St-Gervais
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Mi sono girata a guardare i miei uomini: sono quattro, questa mattina, fermi dietro di me. André è davanti agli altri vicino ad Alain; dietro a loro viene Marcel, e dietro a tutti c’è un biondino, che si chiama Louis, come il re. Non ha neanche vent’anni e una faccia da bambino; mi viene da ridere, da sorridere quando lo guardo; forse per questo non gli sorrido mai.
È stata una settimana calma; le cose vanno così male, in questo inizio d’anno, che nessuno si chiede niente. Tutti i miei uomini, e anch’io, ci siamo abituati a gustare senza far domande ogni periodo appena un po’ tranquillo, per quanto breve e comunque sinistro. Rimaniamo tutti all’erta, ma nessuno lascia trapelare nulla; dar mostra di ansia sarebbe grave quasi come rallegrarsi troppo, e tutto porta male di questi tempi.
Abbiamo fatto i nostri giri, la ronda notturna secondo i turni, i permessi ridotti al necessario. Ho dormito quasi sempre in caserma. Ogni mattina sono uscita con alcuni di loro. Oggi sono qui dietro di me forse i migliori; certamente, tra i miei uomini, quelli che conosco meglio. Forse sono i più coraggiosi, o forse i più belli. Li ho guardati in questi mesi, i miei occhi li hanno cercati nelle riviste, ognuno per un motivo diverso, di ognuno ritenendo un particolare, un segno. Come il fazzoletto che Alain tiene sempre stretto al collo, il suo talismano o il ricordo di un pegno. Fra tutti gli uomini della Guardia, questi quattro sono i più coraggiosi; o forse sono semplicemente quelli che sarebbero, se io fossi uno di loro, i miei amici.
Mi sono girata a guardarli. Siamo fermi vicino a St-Paul; si sentono le grida del mercato, ma questo viottolo è deserto. Sono stanca; siamo fuori da tre ore e non ho dormito molto questa notte. Ho fermato il cavallo e mi sono girata a guardarli senza una vera ragione. Ma comando io, una ragione la troverò. Mi verrebbe da sorridere, con questo pensiero nella testa; sì, anche al biondino là dietro. Invece li guardo come al solito; si irrigidiscono. So come è il mio sguardo; comando io.
André, anche tu hai tirato sù le spalle, con un movimento impercettibile. Ma come? Non vedi che oggi sto facendo finta? Suona mezzogiorno; le campane delle chiese iniziano, una dopo l’altra, come se la città si voltasse lentamente su se stessa. Anche tu, André? Non vedi che mi sono fermata senza una ragione? Che volevo soltanto girarmi, guardarvi un attimo. Neanche tu ti accorgi che stamattina non c’è una ragione: che sono un po’ stanca, che mi viene da sorridere, c’è il sole. A che cosa assomiglia la felicità?
O forse fai finta anche tu. Forse hai imparato ad aspettare gli ordini come gli altri, perché non ci fossero dubbi che sei come loro, uno di loro. E intanto ti sei accorto benissimo che sono qua ferma, a non pensare a niente. Il tuo gomito sfiora quello di Alain. Mi aspettate come sempre. Ma a te non viene da sorridere? Conoscevo il tuo sorriso, anche quando rimaneva nascosto. Rimango in silenzio. Faccio finta di aspettare che tutte queste campane tacciano e smettano di inseguirsi. Il vento è leggero, solo sottilmente gelido; tutto è nitido, pieno di luce; è la fine di febbraio.
Andiamo verso St-Gervais. Ho dato un ordine. Procediamo lentamente, guardo la strada davanti a me. Gli zoccoli dei cavalli risuonano sul selciato, come la vita che rotola urtando da tutte le parti ma, in fondo, senza fretta. Le donne del popolo rincasano con i cesti tra le braccia e il mantello che copre la testa. Però oggi il freddo non si sente molto; guardo il fiato del mio cavallo scomparire e riapparire lungo le briglie, guardo le pieghe dei miei guanti stretti alle redini. I miei soldati sono qua dietro. Forse anche loro non stanno pensando a niente.
Arriviamo dove la via si allarga, lungo il fianco della chiesa. Il terreno è in discesa fino al fiume; un piccolo tratto di Senna si intravede luccicare dietro gli alberi spogli. Due giovani monache passano in silenzio. Fermo il cavallo, questa volta non mi giro. Mangiamo qua; è un ordine, ma facile. Sento un mormorio di soddisfazione alle mie spalle. Scendiamo da cavallo; la spada batte leggermente contro il mio ginocchio; gli uomini tengono i fucili in spalla, ma hanno rialzato le visiere dalla fronte. Il sole scalda i visi. Mi guardano. Tiro fuori delle monete.
“Marcel, vai a cercare qualcosa”.
“Agli ordini, comandante”. Per un attimo scatta sull’attenti; prende il denaro sfiorando appena il mio guanto; poi parte di corsa, risale la via da dove siamo arrivati. Mi viene di nuovo da sorridere; uno che ha appetito.
Mi appoggio al muro chiaro della chiesa, vicino alla porta laterale; le ombre sono così nette che potrebbe essere già un’altra stagione. Mi tolgo i guanti. I soldati si rilassano intorno a me. Le mie mani si rinfrescano immediatamente. Alain mi sogguarda come per chiedere un permesso, poi si siede sugli scalini senza dire niente. Questa volta ho rischiato di sorridere per davvero. Louis lo imita senza guardarmi. Andrè. Ti ho visto: è venuto da ridere anche a te. Non imbrogliare. Mi stai guardando con tanta serietà che non può essere vera. E se è vera, non ci voglio pensare. Anzi, se è vera, stamattina non pensarci neanche tu.
Ti allontani per attaccare i cavalli. Ma ecco, Marcel sta tornando. Alain appoggia il fucile accanto a sé. Del formaggio, del pane e una bottiglia di vino senza tappo. Marcel me la porge, poi si china e fa le parti con gli altri.
“Siediti anche tu, Marcel”.
“Agli ordini, comandante”.
Senza guardarli mi siedo anch’io sugli scalini, appena discosto da loro; allungo le gambe davanti a me; il sole scende tra i tetti, batte sulla mia guancia. Scosto i capelli, alzo gli occhi. André è di fronte a me, in piedi. Allora devi essere tu il più bello e il più coraggioso. I nostri sguardi si incrociano; questa volta mi sorride. Alla mia destra i tre uomini hanno cominciato a mangiare e si passano il pane. Allungo il braccio, porgo la bottiglia ad André, ma non la prende.
“Dopo di voi, comandante”.
“Hai ragione…”. Riavvicino la bottiglia; ne prendo un sorso. Borgogna, però un po’ aspro. Gliela porgo di nuovo.
“Siediti, André”.
Per fortuna non risponde; si siede soltanto accanto a me, tra me e Alain. Piega la testa e beve una lunga sorsata. Nel vino c’è la verità? Marcel ha cominciato a raccontare una storia, qualcosa che ha appena visto; Alain ridacchia masticando. Mi volto un po’ verso di loro, incrocio lo sguardo timido e sorpreso di Louis dietro le teste degli altri. Non mi è venuto in mente di non farlo: gli sorrido. Il profilo di André, nascosto da una ciocca di capelli scuri, fa la guardia senza spiarmi neanche. Allora lo sapevi che sarebbe andata a finire così?
Sono entrata a St-Gervais, mentre il tabacco di Marcel faceva il giro del gruppo. L’interno è abbastanza luminoso, non sembra una chiesa di questa città. Le navate non sono molto lunghe. Cammino fino all’altare; è venerdì. Mi inginocchio ma senza un pensiero preciso, e senza nessuna preghiera. La mia spada batte sulla pietra bianca, stringo i guanti in una mano. Signore, non ho molto da dire. Non so fare penitenza, e poi oggi sta tutto andando abbastanza bene.
“Oscar”.
Sussulto e mi giro all’improvviso.
“André”. È senza fucile, a capo scoperto.
“Ho detto agli altri che…”. Si interrompe perché intanto mi è venuto da ridere, per la timidezza di vederlo lì, per la sorpresa; e devo avere fatto quasi una smorfia per trattenermi.
Mi alzo. Gli angoli della sua bocca si piegano pacatamente.
“Hai detto che volevi confessarti anche tu?”. Suona quasi beffardo, ma ho solo cercato di non rimanere in silenzio..
“Sì”.
“Ma qui non c’è nessuno”.
“Ci sei tu”. Rimane serio, ma la sua voce è delicata. “Forse potrei…”.
Mi guarda per un istante, poi si lascia cadere in ginocchio, davanti a me.
“Forse potrei chiederti perdono”. Lo dice in un sussurro ma mi guarda con fermezza.
Camera mia. Sta parlando di quello. Lo capisco vedendo il suo sguardo. Me ne ero quasi dimenticata. Ero distesa, e lui su di me. Avevo chiuso gli occhi per la vergogna. La mia camicia era strappata e lui poteva guardarmi, mi guardava, mi parlava con durezza. Poteva fare quello che voleva. Sembrava impazzito. Poi era tornato in sé, d’un tratto. Vedendomi piangere. Mi aveva lasciato sola, nella camera dove sono cresciuta, scusandosi confusamente.
“Ma io…”. Ma io veramente me ne ero quasi dimenticata.
È stato un inverno duro: avanzare nella neve ogni sera, gridare gli ordini; in certi giorni il vento impediva di respirare. Per le strade i bambini avevano freddo ed erano vestiti di stracci. Ho vinto l’odio naturale di quelli che adesso sono i miei soldati; ho fatto a pugni anche per avere quello che mi è dovuto. Sulla via di casa a volte ero sfinita; mi stringevo nel mantello, senza parlare neanche con me stessa. Sono stata cresciuta per questo: per resistere. Per non avere freddo. Per gridare gli ordini. Per affrettare l’andatura del mio cavallo.
Una mattina prima di Natale ho guardato di fronte a me li ho visti, dopo settimane, finalmente serrati nei loro ranghi, impassibili sotto la pioggia, nella corte d’armi. Da quel momento ho cominciato a osservarli, giorno dopo giorno. I miei uomini, i creditori di quello che io sono. Marcel ha una scatola azzurra, ci tiene del tabacco; Alain non si toglie mai il fazzoletto rosso dal collo, forse neanche per dormire; Louis è biondo, ha la faccia da bambino e parla con l’accento del Nord. Mi viene voglia di ridere quando lo vedo. In una vita, quello che c’è ogni giorno è forse tutto quello che c’è.
Ti ho guardato sotto la pioggia, André: ancora una volta in prima fila. Come quelli che vanno a morire pronti a uccidere. All’inizio non volevo pensarci: non volevo sapere più niente di te. Ma eri là con gli altri e ho finito con il guardare anche te, come se non ti conoscessi; uno che non conosco, André. Non sorridevi mai ma eri ancora paziente; generoso e pronto, gentile con tutti. Il più coraggioso o il più bello. Ti ho visto uscire in permesso, una sera, con Alain: lui si lamentava e la neve cadeva; tu scuotevi la testa, non è il primo inverno così freddo, non sarà l’ultimo. Più tardi quella notte, mentre faticavo a prendere sonno, ti ho rivisto così, che scuotevi la testa; un gesto familiare. Si ha sempre bisogno di un pensiero, per addormentarsi, una immagine che stia lì, come una candela.
Così intanto, me ne ero quasi dimenticata di quell’altra notte, nella mia camera. E poi oggi, veramente: tutto stava andando abbastanza bene. La luce chiara attraversa le navate come in un giorno di festa. André, non stare in ginocchio.
“Non stare in ginocchio”. Ma tu rimani là e mi guardi, non so cosa voglio dirti.
Scivolo a terra anch’io, lentamente; ancora la spada fa rumore contro la pietra. Sono in ginocchio di fronte a te. Dovrei perdonarti. O abbracciarti. Chiederti consiglio in silenzio ancora una volta. Non so perdonare, non so abbracciare. La spada pesa al mio fianco.
“ Io… Ti perdono…”.
E tu, stringimi.
Grazia, 13-5-2004, pubblicazione sul sito Little Corner del giugno 2004
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