Il sospetto

parte ottava - I percorso -

André non apre la lettera

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Parte ottava: (1 percorso: Andrè non apre la lettera).

 

 

La decisione che avevo preso non era stata facile, ma in quel momento decisi, o forse scelsi di pensare che quella lettera nulla avrebbe cambiato del mio rapporto con lei. Questo, alla fine mi spinse a non aprirla. A non aprirla in quel momento, almeno. Mi convinsi che era solo un suo gioco. Il gioco di una donna, per carattere ed educazione, restia a parlare dei suoi sentimenti. Anche con me, che l’amavo da una vita. Anche dei suoi sentimenti verso di me. Ma lei era così, era fatta così. Forse l’amavo anche per questo. L’avrei amata comunque, in qualunque modo lei si fosse comportata. L’avrei amata per sempre. E l’amerò per sempre.

E se lei mi aveva chiesto, nuovamente, attraverso quella lettera, come in caserma con il pacco, o come la stessa sera nella casa della sorella, di giocare con lei, io non potevo non farlo. Non potevo non esaudire un suo desiderio. Ne avrei esauditi mille, per il suo amore.

Ma quello era l’unico gioco a cui non avrei mai dovuto giocare. Ed è stato il più grande errore della mia vita. E fui punito. Nel modo peggiore.

Avevo ancora la sua lettera tra le mani, quando sentii che Oscar stava alzandosi dalla vasca. La sentii chiamarmi. Guardai la busta per un ultimo istante. La sua voce aveva fugato anche l’ultima possibilità di aprirla. La misi via. E raggiunsi lei. La aiutai ad asciugarsi, le rubai baci a non finire, me ne erano mancati così tanti, in tutti quegli anni… e lei non sembrava chiedere altro alla vita se non di potermeli dare. Non si sottrasse a nessuna delle mie carezze, dolci o audaci che fossero, a nessuno dei miei abbracci. Era mia. Ed ero felice. Mi condusse lontano da quella stanza, per cenare, poi per ridere, per scherzare, e di nuovo, per abbracciarmi, per accarezzarmi, per baciarmi. Era mia.

Quella sera era ancora mia.

Poi, mi disse, dolcemente, che aveva sonno. Quando le dissi che volevo parlarle di quello che avremmo fatto il giorno dopo, mi rispose sorridendo che ci saremmo svegliati presto per parlarne, e per preparare il nostro ritorno in caserma. Sembrava sincera, così tremendamente sincera.

Le credetti, sapevo, sentivo, che lei era mia, ancora mia.

E invece, non lo era già più. Fu, in effetti, il suo ultimo inganno.

Mi addormentai al suo fianco, credendola addormentata a sua volta. Accarezzai il suo viso, baciai la sua fronte. Mi lasciai andare al sonno, allora.

Non mi accorsi di niente. Né della valigia preparata da lei chissà quando, e nascosta sotto il letto, né della carrozza che venne a prenderla, nella notte. Non seppi mai chi fu il suo complice. Chi, quella notte, la portava via da me. Per sempre.

Quando mi svegliai, all’alba, lei non era più accanto a me. Pensai che si fosse alzata, e cercai di riaddormentarmi. Ma non ci riuscii, e andai a cercarla. La cercai ovunque, prima come in un gioco, poi come in un tormento, poi, infine, nell’angoscia. Ma non era più li. Vagai come un pazzo, nel parco intorno alla casa. E non sapevo che più continuavo a cercarla, in quel parco, più lei aveva il tempo di allontanarsi da me, di mettere tra me e lei una distanza incolmabile. E avevo paura, di non trovarla più, e di tornare a casa, allo stesso tempo. Perché a casa c’era la lettera. Una lettera da non aprire, perché, solo allora me ne resi conto, doveva essere aperta solo quando lei fosse andata via.

Una lettera d’addio? Comunque, la spiegazione di tutto. E se all’inizio avevo avuto tanta voglia di leggerla, quella lettera, in quel momento, mi rifiutavo di aprirla, di conoscere la verità. Non avevo più voglia, di sapere la verità. Avevo paura di sapere cosa mi aveva nascosto. Nel tempo che impiegai a tornare a casa, fui assalito da mille dubbi su di lei. Rianalizzavo ogni sua parola, ogni suo gesto, persino ogni suo sospiro di quelle giornate per capire come, quando, perché, mi avesse ingannato. Sospettai di ogni sua carezza, di ogni suo bacio.

Forse aveva paura di affrontare il padre. Una possibile speranza. Ma io l’avrei aiutata. Difesa da chiunque. Una motivazione non credibile.

Forse, c’era davvero un altro uomo. E quasi lo speravo, che mi avesse ingannato con un altro uomo. Si, per un’istante lo sperai. Perché, per quanto assurdo, avrei potuto riconquistarla. Che follia.

Ma io sono un uomo folle. Che ha scelto di comportarsi come un folle, per non soffrire più.

Folli si diventa, spesso, per troppo dolore.

Rientrai nella sua stanza e presi la lettera. Le mani mi tremavano. Sentii la mia mente quasi annebbiarsi. Eppure, quello fu l’ultimo mio atto da uomo sano di mente, prima di impazzire, prima di perdere, definitivamente, anche l’ultimo barlume della mia ragione.

 

Andrè, amore mio,

Ho pensato tante di quelle volte a come scrivere questa lettera, che ora, con questo foglio davanti, e un milione di cose da dirti, non so più, davvero, come cominciare. Il silenzio di questa stanza è interrotto, a tratti, solo dal tuo respiro, mentre dormi. Io non avrei voluto svegliarti, non avrei voluto uccidere i tuoi sogni. Non vorrei più svegliarmi nemmeno io, per continuare a sognare di te, di noi, di una vita che non c’è. E che non ci sarà. Non ho più tempo, nemmeno per sognare. Per immaginarla, una vita insieme a te. Potrei ingannarti ancora, farti credere veramente che nella mia vita ci sia un altro uomo, che ti lascio per questo motivo. Ma non voglio ingannarti. Perché non voglio più nemmeno essere ingannata io. Anchio sono stata ingannata, come te, e anchio ho voluto quasi crederci, a questo inganno. Perché talvolta la verità è più terribile di qualsiasi bugia. Perché talvolta la pietà degli altri è più terribile persino del dolore. E io non voglio la pietà di nessuno. Voglio rispetto, voglio solo questo.

Andrè, io sono malata, la tubercolosi mi sta uccidendo, e non mi rimangono che pochi mesi. Ma io sento, sono sicura, che sarà molto meno. Anche se tutti mi dicono che non è vero. Che io ho speranze.

Ma non ci credo più. Ho smesso di credere alle bugie del mio medico, che la notte di natale mi disse che da questo male sarei potuta persino guarire. Ho smesso di credere all’amore di mio padre che, da allora, da quella notte, continua, chiuso nel suo silenzio, in un dolore che non esprime mai a parole, a chiedermi di lottare contro questa cosa che mi divora dentro. Di lottare persino contro me stessa, contro il mio corpo che mi tradisce ogni giorno di più.

Ma io non posso più.

Ho smesso di credere alle loro parole, perché il mio male è più sincero di qualsiasi parola di affetto, di qualsiasi parola di pietà. E’ l’unica cosa vera. E’ qui, dentro il mio petto, e mi soffoca lentamente, giorno dopo giorno. E’ qui, e comprime il mio cuore, che batte sempre più forte, sempre più veloce nel tentativo, assurdo, di resistere, di continuare a respirare, che quasi non ce la fa più. E’ qui, nella mia mente, e mi impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa che non sia lui. Talvolta, mi impedisce anche solo di poter pensare.

Ho paura, Andrè, una terribile paura di morire. Io non voglio morire. Non voglio.

Eppure, morirò. E non sarò un eroina che muore su un campo di battaglia, che sacrifica la propria vita di nome di qualcosa, o di qualcuno. La morte che mi è stata riservata è lunga e senza onore. E’ progressiva, umiliante, interminabile. E non voglio morire davanti alle persone che mi amano. Non voglio che nessuno, soprattutto tu, più di ogni altro tu, amore mio, mi veda morire così. Lentamente, inesorabilmente. Perdendo ogni giorno di più ogni mia forza, perdendo ogni giorno di più ogni mia dignità. E fingendo di credere alle bugie che mi racconteresti. Fingendo di sperare alle tue stesse speranze. Urlandoti fino all’ultimo la mia paura, la mia paura di andarmene via. Di andarmene via per sempre, senza che tu possa fare niente per me. Niente che non sia una tua bugia, o un tuo abbraccio.

Io non voglio morire così. Non voglio. Non ho scelto di nascere, non ho scelto, realmente, quello che volevo essere nella vita. Ma voglio scegliere io quando e come morire. E’ l’unica scelta che posso ancora fare. E voglio farla. E’ il mio ultimo desiderio. E se ti rimanessi accanto, questo non sarebbe possibile. Continueresti a lottare per me anche quando io non fossi più in grado di farlo, quando non vorrei più farlo. Perciò ti dico addio, Andrè, vado lontano, il più lontano possibile. E  da sola. E sola voglio restare, fino alla fine. Fino a quando avrò abbastanza coraggio per mettere fine a tutto questo. Ma non sono davvero sola, te lo giuro, Andrè. Mi terranno compagnia, mi daranno conforto, i nostri ricordi, i nostri visi di bambini, di ragazzi, le nostre storie, la nostra casa. E più di ogni altra cosa, mi darà conforto il ricordo del tuo amore per me. Di tutta una vita in cui mi hai amato, in cui ti ho, seppure manchevolmente, spesso, amato anche io. Non cercarmi, non mi troveresti. E non ho detto a nessuno, nemmeno a mio padre, dove andrò.

Ma c’è qualcosa di me che vorrei che tu, che tu soltanto avessi di me. Lo troverai nel salotto. L’ho fatto fare per te, esclusivamente per te. Questo voglio che sia il tuo ultimo ricordo di me. Questo e nessun altro. Andrè, si muore due volte nella vita: quando andiamo via da questo mondo, e quando nessuno ricorda più che siamo esistiti. Mi è di un sollievo infinito, sapere che sarò sempre nei ricordi di chi mi voleva bene. Sapere che mi conserverai in un angolo del tuo cuore. Nei tuoi ricordi. Non potevi farmi dono più grande di questo. E perdona te stesso, te ne prego, quando penserai di non aver fatto abbastanza per me. Io ti amo, Andrè, ti amo con tutto il mio cuore. Addio, Andrè.

 

Oscar  

    

 

Non ricordo nemmeno come mi ritrovai per terra, sdraiato, il viso completamente bagnato dalle lacrime, sangue nelle mie mani, come se avessi rotto qualcosa che mi aveva ferito. Ricordo solamente che una voce, dentro di me, continuava a ripetermi ossessivamente: Non è vero, non può essere vero. Ricominciai a cercarla, come se non avessi letto affatto le sue parole. Entrai nel salotto, e vidi il pacco. Lo scartai con violenza. Avrei voluto romperlo, ma la mia rabbia svanì quando da un lembo di carta strappato intravidi il suo viso. Strappai il resto della carta con cura, quasi nello stesso modo in cui avevo accarezzato il suo viso, il suo corpo poche ore prima. Allora vidi, e capiii tutto. Un ritratto, un ritratto di lei, della mia Oscar, bellissima, nello stesso vestito di seta azzurra che le avevo visto addosso, quella sera, mentre nel dormiveglia lei si era avvicinata a me. Un vestito per un ritratto, un ritratto per me. Solo per me. Quel vestito, dunque, era per me. Quella sera, come  le altre successivamente, era andata a farsi fare un ritratto. Anche l’ultimo mistero era svelato. Tutto aveva una spiegazione, tanto logica quanto terribile. Oscar mi nascondeva la sua malattia. Questo, Fersen voleva che Oscar mi dicesse, questo Alain tentava di dirmi. E il medico di Oscar abitava proprio vicino alla casa di Fersen. Dalla casa del medico tornava, quella sera in cui l’assalii.

Ma io ero stato così idiota da non capirlo. E avevo lasciato che fuggisse.

Presi un cavallo, e corsi a Palazzo Jarjayes. Nonostante le parole di Oscar, il padre non poteva non sapere dove lei fosse. Non poteva averglielo permesso.

Spalancai letteralmente la porta dello studio del generale, urlandogli in faccia che volevo che mi dicesse dove lei fosse. Ma lui, improvvisamente invecchiato di un tempo infinito, mi rispose, senza urlare a sua volta, che non lo sapeva. Urlai, sentii il rumore dei miei pugni sul tavolo. Il dolore, quello fisico, non lo sentivo più. Ma realmente lui non sapeva dove Oscar fosse. Per la rabbia, dissi cose spropositate. Molte le ho dimenticate, ora. Lui non rispose, a nessuna delle mie accuse, a nessuna delle mie offese, a nessuna delle mie ingiurie contro di lui, neanche alle minacce di ucciderlo. Ricordo solo il suo viso, distrutto dal dolore, tentare ugualmente di mantenere un contegno inutile. Un contegno che io, folle di dolore non ero in grado di assumere. Presi dei soldi, un cavallo, e partii alla ricerca di lei.

Chiesi di lei a tutte le persone che l’avevano conosciuta. Ma nessuno sapeva niente.

Anche Fersen, che, scoprii in seguito, quella notte l’aveva aiutata a sparire, aveva perso le sue tracce. Avrei voluto ucciderlo. Non lo feci, solo perché ancora speravo di trovarla.

Avevo la speranza di ritrovarla ad Arras, o in Normandia, in tutti i posti in cui eravamo stati insieme. Come poteva morire senza neanche il conforto di un posto che conoscesse, che le fosse familiare.

Ma non la trovai, da nessuna parte. Ma non mi rassegnai.

Ero ormai un disertore, e, allo stesso tempo, un servo che aveva insultato e minacciato il suo padrone. Un uomo da incarcerare, da condannare alla prigione o alla morte. Ma non me ne importava nulla. Continuai a viaggiare, per giorni, nell’illusione  che l’avrei trovata. Avevo con me, sempre, il suo ritratto. Ma nessuno la riconosceva. Era sparita, nel nulla. Passarono più di due mesi, prima che di ritorno ad Arras, tappa prima di dirigermi verso il nord, per arrivare verso il confine con i paesi bassi, uno dei servitori della famiglia Jarjayes mi fermasse. Per darmi una lettera. Indirizzata a me. Ma con una calligrafia che non era la sua. Quando la aprii, seppi con certezza che la mia ricerca era terminata. Ora potevo lasciarmi andare. Al mio dolore.

Avevo perso Oscar, per sempre.

Una lettera di un notaio, in Marsiglia. Oscar era morta laggiù. Si richiedeva la mia presenza alla lettura del testamento.

 

Non so perché vivo ancora.

 

Credevo di conoscerla. Si, credevo di conoscerla bene. Credevo che il fatto di avere vissuto con lei fin da quando eravamo bambini fosse sufficiente a conoscerla. Fosse sufficiente a sapere tutto di lei.

Ho passato una vita, una vita intera ad osservarla, ad osservare tutto. Pensavo di poter persino guardare il mondo come lo guardano i suoi occhi.  Pensavo che fosse sufficiente guardarla negli occhi per capire cosa le passasse per la testa. I suoi pensieri, i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue gioie e i suoi dolori, mi sembrava di poter leggere tutto attraverso i suoi occhi, i suoi gesti, il tono della sua voce. E che solo a me, a me soltanto potesse essere conosciuto. L’unico vero testimone della sua vita. L’unico testimone di lei.

Mi sbagliavo. Ora so fino a che punto mi sbagliavo.  

 

 

Fine

mail to: f.camelio@libero.it

 

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