Il sospetto
parte ottava - II percorso -
André apre la lettera
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Parte ottava: (2 percorso: Andrè apre la lettera).
Avevo poco tempo, e aprii la lettera con la stessa curiosità di quando ero bambino e mi divertivo, con Oscar, a esplorare le stanze ormai in disuso di Palazzo Jarjayes. Uno dei nostri giochi preferiti. Uno dei più divertenti. Anche perchè c’era il gusto del proibito, di quello che non si deve fare.
E in fondo anche leggere quella lettera aveva un parte il sapore di una cosa proibita.
Sapevo di avere poco tempo per farlo, ma ebbi cura di non strappare troppo la busta, né i fogli contenuti in essa. Poi mi sedetti sul letto, a leggere, lo sguardo, all’inizio, rivolto continuamente verso la porta, le orecchie tese a percepire il minimo rumore dalla stanza da bagno, dove lei era.
Poi, mano a mano che leggevo, qualsiasi rumore mi sembrò così remoto da divenire impercepibile. Stringevo tra le mani la lettera, mentre le mie lacrime la rendevano quasi illegibile. Lasciai cadere i fogli. Piansi, in silenzio, perché lei non udisse nulla.
Dolore, solo dolore sentivo, e rabbia, contro il mondo e contro di lei, che me l’aveva nascosto fino a quel momento. E una disperata voglia di stringerla tra le mie braccia. Di farmi giurare da lei che quello che aveva scritto non era vero. Che niente di quello che c’era in quella maledetta lettera corrispondeva a verità. E che lei sarebbe rimasta con me per sempre. Per un istante sollevai gli occhi a guardare la mia immagine riflessa nello specchio di fronte a me. Allora mi accorsi di qualcosa che non avevo notato prima. Qualcosa, un oggetto, sporgeva, di pochissimo, da sotto il letto. Mi abbassai. Era una valigia. La aprii, era piena dei suoi vestiti. Era pronta a fuggire.
A fuggire da me per sempre. E lo avrebbe fatto, probabilmente quella notte stessa, motivo per cui avrei dovuto aprire la lettera solo il mattino dopo. Dopo la sua fuga. Allora presi la mia decisione. Lei non sarebbe fuggita. E il mio piano sarebbe stato più diabolico di quello archidettato da lei. Perché la mia disperazione era più grande della sua. E perché io l’amavo, più di ogni altra cosa al mondo. E per amore si può anche ingannare. Lo seppi in quel momento con certezza. La sua lettera ne era la prova. Così, svuotai sistematicamente la sua valigia, misi alla rinfusa i suoi vestiti dentro una cassettiera e rimisi la valigia vuota, sotto il letto. Poi, presi una busta dallo scrittorio, misi al suo interno la lettera, e la rimisi nel cassetto dove l’avevo trovato, con la chiusura rivolta verso il basso, in modo che non si vedesse la mancanza della ceralacca.
Poi asciugai le mie lacrime, tirai fuori, non so da dove, il mio sorriso migliore, e andai da lei.
La trovai quasi assopita nella vasca. Mi avvicinai a lei. Aveva gli occhi chiusi, e io tremai nel vederla così. Trattenni a stento le lacrime, ma riuscii nella mia impresa. Lei aprì gli occhi quando io le fui vicino.
“Andrè…” mormorò, come in un sussurro.
Mi avvicinai, tolsi le scarpe e poco altro ed entrai nella sua vasca. Lei mi guardò, stupita. Insinuai il mio corpo tra le sue gambe, per arrivare al suo viso, alle sue labbra. L’abbracciai, e la baciai. La sentii rispondere al mio bacio. La baciai con più passione allora. Trovai i suoi capelli e li accarezzai, mentre continuavo a baciarla. Poi la sentii scostarsi da me. Aprii gli occhi. Vidi il suo sorriso.
“Volevo solo baciarti”, dissi.
“Guarda che se continuiamo così la vasca si rovescerà…”, mi disse, maliziosa.
La mia maliziosa, bugiarda, ingannatrice Oscar.
Mi separai da lei allora, uscii non senza difficoltà dalla vasca, finii di spogliarmi davanti a lei, che mi guardava con aria incuriosita e divertita. Poi afferrai un grosso telo e la invitai ad uscire dall’acqua. Quando lei uscì avvolsi entrambi i nostri corpi nel telo, abbracciandola.
L’asciugai, poi la presi in braccio e la riportai a letto. Lasciai che lei si sdraiasse per raggiungerla, per riprendere quell’abbraccio appena cominciato e troppo presto interrotto, perché l’urgenza di stringerla a me ancora era troppo forte, e più importante in quel momento di qualsiasi altra cosa, e ripresi a baciarla.
La baciai per un tempo infinito. Feci l’amore con lei, stringendola forte, così forte che in certi momenti mi sembrò di farle quasi male. Allora mi resi conto, che dai suoi occhi erano uscite lacrime, mentre l’accarezzavo, mentre la stringevo a me. Pensai: piangi perché pensi che sia l’ultima volta che facciamo l’amore. Ti sbagli. Si, ti sbagli, e te lo dimosterò. Mi fermai a guardarla. Le accarezzai piano il volto, i capelli, seguii con un dito, dolcemente, il suo profilo. Poi le dissi: “Giuramelo, adesso”
“Cosa?” mormorò lei.
“Giura che mi ami, e che non mi lascerai mai, mai, Oscar”
I suoi occhi si fecero lucidi.
“Io ti amo, Andrè” disse, un tono, come una supplica, di non chierle altro, di non farle dire cose che non poteva dire.
Le sorrisi, allora, e ripresi a baciarla, e a accarezzarla, e a darle piacere in ogni modo possibile.
Feci l’amore con lei. E non mi fermai, e lei non mi fermò. Nessuno dei due lo voleva, in quel momento, e non ci fu alcun bisogno di dircelo. Per un istante, desiderai, nella mia follia, che in quell’atto fosse concepito un figlio. Un figlio nostro. Mi aggrappi all’idea assurda che un figlio sarebbe stata la soluzione, che sarebbe stata una motivazione per lei, per rimanermi accanto. Non so a cosa pensasse lei, in quel momento. Forse, solo che quella era l’ultima volta e che per questo si era lasciata andare completamente, senza pensare ad altro che a lei, che a me, che a noi due. Così ci amammo fino a che, appagati, stanchi, ma apparentemente felici, ci separammo. Poi lei si voltò a cercare il mio abbraccio e la tenni con me, ancora per un pò, accarezzandola piano, dicendole sottovoce quanto l’amavo.
Poi, scherzando con lei, la convinsi a rivestirsi e a scendere al piano di sotto, mettendo alla prova le sue capacità di cuoca. Raccolse il guanto di sfida, spergiurando che in quell’occasione mi avrebbe sorpreso. Quando la sentii armeggiare con le padelle dal piano di sotto, approfittai per sigillare con la ceralacca la nuova busta. Il mio piano era decisamente migliore del suo.
Mangiammo, ma la serata non durò molto, perché Oscar mi disse che era meglio coricarsi presto per svegliarsi alle prime luci dell’alba. Con una scusa rifiutai un bicchiere di cognac che mi aveva furbescamente offerto. Voleva assicurarsi del mio sonno, ma io finsi di addormentarmi, facendo appello a tutte le mie forze perché non finissi per addormentarmi seriamente. Passai cosi almeno un paio d’ore. Oscar, accanto a me, lottava con altrettanta forza per non addormentarsi a sua volta. Ma il suo respiro era sempre quello di una persona vigile, nonostante gli occhi chiusi e l’apparenza di una persona addormentata. Poi sentii un rumore, una carrozza, che arrivava piano. Il più piano possibile. Sentii un lieve sospiro di lei. Poi sentii il suo corpo allontanarsi piano da me. Poi fermarsi, all’improvviso. La sua mano si posò, per un istante, sulla mia guancia. La sua ultima, lievissima, carezza.
No, quello non era ancora il momento. Non ancora.
Scese dal letto. Sentii che si rivestiva velocemente.
No, ancora no, non era quello il momento. Poi aprì con delicatezza la finestra, probabilmente per farsi vedere dalla persona che l’aspettava con la carrozza. Tremai per il freddo che per un istante era entrato nella stanza.
No, ancora non era il momento giusto.
Poi la sentii di nuovo avvicinarsi al letto, abbassarsi. Trascinare fuori, lentamente, la valigia. Poi sentii che la sollevava. Il suo respiro mutò, per la sorpresa.
Ecco, era quasi il momento.
Sentii che stava aprendo la valigia. Un sospiro.
Allora mi voltai a guardarla.
Fragile, adesso era di fronte a me, in tutta la sua fragilità di essere umano. Sorpresa, impaurita.
La guardai, senza dirle niente.
Lei stessa sembrava avere persino paura di iniziare a parlare. Non sapeva cosa aspettarsi da me.
Allora fui io a parlare.
“Hai dimenticato di mettere diverse cose nella tua valigia, amore mio”
“Andrè, io…”
Mi alzai a sedere, guardandola negli occhi. Ma lo sguardo di lei era rivolto al cassetto dove aveva riposto la lettera. La vidi all’improvviso lanciarsi verso il cassetto. Un tentativo, estremo, di negare la realtà. Tirò fuori la lettera, lo sguardo, per un attimo come rinfrancato, dall’averla trovata lì, apparentemente non ancora aperta. Tornò a guardarmi. Mi sembrò che stesse pensando ad una scusa da inventarsi per giustificare quella valigia.
Adorabile bugiarda, stava tentando di giocare la sua ultima partita con me. Fiduciosa di vincerla ancora una volta. Ma aveva già perso.
Il tono della sua voce cambiò come a minimizzare la cosa. Certo, ora sapeva cosa dirmi, quale bugia utilizzare.
“Andrè… e io che per un attimo ho creduto…,torna a dormire, io preparo …”
“La valigia? Mi pareva che tu l’avessi già preparata e piuttosto bene. Ma ti dicevo, che hai dimenticato alcune cose importanti”
Mi alzai di scatto, prima ancora che lei potesse rispondermi qualsiasi cosa, e corsi alla finestra. La spalancai. Al cancello, non lontano, una figura avvicinava una lanterna al viso per vedere chi si era affacciato. Lo vidi anchio allora. Non poteva che essere lui, naturalmente.
“Conte di Fersen! Che gradevole sorpresa! Non pensavo che la vostra insonnia vi spingesse a viaggiare in luoghi così lontani dalla vostra abituale dimora. Oh, ma forse siete forse qui per un altro motivo? Mi dispiace che abbiate fatto un viaggio così lungo per venirci a trovare… purtroppo per voi, però, è stato un viaggio senza scopo, perché il vostro viaggio con Oscar è rimandato… a data da destinarsi. Mi dispiace, Conte, buona notte”.
Chiusi la finestra. Oscar si era seduta sul letto. Non c’erano altre bugie da inventare, lo sapeva bene. Guardava nel vuoto, non sapeva più cosa fare. Aspettava gli eventi. Aspettava che io, ora, le dicessi la verità. Desiderai di abbracciarla con tutte le mie forze.
Ma non era ancora il momento.
Per un momento ci fu solo silenzio nella stanza, e nei nostri cuori. Poi udii la carrozza che si allontanava velocemente.
“Quale era la destinazione, Oscar?”
“Cosa?”, rispose, come a prendere tempo.
“La destinazione del tuo viaggio con quel ruffiano di Fersen, a quello mi riferisco”
“Andrè, ti scongiuro…”
“Rispondi, ti ho fatto una domanda, dove andavi in piena notte con lui?”, il tono della voce più alto, ma fermo.
“Andrè… è vero… sono una sgualdrina… lasciami andare via, lasciami andare via con lui”
Era disposta anche a questo? A passare per una sgualdrina? Pazza, davvero. Disperata. Come me. Forse, in quel momento, persino più di me.
“No, Oscar, tu non vai da nessuna parte, almeno per il momento. Devi spiegarmi molte cose”
Si alzò di scatto, mi guardò, lo sguardo pieno d’ira, di una disperazione mista alla rabbia. Urlò.
“BASTA ANDRE’! BASTA!”
Si voltò per correre via dalla stanza, ma la bloccai istantaneamente, afferrandola per un braccio.
Si voltò verso di me, il volto pieno di lacrime. Tentò di divincolarsi dalla mia stretta. Ma non vi riuscì. Mi chiedeva pietà, con gli occhi. E non era pietà quello che intendevo darle. La abbracciai, stringendola forte. E sentii lei scoppiare a piangere, come non aveva fatto in tanti anni.
Piangere fino quasi ad urlare nel pianto. E si aggrappò a me, con tutte le sue forze. Allora la accarezzai dolcemente, sulla schiena, e accostai la mia bocca al suo orecchio.
Le sussurrai, perché le mie parole le arrivassero dritte al cuore. Perché non ci fossero più barriere, né incomprensioni tra noi. Né sospetti, né paure, né dolore, né disperazione. Perché non ci fosse più niente di tutto questo, qualunque cosa ci fosse successa, qualunque fosse stato il nostro destino. Nostro.
“Oscar, hai dimenticato di mettere nella tua valigia il mio amore per te, quanto io tenga a te, qualunque siano le circostanze. Io ti amo, Oscar, ti amo davvero. Non rinuncerò a te per niente al mondo”
“Andrè… ti prego…”
“Oscar, so tutto. So tutto”
Sollevò il suo viso a guardarmi. Poi si separò da me. La vidi tornare, lentamente a quel cassetto. Lo riaprì, ne prese la lettera. La guardò bene. La girò più volte. Poi capì. La vidi sospirare e sedersi sul letto. Quasi accasciarsi su quel letto. La raggiunsi, e mi sedetti al suo fianco. Appoggiò dolcemente la sua testa sulla mia spalla.
“Dimmi, Andrè, cosa succede ora?”
“Succede che prepariamo veramente i bagagli. Torniamo a casa. Perché voglio parlare con tuo padre, prima di portarti via con me.”
“Andrè… tu non capisci…”
“E’ vero, forse non capisco, non capisco fino in fondo quello che stai provando. Ma non ho alcuna intenzione di lasciarti. E’ vero, io lotterò, fino in fondo. E non ti lascerò da sola, comunque. Ma sono disposto anche a morire per te. O con te. In fondo, tu questo l’hai sempre saputo. E’ una vita che sono con te, che vengo con te in qualsiasi luogo, non vedo perché cambiare, proprio adesso[1].”
Mi baciò. La voce le usci spezzata, quando mi disse che mi amava.
Così mi raccontò tutto, tutto quello che la lettera diceva, certamente, ma anche tutto quello che la lettera non diceva. Tutti i piccoli e grandi inganni che aveva ordito. Per amore mio. Solo per amore mio.
Mi raccontò di quella notte di natale, di come, disperata, aveva deciso di rivolgersi al medico proprio quella sera. Della diagnosi, assurda, terribile, di tubercolosi polmonare. Di un compleanno che davvero, pensava fosse inutile festeggiare, per questo motivo. Dei pochi mesi che il medico le aveva prognosticato. Di come, da allora, aveva cercato di evitarmi, proprio perché si era resa conto di amarmi. Di come aveva tentato di prepararsi al momento in cui mi avrebbe lasciato. Al fatto che Fersen sapeva, perché abitava vicino al medico, e lei disperata quella notte di natale si era trovata di fronte quel cancello e l’urgenza di parlarne con qualcuno a cui potesse dispiacere la sua morte, provocare anche molto dolore, ma che non si sarebbe disperato per questo. Di come avesse raccontato a Fersen in quella e in altre occasioni, del mio amore per lei e del suo per me, e di come più di una volta lui l’avesse consigliata di parlarmene, di raccontarmi tutto.
Mi raccontò di come Alain venne a sapere di tutto, quella volta in caserma, quando la trovò, per terra, in lacrime, dopo che io l’avevo maltrattata. Di come lo aveva fatto giurare che non mi avrebbe detto niente. Tutto aveva una sua spiegazione. Mi portò lei stessa in salotto. Per mostrarmi il suo ultimo mistero. Un ritratto di lei, nello stesso abito che avrei voluto distruggere, un pomeriggio, nella sua stanza. Il suo ultimo dono per me. Che spiegava le sue fughe serali. L’abbracciai. In ginocchio, poi, le chiesi perdono per tutti i miei errori, per tutti i miei sospetti, per quella notte che l’avevo assalita, mentre lei non usciva da casa di Fersen, ma da quella del medico, e di come quella notte, aveva avuto paura che l’avessi scoperta. Mi confessò che quella notte avrebbe accettato qualsiasi cosa da me, purchè non scoprissi la sua malattia, e che quel bacio me l’aveva dato perché mi amava… e i pugni… perché aveva ancora tanta rabbia nel cuore per quella prima volta tra noi, in cui, violentemente, l’avevo baciata, quasi violentata, per confessargli il mio amore, e per impedirmi di lasciarmi, anche allora. Come avrebbe voluto fare, anche adesso.
“Sai, non è cosi facile liberarsi di me, amore mio” le dissi, sorridendo.
“Me ne sono accorta”. Sorrise. Il primo sorriso sereno di lei dopo tanto dolore.
“Esiste qualcosa che possa impedirti di stare con me?”, disse lei, con un sorrisetto, ironico. Adorabile.
“Direi di no: hai di fronte l’uomo che ha affrontato, per te, una discreta serie di intrighi di corte, risse di ogni genere, ma sempre e comunque provocate da te per futili motivi, incendi, trappole, vari tentativi di agguati, di giorno e di notte, lampadari cadenti, conventi che saltano in aria, inseguimenti di ogni genere, una marea di sciocchi cortigiani, il color pulce…”
“E hai perso un’occhio per colpa mia. Ed hai rischiato di venire massacrato di botte dai soldati della mia compagnia, e il popolo…a Sant’Antoine…”
“Si, ma non sono ricordi piacevoli…” dissi, accarezzandole una mano, come a far cenno di non proseguire oltre.
“Mi dispiace, Andrè…. mi dispiace così tanto…”
“Ssst… Oscar, rifarei tutto quello che ho fatto per amor tuo… e poi c’è una cosa che proprio non posso sopportare… la vera ragione per cui ti porto via da tutto.”
“E cioè? Quale sarebbe?” disse lei ritrovando il sorriso,
“Che finalmente non riceverò più mestolate da mia nonna! Tu non sai quanto fanno male, le sue mestolate!”
Rise, la sentii ridere, finalmente. Ridere di cuore, come non faceva da tempo. Le avrei consegnato io stesso in mano il mestolo, se darmelo in testa fosse servito a farla ridere ancora così, a renderla felice, a farla tornare di nuovo sana. Strano, ridicolo, masochista sono io, certe volte.
Ma innamorato di lei.
Preparammo le nostre cose.
Il colloquio tra me e suo padre non fu facile. All’inizio. Ma soprendentemente, me l’affidò. Mi affidò sua figlia. Favoriva perfino un nostro matrimonio. A dire la verità mi disse, e mi accorsi che era davvero sincero, che ne sarebbe stato felice. Purchè non fosse di dominio pubblico, affinchè la figlia non perdesse i diritti che aveva in quanto nobile.
Poi, parlando, mi vennero in mente alcune delle parole che lei aveva scritto nella lettera.
Non
ho scelto di nascere, non ho scelto, realmente, quello che volevo essere nella
vita.
E invece, per paradosso, in quella stanza, due uomini, per quanto profondamente legati ad una donna, stavano decidendo per lei. Di nuovo. Chiesi al generale di riprendere il discorso di fronte a lei. E Oscar entrò nella stanza. Vidi gli occhi del generale commuoversi, il modo in cui la guardava come a spiare tristemente i segni della sua malattia. Fu solo allora che mi resi conto di quanto Oscar fosse dimagrita, in realtà. Fu solo allora, attraverso lo sguardo del padre di lei, che mi resi conto realmente che Oscar era malata. Fu solo allora che ebbi veramente paura di perderla. Una paura fottuta di perderla. Oscar ringraziò il padre per averci concesso di andare via insieme. E quanto al matrimonio, disse scherzando, che doveva pensarci bene, che in fondo era troppo poco tempo che stavamo insieme noi due… per poter pensare ad un impegno così serio…
Partimmo.
Era triste lei, mentre ci allontavamo dalla sua casa. Era convinta, anzi era certa che non vi avrebbe fatto più ritorno.
Credevo di conoscerla. Si, credevo di conoscerla bene. Credevo che il fatto di avere vissuto con lei fin da quando eravamo bambini fosse sufficiente a conoscerla. Fosse sufficiente a sapere tutto di lei.
Ho passato una vita, una vita intera ad osservarla, ad osservare tutto. Pensavo di poter persino guardare il mondo come lo guardano i suoi occhi. Pensavo che fosse sufficiente guardarla negli occhi per capire cosa le passasse per la testa. I suoi pensieri, i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue gioie e i suoi dolori, mi sembrava di poter leggere tutto attraverso i suoi occhi, i suoi gesti, il tono della sua voce. E che solo a me, a me soltanto potesse essere conosciuto. L’unico vero testimone della sua vita. L’unico testimone di lei.
Mi sbagliavo. Ora so fino a che punto mi sbagliavo.
Già, ma anche lei si sbagliava, si sbagliava di grosso. Era lei a non conoscere me, in realtà. A non sapere quanto l’amore mio per lei fosse grande. A non sapere quanto aiuti, nella vita, il sentirsi amati.
E a non sapere come, qualche volta, anche quando non sembra più esserci alcuna possibilità, le cose possano cambiare.
Così, in quella casa siamo tornati, più volte, e torneremo ancora.
Perché sta meglio, ora, dopo tanto tempo, sta molto meglio e forse un giorno guarirà completamente. Non smetterò di sperare, mai. Come non smetterò di amarla, mai.
Le ho chiesto se vuole sposarmi, ora che è passato un anno da quando siamo diventati amanti.
Mi ha detto, sorridendo, abbracciandomi forte, che ci penserà.
Fine
mail to: f.camelio@libero.it
[1] E’ una citazione, ovviamente, dell’episodio n 37 ^____^