Storia di un amore banale

parte seconda

Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

La scusa che trovai per parlare con la nobildonna, che avevo riconosciuto essere la baronessa de Cérviere, fu in realtà assolutamente banale. Probabilmente sarebbe stata giudicata dalla stessa inopportuna e insolente in qualsiasi altra occasione, provenendo da uno sconosciuto che tutto aveva tranne l’aspetto di un nobile.

In quella particolare circostanza, però quella scusa non sembrò, alla baronessa, né inopportuna né insolente, anzi. Fu prontamente accettata. Le offrii da bere, semplicemente. Nessun motivo per rifiutare l’offerta. Era già ubriaca, in fondo, e una compagnia con cui parlare poteva essere una consolazione migliore del vino.

Al primo bicchiere eravamo già diventati vecchi amici.

Al secondo bicchiere eravamo già diventati confidenti.

Al terzo ero diventato il suo confessore.

E da bravo confessore finii per assolverla dal suo peccato. Avevo solamente scordato di imporle di recitare qualche pater noster. Ma lei, in un certo senso, scontava il “suo” peccato ogni giorno. E in fondo il suo stesso confessore improvvisato, era stato ed era peccatore quanto lei. Le dissi semplicemente che conoscevo il modo di metterla in contatto con Fersen. E per la gioia e per la riconoscenza si scordò perfino di avere a che fare con un uomo qualunque.

Mi avrebbe dato qualsiasi cosa. Anche se stessa, probabilmente. Presunzione di uomo. In ogni caso, non era quello che cercavo. Anzi, quello che avevo saputo di Fersen avrebbe potuto realmente rovinargli la reputazione. Mi resi conto che non volevo una cosa del genere.

In fondo Fersen non era diverso da tanti altri uomini, e quello che avevo scoperto di lui lo avrebbe messo in cattiva luce. Soprattutto di fronte alla regina, che Fersen amava e che ricambiava quel suo sentimento. Non volevo la rovina di Fersen, in realtà.

 Volevo Oscar. In questa circostanza mi interessava la sua reazione quando, scoperto che il suo grande amore non era così perfetto e ideale, avrebbe visto finalmente Fersen per quello che era. O meglio, avrebbe smesso di nascondersi una realtà che aveva sempre saputo.

In fondo, Oscar aveva finito per innamorarsi di un uomo come ce ne sono tanti. Un uomo, non un Dio, con i suoi limiti, con i suoi errori, con le sue manchevolezze, con le sue debolezze. Non migliore di tanti altri. Un uomo come me, in fondo.

Ma se era così, se bastava essere un uomo così, allora perché lei non mi aveva mai considerato come un uomo da amare? Perché lei non si era mai innamorata di me?

Elucubrazione inutile, in realtà, per una notte di vino e pensieri di vendetta. E forse, fin troppo sobrio, come pensiero. Lucido. E in certi momenti, nemmeno io volevo essere così lucido, e consapevole, e razionale. Il problema, tra me ed Oscar, non era quello.

Mi resi conto, allora, e fu il mio ultimo pensiero realmente razionale, per quella sera, che solamente Oscar era il mio problema. Non avevo, in realtà, un vero astio o risentimento nei confronti di Fersen. Ne avevo, e molto, nei confronti di Oscar. L’oggetto del mio astio e della mia rabbia, della mia voglia di fare del male era proprio la donna che per anni avevo creduto di amare. Solo lei volevo punire. E volevo punirla per un amore che non mi concedeva, chissà perché.

Rientrai a casa, ma non volevo entrare in quella casa così triste, così presi una coperta e mi stesi sull’erba, dal punto che avevo scelto potevo vedere la finestra della stanza dove lei dormiva. La luce della luna illuminava tenuemente le imposte della sua finestra. Chiuse, buie, fredde, distanti, come era lei per me.  Come sarebbe sempre stata.

La coperta non bastava a ripararmi dall’umidità della notte, che finì per entrarmi nelle ossa, proprio come nessuna delle mie difese negli anni mi aveva impedito di innamorarmi di lei. Nessuna motivazione, nessuna giusta causa lo aveva impedito, nemmeno il pensiero che eravamo stati bambini insieme, né l’idea di una punizione da parte di suo padre, nemmeno il mistero e il fascino di altre donne. Nessun pensiero era servito a impedire che io mi innamorassi di lei. Nessuna barriera, né sociale né morale. Nemmeno quella divisa rigida, pesante, più tagliente della sua spada, per lo sguardo di un uomo, mi aveva impedito di desiderarla. Il suo scudo.

Eppure, negli anni, certe volte mi era sembrato di poter fare a meno di lei.

Certe volte mi era sembrato di poter ridere, perfino, di certe sue manie, di certe sciocchezze che diceva.

Certe volte mi era sembrato di poter ridere di lei. In quelle occasioni mi sentivo più forte, mi sentivo libero.

Ed ero in trappola, invece. Perché lei, come l’umidità di quella notte, mi era entrata nelle ossa, nel sangue. E non sarebbe bastata nessuna coperta a coprirmi da lei. Tremai per il freddo, quello della mia pelle e quello dei miei pensieri. Avrei voluto tremare, invece, stringendomi al suo corpo, dal desiderio di entrare in lei. Pensieri folli, in una notte fredda, di un amore tanto assurdo, vero.

Le persiane rimasero chiuse, nessuna luce di candela illuminò quella stanza. E io non potetti abbracciarla. Nemmeno quella notte.

Il giorno dopo raggiunsi la baronessa nella sua casa, per portarla, in gran segreto, nel posto in cui sarebbe avvenuto l’incontro. Versailles mi sembrò il posto peggiore per uno scandalo. E io volevo uno piccolo scandalo, quel tanto che colpisse il cuore di Oscar. Niente di più. Fersen si sarebbe assunto le sue responsabilità da uomo nobile e leale quale in fondo era, e Oscar avrebbe dovuto assumersi le sue verso se stessa, finalmente. Inoltre, se Oscar avesse scoperto chi aveva organizzato quell’incontro avrebbe potuto apprezzare che non avessi sottoposto il suo amato ad uno scandalo troppo grande. Mi garantivo un perdono, ai suoi occhi, se non potevo, di fatto garantirmi un posto nel suo cuore.

Più difficile fu convincere Oscar e Fersen a fare una passeggiata a cavallo proprio presso quel particolare bosco dove la baronessa aspettava. Ma ci riuscii. Spiavo i movimenti di lei, a cavallo, mentre cavalcava lentamente, parlando con lui. Mi ritenni fortunato, perché lui non sembrava per nulla accorgersi della sensualità nascosta dei movimenti di lei. Mi ritenni fortunato, che lui non si fosse mai accorto veramente di quanto fosse bella e desiderabile. Ma la mia vera vittoria mi aspettava non troppo lontano da lì. E infatti, Fersen per primo scorse la carrozza. Istintivamente fermò il cavallo. Lo vidi impallidire. Povero Fersen, non doveva aver proprio dimenticato tutto di lei. Lo stemma lo ricordava, tanto per incominciare. Quasi mi veniva da ridere. Ma una risata, in quella circostanza, Oscar non me l’avrebbe mai perdonata. Quindi mi predisposi ad essere lo spettatore di quel dramma che andava consumandosi sotto i miei occhi, di cui mi interessava poco, perché la mia attrice, la protagonista vera doveva ancora entrare in scena. Non avrei perso neanche un attimo della sua recitazione. Avrei avuto gli occhi puntati solo su di lei. Sì, Oscar, la mia protagonista eri tu. E non avevi fatto neanche una prova, prima di andare in scena.

La baronessa scese dalla carrozza, la veletta nera che le copriva il volto non riusciva a nascondere la sua emozione. Fersen sembrava paralizzato. Oscar guardava senza capire. Brava amore mio, sei perfettamente nella parte, e ora? Non vuoi sapere cosa succede?

Fersen scese da cavallo, e la baronessa gli corse incontro, abbracciandolo. Fersen l’abbracciava a sua volta, ma senza forza come… un sacco di patate.  Bellissimo. Oscar lasciò istintivamente le redini del suo cavallo. Si arrendeva. Abbassò gli occhi. Era sconfitta. Sentii che sarei voluto salire sul suo cavallo e portarla via da lì. L’avrei fatta piangere, anche gridare, se avesse voluto ma lontano da lì, e tra le mie braccia, in ogni caso. Ma non potevo, e assistei in silenzio anche alle parole della baronessa, allo schiaffo che diede a Fersen, peccato, poteva fare di meglio, e soprattutto all’entrata in scena silenziosa di un’altra protagonista. Il mio colpo di scena avanzava silenziosamente, nel candore del suo abito bianco, tra i piccoli fiocchi tra i capelli dorati, e i pizzi che sfioravano delicatamente il terreno. Lei cambiava la vita di Fersen. Lei cambiava la vita di Oscar. Sperai con tutto il cuore che avrebbe cambiato anche la mia vita. Fersen cadde in ginocchio. E Oscar prese le redini, stringendole a sé, per fuggire. E fuggì, via, mentre la bambina abbracciava quel padre improvvisamente ritrovato. Non aveva più senso stare lì. Ero di troppo. Lo spettacolo diveniva privato, e io ero stato fin troppo indiscreto. E la mia attrice, magnifica, aveva lasciato il palco. Volevo raggiungerla. Ma era già troppo lontana. E tornai a casa. Alla fine sarebbe rientrata.

Ma a mano a mano che passavano le ore e che il sole compiva il suo percorso creando e dissolvendo ombre sui muri della nostra casa, lei non sembrava tornare. Non tornava.

Allora ebbi paura, una paura folle che le fosse successo qualcosa, che avesse scelto di far succedere qualcosa. Spaventato, presi quello che trovai e montai di nuovo a cavallo. Non sarei tornato a casa, senza di lei. La cercai per ore, mentre la mia angoscia cresceva sempre di più.

E la mia coscienza mi schiacciava, nei pochi istanti che il terrore di perderla mi lasciava libero di pensare. Quando la trovai, finalmente, era seduta, vicino ad un fiume, mentre l’ultimo raggio di sole, troppo debole per poterla più riscaldare, lasciava l’orizzonte.

Docile si fece avvolgere nel mantello che le avevo portato. Tremava e avvolsi lei e il suo mantello tra le mie braccia. Appoggiò la testa al mio petto, in silenzio. Le accarezzai piano i capelli. Non avevo parole da dirle. Niente l’avrebbe consolata.

Mi chiedeva silenziosamente di rispettare il suo dolore. Perché certi dolori conoscono solo il silenzio, e ogni parola evoca solo vergogna, e umiliazione. Lo feci. Rispettai il suo silenzio, anche se dentro morivo d’amore per lei. Rimanemmo così, non so dire per quanto.

Ma le prime stelle splendevano nel cielo, quando decisi che dovevo almeno farla mangiare, perché la strada per tornare a casa sarebbe stata lunga, se Oscar avesse voluto percorrerla. 

E se avesse voluto non tornare più l’avrei seguita ovunque lei avesse voluto.

Le accarezzai una guancia. Non l’avevo mai fatto, e mi emozionai. Mi sorrise, tenuemente.

Quasi felice, del suo dolore, ero, in quel momento.

Aveva fatto bene, in realtà, a non innamorarsi di me.

Presi il pane, l’unica cosa che ero riuscito ad afferrare, in cucina, prima di lanciarmi ad inseguirla. Le chiesi se aveva fame, mi rispose con un semplice cenno del capo. Mangiò pane, dalle mie mani, quasi come un uccellino becca il pane. Lo spezzavo per lei, affinché i bocconi non fossero troppo grossi, riuscivo quasi ad imboccarla.

Niente doveva affaticarla. Lentamente tornò ad essere se stessa, e ne fui quasi sollevato, perché vederla così fragile mi faceva quasi paura.

Paura di poterle fare male anche io. Paura di poterle fare ancora più male, se davvero lei si fosse innamorata di me, se davvero avessimo provato a viverlo, un amore insieme. Paura che in quel caso non ci sarebbe stato un altro a consolarla, a spezzare il pane per lei, e timore insieme, che forse invece un altro ci sarebbe stato, e l’avrebbe consolata lui, l’avrebbe accarezzata lui.

L’ultimo atto di tenerezza fra noi fu quando le tenni sollevati i capelli, mentre cercava di bere l’acqua del fiume con le mani. Avrei voluto farle un’altra carezza. Ma l’incanto era già finito. Oscar tornava ad essere la persona di sempre. Le lasciai andare i capelli, che ricaddero sulle sue spalle. Montò a cavallo. Mi guardò, un‘ultima volta, prima di spronare il suo cavallo.

“E’ stato solo un momento. Un momento di debolezza, da parte mia. Non accadrà mai più, te lo prometto”.

Partì, spronando il cavallo al galoppo. Per terra, l’erba smossa, piegata dal nostro peso era l’unico segno tangibile che io e lei ci eravamo abbracciati. Solo un momento di debolezza, aveva detto. Io sperai invece che fosse solo l’inizio, seppure difficile e inconfessato, del nostro amore.

 

Continua...

mail to: f.camelio@libero.it

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage