, no? Ehi!, il Grandier
mi guarda malissimo.
“Che hai?” Sussurro. Mi sente anche a voce più bassa e poi a lei interessa. È
teso, aspetta che Oscar avanzi, poi la segue. Lei entra nel cono della luce
della luna che nel frattempo si è allargato.
Già… due nobili nella luce della luna. Un momento
ultraterreno. Triste. Quasi macabro.
Adesso che ci vediamo tutti meglio, noto che André è ansioso. Sembra non capire
qualcosa: perfino tu sai nulla? Allora davvero il Fetente le ha messo le mani
addosso?
“Fersen.” Chiama lei, piano ma abbastanza forte da farsi sentire.
Il Fetente non reagisce. È lungo disteso avvolto dal suo mantello nero bordato
d’oro.
“Fersen.” Ripete a voce più alta e secca. Seccata? E lì il Grandier è confuso.
“André senti, a me non mi piace che gli stia così vicino.” Ci penso mentre lo
dico. Lui ascolta e intanto non la molla. Sta per dire qualcosa che lei, in un
secondo, scende in ginocchio. Noi insieme facciamo un passo in avanti.
“Osc… comandante: era piuttosto alterato, non credo sia il caso di svegliarlo.”
Avverte, come se voglia aggiungere anche
se si tratta di te. Di voi? Io mi
sto arrabbiando. Davvero questo tizio…? Sul serio lei…?
“Fersen.” Sussurra dolce. Eh, no! “Svegliatevi vi prego.”
Lui finalmente si muove in un rantolo e si gira mostrando il vestito sotto il
mantello. Sembra uscire da un quadro che avevamo a casa prima della miseria; un
quadro di Marte che si sveglia dopo aver
dormito con Venere. Sarà un vizio dei nobili essere sempre belli, non so.
Ora sono più preoccupato che si accorga di lei. Biascica qualcosa nel sonno. In
svedese: ma questo il francese non lo sa?!
“Sono io, Oscar.” Risponde lei. Brava! Usa il francese! Ecco: ora il Grandier
non capisce più niente. Sembra sul punto di dirlo:
Ma che cazzo succede?!
“Di solito risponde in svedese.” Non ce la fa a tenerlo per se, deve essere
proprio in crisi per parlare.
Il Fetente ride come un idiota: “Oscar!” Quasi urla. Noi siamo subito accanto a
lei, ancora in ginocchio. Se si è voltato da quadro dipinto adesso è
spaparanzato a terra con il mantello aperto e l’aria sconvolta, i capelli
spettinati. Ma è sempre bellissimo. Quanto lo hai odiato André, eh? Con la
minaccia poi di portatela via, sposandola in quanto tutti e due nobili. Contessa
anche lei, gusto? Anch’io ho un fottuto titolo ma sono troppo povero e troppo
recente. Dovrei stare a guardare che
me la portino via lo stesso?... cosa? Chi? Portare via chi? E non ho neanche
bevuto, porca miseria!
“De Soissons, qualche problema?” Si è alzata, è ad un passo da me.
“Aiutatelo a mettersi in piedi, poi ci dirigeremo al cancello Sud, dove
chiameremo una carrozza a nolo.”
“Il cancello Sud dà su una zona piena di bettole comandante: ci sono troppi
occhi indiscreti.”
“Allora cercheremo una divisa della sua misura e un mantello logoro sotto cui lo
nasconderemo per farlo scappare dal cancello Sud.”
Per essere una donna è determinatissima. È stata così stronza che credo di
esserci rimasto male.
La confronto con il Fetente spampanato a terra. Tizio che le mette le mani
addosso comincia a sembrare difficile.
“Oscar non abbiamo divise di nessuna taglia al momento, ma possiamo provvedere
ad un mantello.”
“Sta bene, facciamo così”, guarda noi dando le spalle a Fersen che ancora
stanotte prova a rialzarsi. Ma ha cambiato ritornello, è da quando l’ha vista
che insiste: “Occar…O-Ocarr… d-devo…devo pallae co te…”
E lei lo ignora.
André non si stupisce più, oppure ha smesso di farlo vedere.
“Dai”, mi fa lui.
Va bene. Però adesso guardo male il Grandier: con me fa la stronza, con lui fa
la gattina. Per poco non gli si strusciava contro. Raro, da quando la conosco.
Forse André non pensa più a stupirsi per l’atteggiamento del comandante.
“Sei pesante, eh? Uomo Fetente”, mi scappa mentre lo tiriamo su.
André spalanca l’occhio, Oscar si volta di scatto. Tizio mi fissa con aria
stupida, fa dei versi con la faccia come se non ci vedesse, vuole chiarimenti.
Mentre lo issiamo con fatica in posizione eretta - si fa per dire – a gomiti
molli, insiste a fissarmi. Ce l’ha sulle labbra, quindi lo dice, scandalizzato:
“Tu on tei Occarr” e va giù, pesante.
Mentre lo ripigliamo al volo non posso non notarla, Oscar. È ancora nervosa,
penso. Anche lei ce l’ha sulle labbra
ma non credo parlerà. È come se avesse smesso di subire in silenzio (cosa?).
Facciamo per avanzare verso l’uscita ma Fersen si punta.
“Conte, dobbiamo andare.” Incita André. Lui a fronte bassa fa di no con la
testa.
“Dai che non abbiamo tempo!” Insisto io.
Lui sbatte un piede a terra: ”Voio pallare co Oc-car!” Urla violentemente. E
ricomincia a piagnucolare patetico.
“Se lo picchio non lo viene a sapere nessuno”, la supplico. Lei raddrizza le
spalle, diventa fin troppo seria. Mi lascerebbe fare, spero. Sospira.
“Bien”, sussurra. Poi fa due passi
verso di noi.
“Di cosa avete bisogno, Fersen?” Accomodante, forse troppo.
“Da holi.” Frigna lui.
“Non è possibile da soli e André e Alain sono discreti, ci si può fidare.” Non è
vero. Io sono pettegolo ma me lo tengo per me. Tizio va avanti a piagnucolare ma
è più tranquillo.
“Lasciatelo.” Ordina lei.
Stai scherzando spero!,
non lo dico ma credo si capisca da come la fisso. André stringe ancora di più il
braccio di Fersen.
“Non può farmi nulla. Lasciatelo, ho detto.”
Insieme lo lasciamo molto lentamente, per nulla convinti che sia la cosa giusta.
Lui non barcolla e neppure cade: se ne sta tutto curvo, in piedi, con le braccia
penzoloni.
“State facendo la cosa giusta.” E lui ricomincia a piangere.
Quanto ci è voluto? Un secondo? Meno.
Io ho il tempo di spazientirmi e allontanarmi di un passo per non piantargli un
pugno in testa. Credo che André abbia tentato di dire la sua, non so bene. So
solo che all’improvviso ha urlato: “Oscar!!!” e, quando mi sono voltato, ho
visto Fersen abbracciato al comandante con il viso affondato nei suoi capelli.
Versione romanzata.
La verità è che l’Uomo Fetente, senza che avessimo il tempo materiale di
fermarlo, si è buttato su di lei e ora sta stritolando Oscar con tutta la sua
forza costringendola ad inarcare la schiena.
“Brutto idiota!” Urlo io.
“Fersen-mi-state-soffoca-ndo!” Tenta lei ma non riesce a divincolarsi o a
colpirlo perché oltre ad averlo tutto addosso con il rischio di cadere, ha le
braccia bloccate lungo il corpo e solo gli avambracci possono a mal la pena
muoversi.
Non faccio in tempo a toccare Fersen con la punta delle dita che André con tutta
il suo peso sblocca la morsa del Conte e lo pianta contro il muro. La mano è
pericolosamente vicino alla gola, aperta in mezzo alle clavicole. Non mi piace
l’aria che ha: si è trasformato in una belva feroce.
“André, va tutto bene.” Fa lei straordinariamente calma, ma trema tutta come la
corda di un’arpa.
Non l’ascolta. Guardo Fersen. Ha l’aria di un condannato a morte pronto
all’esecuzione, che quasi ci spera di essere ammazzato subito. Lo dice da tutto
il tempo e io ci sto scherzando sopra, ma vederlo rassegnato a morire non è
bello.
“André, lo hai detto tu cosa non deve mai fare un soldato. Ti ricordi quando
volevo uccidere il Cavaliere Nero?” Davvero?
André è calmo a sufficienza da notare il mio stupore e guardarmi. È sempre
incazzatissimo, ma ragiona e, con cautela, prendendo un grande respiro si
allontana da Fersen. Il cono di luce sta cambiando, se la loro parete prima era
illuminata, ora è in ombra, ma nel riverbero riesco a scorgere il conte che,
ancora mezzo ubriaco, guarda André con rammarico.
Il comandante è più bianca del solito, sconvolta.
“State bene?” La mia domanda non si limita all’aggressione. Sembrava sull’orlo
di tossire, forte. È l’unica di noi ancora in luce, lo noterebbe perfino André
senza entrambi gli occhi che c’è un problema, infatti è preoccupato.
Oscar trattiene tutto: tosse, rabbia, orgoglio, voglia di menar le mani (apre e
chiude i pugni), si risistema divisa e colletto, ci squadra tutti e tre, infine
parla e la sua voce viene dall’oltretomba.
“Andiamocene e piantiamola con questa storia.”
Di corsa acciuffiamo Fersen e usciamo da quella stanza. Fatichiamo a stare
dietro al comandante che corre via come una scheggia. Questa volta, sono guai.
Inaudito.
“Comandante, se andiamo da questa parte…”
Inconcepibile!
“Comandante? Mi sentite? Se andiamo da questa parte troviamo il mantello.”
…
“Il mio mantello è sufficientemente grande per nasconderlo meglio, il conte
Fersen.”
Eviti di chiamarlo Uomo Fetente? Fa’ come vuoi.
“Per di qua?”
“Sì, seguitemi.” Mi oltrepassa e va da qualche parte in corridoio a
scartabellare per tirare fuori i mantelli. Dopo poco se ne esce fuori da uno
stanzino con tre mantelli: per lui e André che con questo freddo ne sono
sprovvisti - come fanno non lo so - e la copertura per Fersen.
“Volevo usare il mio, ma ho trovato questo vecchio: chissà di chi è?”
Mi sorride. È tutto denti. Potresti non averli più se non la smetti. Chiude la
bocca. Lo sapevo che eri intelligente. Cielo se ho bisogno di un brandy!
“Ooooh!...”
“Conte”, sussurra André.
“Ah!…A-André?”
Rinsavito! Perfetto! Evviva! Sempre dopo avermi aggredita e umiliata,
naturalmente: ma poi rinsaviscono!
“Siamo posto? Possiamo uscire?”
“Dobbiamo ancora mettergli il mantello”, insiste Alain fin troppo ossequioso,
per questo faccio finta di non aver sentito e mi allontano di dieci passi buoni.
Mi fermo e aspetto.
“È arrabbiata.” Sussurra de Soissons.
“Smettila”, fa André.
“Perché? C’è qualcosa di male?”
“Ti sente.”
“E quindi?”
“Non è bene provocarla ora.” Questa volta risponde Fersen. È dispiaciuto.
Io sposto il mento a sinistra, non posso evitarlo. Dovrei essere fredda,
impassibile, una statua di marmo. E invece no. Tendo l’orecchio, mi espongo.
Anche prima: me lo hanno detto “non
fidarti, è ubriaco” ma ho dato per scontato che la nostra amicizia andasse
oltre, perfino all’alcol. Stupida. Inetta!
Sale di nuovo, questa tosse, ma è meno forte di prima. La controllo subito. Bevo
troppo: è per questo?
Vorrei piangere. Urlare. Picchiare. Sparire. Correre a cavallo fino in Russia. E
sono sicura che tutto questo traspaia. Sono impotente. Sono una donna. Sono una
donna impotente. Ecco perché bevo.
“Comandante.”
Da quando è qui?
Anche André e Fersen senza che me ne accorgessi si trovano appena dietro di me.
Alain è alla mia sinistra.
“Dobbiamo andare.” De Soissons è appena udibile e forse comprensivo. Di cosa sei
comprensivo se non sai niente? Sei una donna tu? Se invece di andare al cancello
Sud vi sfidassi qui, seduta stante, a duello tutti e tre? Non voglio neppure
immaginarlo.
Oscar, calma. Ritorna in te.
Oso voltarmi. Tutti e tre hanno addosso un benedetto mantello logoro della
Guardia francese.
“Possiamo andare”, riesco a dire. E io vado. Loro mi seguono.
Si avvicina André: deve aver passato Fersen ad Alain, ma non ho sentito nessun
commento fuori luogo.
“Stai bene?”
“Sì.”
“Non in quel senso: sembravi stare per sentirti male.”
Lo fisso, lui non si scompone: “Non so, hai preso un’infreddatura? Hai mangiato
qualcosa che ti è andato di traverso?”
“Non ho mangiato affatto!”
“Ah!”
…
“Adesso sto bene”, mento. È la verità. Non lo so. Sei l’ultima persona che ora
si può preoccupare per me. Voglio mia madre a trent’anni, non te, ora. Eppure,
se non fossi qui…
“Non preoccuparti André, sto bene. In tutti i sensi.” Ma ho ancora i pugni così
serrati che non me li sento più e lui, dannazione, lo sa. Sa che sono furiosa,
che non sono del tutto in forma, che ho amato disperatamente un uomo che muore
da sempre per la Regina e ha deciso di venirmelo a raccontare per l’ennesima
volta anche adesso che sa che l’ho sempre amato e lo fa proprio questa notte che
sono stanca morta e André lo sai, lo sai bene, che l’errore di prima mi ha
devastata in quanto banale e stupidissimo. Poi, noi due. Io e te. Sappiamo ciò
che nessuno sa e nessuno deve osare conoscere. Che la tua condotta è stata ben
peggiore di quella di Fersen, perché eri sobrio, ti sei fatto oltremodo prendere
dai sentimenti e ne ho fatto le spese io. Ti sei giusto fermato prima
dell’irreparabile. Forse.
“Piantala.”
“Eh?”
“Hai capito.”
“Comandante, non di là, a destra.”
“Grazie tenente De Soissons per ricordarmi sistematicamente che non so nulla
della mia caserma.”
Con addosso Fersen e occhi e bocca spalancati è da ritratto. Non fai più lo
sbruffone?
Ha un braccio libero che stupidamente indica a destra.
“Perfetto.” E senza scompormi vado per quella direzione. André mi segue.
“Spero per te che che non l’hai mai toccata in vita tua”, minaccia Alain a
Fersen.
Lui si lamenta, non so cosa faccia ma lo sento rispondere con stanchezza: “Fino
a stasera no.”
Era bene continuare così.
Don! Don! Doon! …oon! …oon!
Cancello Sud, raggiunto di filata. I bastioni alti come i campanili di Notre
Dame, le puttane dall’altra parte che ridono. Che poi i bastioni sono più bassi
di Notre Dame ma mi piace accostare il sacro con il profano. Ehi! Quella è la
voce di Pierre!... e sta contrattando con una puttana! Però! Non lo credevo così
furbo da farsi spennare per una scopata! E il comandante?
Vorrà stare sulla soglia del cancello
per il suo amico Fersen: se vede Pierre che contratta che fa? Dimenticavo che
già lo sente bene. André è di ritorno. Entra dal cancello Sud seguito da uno
schiamazzo di donnine affamate e si dirige verso il comandante: “Ho trovato la
carrozza a nolo. Sta arrivando, l’ho pagato anche per il silenzio.”
“Bene.”
Sembra più tranquilla ma non mi guarda da quando ho addosso l’Uomo Fetente. Ce
l’ha con Fersen, credo.
“Senti: non mi posso muovere da qui perché il comandante mi farebbe un mazzo
così”, ride Pierre assieme alla puttana, la frase ci arriva all’improvviso come
un colpo di pistola, vanno avanti a ridere anche troppo. Alla fine, dopo un paio
di moine, lui si riprende: “Sai, è nobile e già così non capisce niente, poi è
pure una donna! Cioè: cosa ne sa una donna nobile di queste cose?! Da quello che
si legge nei
pamphlet
ne sa eccome e la Regina insegna!” Giù altre risate. “Maddai! Il nostro
comandante?! Proprio lei! Fa tanto il maschio ma ci scommetto la divisa che
prima di andare a dormire quella fa l’uncinetto.” E anche qui, le risate si
sprecano.
Diane lo faceva l’uncinetto. Era
bravissima, una maestra! Mica è un’offesa esserne capace. Quando lo vedo la
paga. Da come si è irrigidito Fersen è sobrio abbastanza da aver sentito e
capito. Poi a ‘la Regina insegna’ deve aver ricevuto una bella secchiata fredda,
anche se ormai non è una novità per nessuno. Oscar ha gli occhi chiusi: è
l’ultima goccia.
André è dispiaciuto. Anch’io. Abbiamo capito tutti che Pierre sta solo facendo
il gradasso, per cosa poi visto che quella gliela dà lo stesso se la paga -
se la paga, ecco: magari il punto è
proprio quello -.
Scuoto la testa. Coglione.
Ridono, succede qualcosa che non possiamo sapere per via dei bastioni, ma non è
quello. Probabilmente si sono messi
d’accordo sul prezzo; quindi la paga.
“Aspettami qui, vado e torno.”
Non posso evitare di spiare la reazione del comandante. Sorride maligna. Pierre
deve passare per forza davanti a noi e gliela farà pagare tutta. Pierre arriva
dal cancello fischiettando. Quando se ne accorge è la sua fine.
Ignora del tutto noi maschi, perfino il nobile Fersen, non contiamo nulla: è il
comandante in tutto il suo splendore ad attirare l’attenzione.
Posso vedere l’anima di Pierre abbandonare il corpo e salutare il mondo crudele.
“Co-co-co co…”
“Cocotte?
Non a me spero! Ma cosa vuoi che ne sappia? Io non capisco niente! Sono una
nobile idiota che sa fare solo l’uncinetto! No?”
È morto. Dritto in piedi e senza cedimenti ma Pierre non è più di questo mondo.
“Era per dire.” Faccio fatica a sentirlo. Sta’ zitto idiota che peggiori la
situazione!
“Come?!”
Si schiarisce la voce con poco risultato: “Volevo farmi bello a…”
“A mie spese soldato?!” Non si tiene più: tutto quello che aveva dentro lo
rovescia addosso a Pierre. Vorremmo intervenire in tre, perfino Fersen farebbe
qualcosa. È roba da uomini, è un ragazzino; dai che lo sai anche tu come vanno
certe cose! È un coglione, merita un mare di botte, ma solo perché è stupido!
Con un paio di falcate si mette davanti a Pierre: “Tutta la fatica che ci
mettete a racimolare la paga buttata con una prostituta?” La voce è forte
abbastanza perché la possiamo sentire solo noi: la
signorina là fuori non può
offendersi. Devo ammettere che è una gran paraculata ma ha ragione.
“In detenzione fino a domani mattina. La tua amica ti aspetterà fino a domani.”
Pierre fa fatica a deglutire e perfino a camminare. Il comandante lo segue con
lo sguardo. Se prima era bianca ora le guance si sono lievemente imporporate, ma
il pallore spicca ancora di più, assieme alle occhiaie: ora sì che è
stanchissima. Riesco a vedere la torre del nostro orologio illuminato:
“Mezzanotte e mezza passata”, dico.
“Quando hai detto che arriva la carrozza”, chiede lei violentemente,
ignorandomi. Non la recuperiamo più.
“Tra pochi minuti, non era lontana.” Risponde André. Non è sicuramente la prima
volta che la vede così.
“Sarà meglio!”
Cerca di calmarsi ma è più forte di lei. Prende una pietra dal selciato e la
schianta contro il muro dei bastioni.
“DANNAZIONE!!!” Urla con tutto il fiato che ha in corpo. La sua bella voce si
spande per la caserma e oltre. Risuona stranamente e piacevolmente alta,
femminile. André mi ha detto che ogni tanto canta, quando fanno musica. L’hai
sentita cantare, quindi. Hai vissuto in questo Paradiso per vent’anni? No: in
questo Inferno! È decisamente meglio delle campane: fossero tutte così! E tu,
Fersencheselefatutte, muori per la
Regina. Hai di fronte tanto ben di Dio e niente? Va bene ti picchio, tanto il
comandante è d’accordo.
“Alain!!!”
“Sissignore!” Leggi nel pensiero?
“Portalo fuori con André e tienilo lontano dalle prostitute. Per questa sera ne
ho abbastanza!”
“Agli ordini, Signore.”
“André tu stai attento che Alain non lo picchi.” Cazzo leggi nel pensiero
davvero! Vedo che anche tu, Uomo Fetente, sei vigile. Senza accorgermene stai su
più dritto e mi minacci con lo sguardo: un silenzioso
sta’ attento a te pronto a mantenere.
Adesso avrei una bella scusa per picchiarti ma non ne abbiamo il tempo. Mentre
lo accompagno fuori li sento. È un momento che passa e fugge ma vi assito come
se durasse secoli.
“Oscar.”
Lei non risponde. È più calma ma lo ignora con cattiveria.
“Oscar, scusami.” E le stringe una mano. Non come si fa quando si stringe un
patto, gliela stringe come quando io e Diane ci stringevamo la mano da piccoli.
Lo lascia fare. Ormai ho perso la loro visuale, non riesco a capire la reazione,
se ricambi o no. Ci vogliono altri secoli di silenzio, poi dietro le spalle la
sento mormorare: “Non farlo mai più!” Buttare Fersen contro un muro?
Non sento la risposta di André e quando viene verso di noi non posso capire
com’è andata. Le ha stretto la manina. Stronzo. Lui mi vede e lo capisce – va
bene, sono un libro aperto -. “Avessi un’altra età ti farei la linguaccia”, mi
dice. Fersen stancamente ridacchia. André non prende bene il commento di Fersen,
ma sorrido anch’io perché la sua linguaccia mi è piaciuta.
“Ehiii, voiii!” Chiamano quasi subito le
signorine.
Io posso buttarlo con loro il mio stipendio, dopo una serataccia così!, tanto…
“Ma cosa vedo lì in mezzo!” Finge di stupirsi una di loro tra lo sfottimento
delle altre. “Un nobile!” Hanno l’occhio lungo. Eh, sì che il mantello bordato
d’oro glielo abbiamo piegato e nascosto per bene: sembra un grassone da fuori:
ci hanno tradito gli scarpini e le calze, non li abbiamo nascosti per niente!
“Dai bel nobiluccio, vieni a fare un
giretto qui da noooiii!”- supplica invitante quella di prima.
“Aspetta, aspetta! Guarda chi arriva!” Strilla un’altra. Ci giriamo all’unisono.
Rassegnata, stanca, arriva a braccia aperte e s’immola per noi. Ha un’aria che
sembra dire sono qui, abbiate pietà di
me.
“Signorine!” Chiama Oscar con tutto il suo fascino e la dose d’ipocrisia che
riesce a raschiare dal fondo del barile; intanto controlla noi e l’arrivo della
carrozza. Fersen, sempre più cosciente sussurra: “Grazie.” Si sente che è pieno
di vergogna.
Non ci vuole molto. La carrozza arriva e si ferma davanti a noi tre. Con André
aiutiamo Fersen a salire a bordo. André inaspettatamente lo segue.
”Sai dove devi andare. Veloce e senza sosta.” Il cocchiere esegue l’ordine e la
vettura parte oltrepassando le puttane che chiamano Fersen, dispiaciute che se
ne vada.
”Avanti! È finita la pacchia! Via di qui!” Ordino per allontanarle da Oscar.
”Con piacere!” Fa inaspettatamente una, come se non avesse altro da fare. In
pochi secondi non c’è più nessuno.
“Faccio tanto schifo?” Lo dico per spezzare la tensione, ma mi viene il dubbio.
“È perché sono povero, vero?”- grido al vento.
“Sì.” Risponde il comandante. “André prima mi ha passato il borsellino con cui
ha pagato il cocchiere e ne ho fatto buon uso.” Lo apre, mostrandomi il fondo
vuoto di monete, poi lo nasconde sotto il mantello.
È così, eh? Già! Il dio denaro che ci sta rovinando tutti.
Sono stanco io ed è stanca lei più di me. Ci guardiamo, riconoscendoci sfiniti.
“Torna al tuo posto, soldato”, ordina gentilmente per una volta.
“Agli ordini.”
E, in poco tempo, il cancello Sud non sa più della nostra esistenza.
Quanti soldi gli avevo dato? Non ricordo più. Ero così di fretta che gliene ho
messi in mano un po’.
“Bastano per la tua carrozza entro cinque minuti e il tuo silenzio?”
Mi ha detto che bastavano eccome poi, dopo avergli indicato la caserma e il
palazzo di Fersen sono scappato indietro: c’è da dire che va a velocità
sostenuta per essere a Parigi! Dorme Fersen, intanto?
C’è troppa penombra e con i miei occhi non sono mai sicuro di nulla. Mi dicono
di non sforzarla, la vista: tutte le notti al buio. È già buono se ci vedo
ancora. Prima, quando l’ha aggredita, non me ne sono quasi accorto e ce l’avevo
ad un palmo.
Russa lievemente abbandonato alla testiera del sedile, ora. Pensavo non lo
facessi per niente. Non sei così perfetto dunque!
Se fossi perfetto non ti saresti ubriacato, tanto per cominciare, e poi non
avresti perso il controllo.
Io l’ho fatto. C’è mancato pochissimo che non la violentassi. Ecco perché quando
l’hai aggredita per poco non ti ho ucciso.
Ti ho odiato in questi vent’anni? Certo, che ti ho odiato.
Quella volta che siamo andati in giardino e sei caduto dalla sedia? L’ho
manomessa io.
Nonna mi ha riempito di botte e me le sono prese tutte perché sapevo di essere
colpevole. Poi, Oscar ti è venuta pure a soccorrere, quindi me le meritavo di
più perché mi è andata male due volte.
Quella volta che ci sono arrivate le spezie indiane e tu sei venuto da noi,
perché per qualche tempo abbiamo avuto un cuoco di quelle parti.
“No spicy”, niente piccante, gli hai chiesto in perfetto inglese. E il cuoco
davvero ce la metteva tutta per fare piatti il meno piccanti possibili, almeno
tollerabili per palati francesi.
Così ho invaso il tuo piatto di peperoncino.
Nessuno ha dato la colpa a me o al cuoco, perché anche Oscar, il generale e
perfino Madame e Rosalie hanno mangiato piccante con soddisfazione; tu, invece,
non riuscivi a respirare e non hai detto dello
sbaglio perché li vedevi prenderti in
giro; piuttosto sei stato zitto.
Poi cosa ho fatto? Sale nel caffè, un paio di ricci degli alberi nel letto in
punti strategici… ma non sempre, per il buon nome di casa Jarjayes. Sei venuto
tante di quelle volte che magari neppure te ne sei accorto. Che erano dispetti,
figuriamoci che fossi io il mandante. Birichinate che facevamo da bambini, io e
Oscar. Hai preso il suo cuore e potresti sposartela anche ora se volessi. Alla
mia età ripensandoci me ne vergogno, ma non avevo altro modo per difendermi da
te.
“Oh!”
Si è svegliato, porta una mano alla testa, strizza gli occhi – adesso sembra che
ci vedo: odio non sapere cosa fa la mia vista – alla fine mi guarda. Non capisce
dove si trova.
“Ah, già…” Scomposto sul sedile mentre dormiva, ora si mette seduto dritto, ma
tiene la testa rovesciata all’indietro.
Non parla, preferisce guardare il soffitto. Meglio così.
“Tra poco saremo a ca…”
“Dietro la caserma della Guardia francese ci davamo appuntamento. Io e
lei.” La Regina Maria Antonietta.
“Non sono necessarie spiegazioni.” Davvero Fersen, non ho voglia di starti a
sentire e neppure m’interessa.
“Prima di andare in quel luogo, credo di aver bevuto cinque bicchieri di brandy.
Almeno da quel che ricordo ero a metà del quinto ed ero ancora piuttosto lucido.
Reggo bene l’alcol.”
Anch’io, ma non questa confessione. E non posso neppure azzittirti – quanto
manca? –
“Avevo una bottiglia in mano quando ero nel giardino, era di bel cristallo:
credo la troverete nelle cucine, dove mi sono intrufolato prima del turno di
guardia. Fin lì ricordo tutto. Poi ricordo solo tu che mi sbatti contro il muro,
non so dove. Volevo morire e qualcuno… mi ha dato dell’Uomo Fetente!” Ti ricordi
anche quello! Mi trattengo dal ridere ma, davvero: “Non c’è bisogno di
scusarsi.” Non m’interessa.
“Oscar sarà furiosa.”
Lo hai visto anche tu mi pare: “Vi perdonerà, conte.”
Finalmente tace.
“Non era un sogno vero? L’ho sul serio stritolata?”
“Sì.”
Se ne dispiace con un sospiro. So che è sincero: ad Oscar non torcerebbe un
capello, lui.
“Nei fumi dell’alcol immersa nella luce della luna l’ho vista eterea, bianca,
bellissima: un angelo consolatore. Quando mi ha detto che stavo facendo la cosa
giusta, l’ho trattenuta a me come se ne valesse della mia vita.”
Ma non ha valutato le sue forze. Mi dispiace sul serio, anche se è meglio non
pensarci troppo o potrei di nuovo tentare di ucciderlo. Cade il silenzio. La
carrozza si ferma ma non siamo arrivati.
“C’è un problema, nulla di grave!” Fa il cocchiere. Io dico che va bene e
continua il silenzio.
“Volevo morire.” Va avanti lui.
Non penso a nulla, se non che vederlo così solo e sconfitto per amore mi
dispiace. Come faccio ad odiarlo se so cosa prova?
“La devo lasciare di nuovo, e preferirei non farlo: tutte le volte temo sia
l’ultima, l’ultima volta che la vedo. L’ultima volta che è viva.” Siamo sotto un
lampione. A ‘viva’ il suo bel volto pallido diventa una maschera terrorizzata di
marmo, come se potesse vedere la Regina morta.
“Non volevo davvero suicidarmi”, prosegue. “Vorrei che entrambi fossimo vivi e
felici, magari in Svezia, in Belgio. In Italia!” Sogna. Forse è l’unico momento
di questa notte tormentata che è felice.
“A Napoli, da sua sorella, dove c’è sempre il sole. T’immagini?” Si volta e,
vedendomi, il sogno svanisce.
Lo so perché: io sono solo un servo e non valgo nulla. Sta cullando un’illusione
con qualcuno che neppure è un suo pari e non ha la facoltà di dirgli
liberamente: “Ottima idea, Fersen!”, o un più ragionevole: “Impossibile. La
Regina di Francia non potrebbe sposarti neppure da vedova!”
Non funziona parlare con un lacchè che sa solo dire: ‘Sì, Signore: come
desiderate’, anche dopo un sonoro ‘vai al diavoloì. E tu nobile von Fersen, lo
sai da almeno trent’anni qual è il tuo posto. Chi sei tu e chi sono io. Non sei
un nobile narcisista a cui piace solo sentirsi rispondere di sì: uno dei tanti
motivi per cui hai conquistato Oscar. Il suo sorriso si spegne e
diplomaticamente guarda fuori dal finestrino.
La carrozza prosegue. Noi non diciamo nulla: Parigi ci scorre attorno fino alla
meta.
“Stiamo arrivando”, faccio io.
Lui non risponde. Anch’io guardo dal finestrino e spero di riuscire a scorgere
la casa di Fersen e un lumino alla finestra.
“È bella.”
Lo ignoro: “Mi sembra di vedere il vostro maggiordomo sulla porta.”
“L’ho vista oltre la camicia bianca, sai e non ci è voluto tanto a notare la
chioma bionda, gli occhi azzurri… Ma per cosa? Averla tra le lenzuola e addio
come le altre, perché amo una donna che è sposata alla Corona di Francia? Non
lei, non Oscar: sarebbe stato un delitto, dei peggiori. Piuttosto mi sono
imposto di vedere ciò che ho visto la prima volta: un maschio efebico, delicato.
Il mio migliore amico. Che bravo idiota, eh?”
“Conte non…”
“Questa volta t’interessa, quindi ascoltami, ti supplico. Potrebbe essere
l’ultima volta.” E supplici sono anche i suoi occhi ancora velati dalla sbronza.
La carrozza non si muove più, il maggiordomo chiama dalla porta d’ingresso.
“Un secondo.” Alza la voce lui, per farsi sentire, ma la testa duole e ne
risente.
“Dillo al tuo amico”, riprende, appena la testa gli dà tregua, “che non sono
così stupido.” Finge orgoglio maschile, ma si adombra subito. “Scusami se non
l’ho amata come avrebbe meritato. Non devo essere una brava persona, ecco
tutto.”
Aprono lo sportello della carrozza, con aiuto anche mio, Fersen scende.
“Ciao”, mi sussurra, in italiano
credo. Chiudono la carrozza e torniamo indietro. Mentre andiamo mi appisolo un
paio di volte. Mi rivedo a vent’anni con entrambi gli occhi sani e i capelli
lunghi legati, riempire un piatto indiano di peperoncino e Fersen che con un
sorrisone stupido se lo prende felice: “Grazie, André”, mi fa, tutto contento.
Due colpi alla porta mi svegliano. Siamo di nuovo al cancello Sud.
“Siamo arrivati!”. Un modo gentile per sbattermi giù dalla sua vettura. Mentre
mi dirigo verso le camerate - il mio turno è finito - penso al mio sogno e al
ciao di Fersen. Forse non parlava con un lacchè in carrozza. Di sicuro ha bevuto
troppo. Io sono sempre stato un illuso. La notte è ancora giovane e noi, io e il
mio padrone Oscar, abbiamo fatto baldoria fino al mattino, secoli fa. Ora ho
solo una gran voglia di andare dormire.
Piove. È sera.
Sono di piantone sull’attenti davanti alla scrivania del comandante che guarda
fuori dalla finestra l’acqua che scende.
“Oscar, il conte Fersen ti manda i suoi saluti. È partito per la Svezia.”
Lei non risponde subito.
“André bisogna radunare le truppe.”
“Va bene.” Esita. Lei è troppo indifferente per non stupirsi.
Allontanandosi dalla finestra si volta verso di me. È sempre pallida ma serena.
“Viene più tardi, ha avuto la febbre.” Mi ha detto oggi pomeriggio sul presto
André.
“Oscar?”
“Sì: è tornata a casa subito dopo che vi siete lasciati al cancello Sud. Si è
fatta preparare la carrozza più anonima e scalcagnata della caserma e, da quello
che mi hanno detto, è stata a letto fino a mezzogiorno. Però ha mangiato.”
È arrivata circa mezz’ora fa, infatti.
“Don! Don! Doon! …oon! …oon!”
Le sette in punto.
“André fammi portare qualcosa da mangiare. De Soissons puoi andare”, mi sorride
debolmente.
“De Soissons, hai sentito?” Gentile.
La furia di ieri è svanita.
Rispondo al comando, saluto e me ne vado.
È pallida. Mi sembra di sentire ancora l’eco di quelle maledette campane
riecheggiare ovunque.
Qui, a casa mia, in chiesa. Sulla tomba di Diane e di mia madre. Odio le
campane. E dicono “No”. A centinaia.
“Sta bene: è solo un po’ stanca.”
Capisce sempre al volo, il mio amico Grandier. Gli sorrido ma non è vero, questa
non l’hai proprio capita. Sta male la tua donna e non è una semplice
infreddatura. Questa volta riesco a nascondere le mie emozioni: il Grandier non
si accorge di nulla. Dovrei odiarti.
“Lo sai che potrei odiarti un po’, lacchè?”.
Accusa il colpo, non se lo aspettava. Poi sorride come lo vedo di rado: “Perché?
E poi non sono un lacchè.”
Rido anch’io. Faccio una pausa.
“Perché, prima o poi, tu te la fai.”
“Chi?”
“La Regina, André, al posto di Fersen.”
Siamo quasi al refettorio quando in tre passi sento che non mi segue più: si è
bloccato in mezzo al corridoio.
Mi volto. André mi guarda con pena. Tenerezza, di quella che useresti ad un
bambino che vive nel suo mondo ingenuo: è sull’orlo di scoppiare a ridere amaro.
Ha capito la mia ironia e proprio per questo gli faccio pena. Ma non succede:
capisce fino in fondo e non ride più. Gradatamente si fa serio, finché smette di
guardarmi come prima.
“Ah! Certo.” Dice semplicemente.
Mi raggiunge e mi sorpassa.
“Devo dire al cuoco di preparare carne ben cotta e poi…” una serie di pietanze
sostanziose per la sua Oscar.
Hai capito, quindi, e vuoi fare finta di niente. Ti piaccio davvero se mi vuoi
lo stesso come amico. Ti distruggo con una paccata sulla schiena e tu fai lo
stesso con me. Ridiamo. Ci vogliamo bene, siamo amici. E amiamo la stessa donna.
Che io non avrò mai e tu sì. Le campane dicono di “No” a me Grandier, non a voi,
che forse una possibilità l’avrete. Dovrei davvero odiarti per questo, ma non ce
la faccio proprio a non volerti bene. Sono un caso disperato.
pubblicazione sul sito Little Corner dell'agosto 2019
Fine
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