Il sospetto

parte seconda

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Mi svegliai tardi, molto tardi, la mattina del 25 dicembre. Avevo dormito poco, molto poco. Poche ore di sonno frammentario, flagellato dagli incubi, dalle immagini che la mia mente creava continuamente.

La tua immagine, Oscar, la tua immagine, e quella di Fersen. Il nome che avevo letto tra le righe di quella pagina del tuo diario. Non scritto, sottinteso. Scritto nelle tue lacrime, nella grafia tremante.

Il nome, il volto, la voce, la risata, il corpo, del mio sospetto.

Tutto in un nome solo: Fersen, Fersen, FERSEN. E pensare che non ero mai riuscito ad odiarlo, in tanti anni che era stato in questa casa, in tanti anni in cui ti era stato accanto, di cene, cavalcate, duelli, libri, risate.

Non mi era riuscito di odiarlo neanche quando vedevo il tuo sguardo, pieno di ammirazione, improvvisamente dolce, comprensivo, amorevole, quasi supplichevole, a volte inconsapevolmente seducente, posarsi su di lui. Non mi era riuscito di odiarlo nemmeno allora, chissà perché.

Eppure quegli stessi sguardi io li avrei voluti tutti per me, sì, li avrei voluti per me.

Forse mi ero illuso per anni che, quando li avresti rivolti a me, sarebbero stati completamente diversi. Sarebbero stati pieni di passione, pieni di gioia, di impazienza, di un’urgenza di amarmi senza limiti, e di tenerezza, tutta quella che Fersen non avrebbe mai visto e che era riservata a me. Sì, un giorno lo sarebbe stato. Sarebbe stato così, l’amore tra me e te, Oscar. Qualcosa che non avresti potuto nemmeno immaginare. Qualcosa di così forte e sconvolgente che io stesso talvolta avevo avuto difficoltà ad immaginare, quasi paura di farlo, per non guastare per me stesso la sorpresa, la meraviglia, la magia, l’incanto, la poesia del momento in cui mi avresti detto: “Io ti amo, André.” Un giorno la mia attesa sarebbe stata ricompensata, la mia sofferenza sarebbe stata ripagata, cancellata. In un solo gesto. Dalle tue labbra.

Ma la mattina del 25 dicembre 1788 mi convinsi che tutto questo non sarebbe stato possibile.

Mai più. Lui era nella tua vita. Lo odiai.

Una notte di incubi, di risvegli senza fiato, di istanti di paura prima di rendermi conto, faticosamente, guardando i mobili avvolti dalla luce dell’alba, che avevo solo sognato. E così era stato più volte.

I miei sogni di quella breve notte. Anche solo immaginarti, sognarti mentre facevi l’amore con lui mi avrebbe ucciso all’istante. Sarebbe stato meglio così, credo, una morte istantanea. Il mio cuore si sarebbe fermato. E basta. Niente più dolore, niente di niente. Ma no, io non ero degno di una morte così veloce, quasi indolore, persino. Mi era stata riservata una morte atroce, invece. E a riservarmela ero stato io stesso. Artefice del mio dolore e della mia follia. Così non ti sognai mentre facevi l’amore con lui. Ti sognai, ti sognai e basta, sapendo che al tuo fianco c’era lui, senza vederlo, ma sentendone, come un macigno, la sua inconfondibile presenza.

La breve notte aveva lasciato il posto ad una notte molto più lunga.

La notte della mia anima. E il giorno non sarebbe mai più tornato.

La mia mente era diventata in poche ore un qualcosa che mi apparve, a tratti, persino estraneo, tanto si accaniva su di me, su quella parte di me, dei miei pensieri, dei miei sentimenti che ritenevo ancora pulita, ancora incontaminata dalle brutture, dalle sconcezze in cui lentamente e inesorabilmente, quanto volontariamente, ero sceso negli ultimi mesi della mia vita. Mesi di alcool e di tormento, ma ancora tenacemente, ostinatamente al tuo fianco. L’alcool aveva reso il mio corpo debole quasi quanto i miei occhi che vedevano sempre di meno. Ma i miei sensi si erano come innalzati. E mi scoprivo sempre di più ad ascoltarti, piuttosto che a guardarti, a sentire il tuo odore, piuttosto che a cercare i tuoi occhi. Dio, come sono caduto in basso, pensavo, ridotto a capire dal ritmo del tuo respiro se tu fossi preoccupata o serena. E invece stavo cadendo molto più in basso. E nemmeno Dio sarebbe stato lì con me. Dio non c’era più, nel buio in cui ero entrato, volontariamente. Dio non poteva esserci, laggiù.

Una prigione, un carcere. La mia vita era diventata questo. E la mia mente era diventata come un carceriere, un boia, assoldato per torturarmi continuamente, per torturarmi fino a far emergere il lato peggiore di me, tutta la mia rabbia, il mio dolore, la mia violenza persino, come nel tentativo di farmi confessare, di tirare fuori da me l’odio, il rancore, la gelosia.

Verso di te, amore mio, mia amata Oscar. Da quella notte la mia… bellissima… tenera… tra le sue braccia… odiata Oscar.

Il mio carceriere aveva ormai gettato via la chiave. Ed ero chiuso nella mia cella. Nessuna via di fuga. Aspettavo la morte, ormai. La morte che mi avresti dato tu stessa, Oscar, quando il mio sospetto sarebbe diventato realtà, quando la flebile luce che attraversa ancora i miei occhi mi avrebbe permesso di vederti davvero, accanto a lui. Abbracciata a lui. Ero sicuro che sarebbe stata l’ultima cosa che i miei occhi avrebbero visto. Poi sarei stato io stesso, a non voler più vedere altro nella mia vita.

 

Fuori dalla mia cella il sole, pallido d’inverno, di rami spogli e di brina disciolta, era alto nel cielo, fuori dalla mia cella passeggiavi da sola. Da sola, il giorno del tuo compleanno. Che tristezza.

E io a guardarti dalla finestra, lontano, senza voglia di raggiungerti. Che vergogna.

Dovetti scendere, ad un certo punto. Inevitabilmente avrei dovuto parlarti. Inevitabilmente avrei ricevuto un’altra frustata. Sapevo che me l’avresti data. Ora le sembianze del mio carceriere sarebbero state le tue. Sapevo che le tue parole, che i tuoi silenzi, soprattutto, mi avrebbero colpito, percosso. Ma non mi sottrassi alla tortura, all’atteso tormento. Perché una parte di me ancora sperava che nelle tue parole, nel tuo sguardo, all’improvviso, avrei trovato qualcosa, una chiave, per uscire dalla mia prigione. Non fu così.

 

Ti trovai, nelle scuderie, accarezzavi distrattamente, quasi tristemente, pensai, il muso di un cavallo, pronta a sellarlo.

Sentii la tua tristezza, prima ancora di vederti.

“Buongiorno Oscar, esci a cavalcare?”

Sul suo volto lessi sorpresa, come se non ti aspettassi di trovarmi lì. Assurdo, pensai, è una vita che mi occupo delle scuderie, perché non avrei dovuto essere lì?. Fu allora, dal tuo improvviso silenzio, dal tuo improvviso imbarazzo, che capii che quello che ti aveva sorpresa non era stato trovarmi lì nelle scuderie, ma l’essermi trovato all’improvviso in mezzo ai tuoi pensieri. Essere entrato all’improvviso in uno spazio solo tuo. Dove io non ero compreso. Non ero desiderato.

“Sì, André, ora vado, scusami”, mi dicesti con voce dura.

Non volevi cavalcare con me, era evidente. Avrei potuto risparmiarmi anche il colpo successivo. Non lo feci. Mi avvicinai a te, invece. Pronto per la frustata successiva.

“André, cosa vuoi? Scusa, io esco da sola.”

Ti allontanasti da me, come se volessi evitare anche solo una parvenza di contatto tra noi. Mi sembrò che avessi quasi paura di quel possibile contatto. Il contatto che a lui dovevi invece aver concesso… perché, Oscar? Perché? Esiste una sola ragione al mondo perché lui lo meriti? Già, lui non ti ha gettato su un letto gridandoti dolorosamente il suo amore come ho fatto io. Lui ti ha fatto sdraiare su un letto e il suo desiderio te l’ha sussurrato, probabilmente, addolcendolo di parole studiate e ricercate. Quelle che non riesco a dirti io. Quelle che non sono mai riuscito a dirti.

Montasti a cavallo.

“Oscar, io volevo solo… farti gli auguri.”

Ti voltasti a guardarmi, nuovamente stupita. Pensai “possibile che non tu non ricordi nemmeno il tuo compleanno?”

“Il mio compleanno, già, trentatre anni…” dicesti, il tono della voce quasi ironico, mi parve.

“Non intendi festeggiarlo, nemmeno una bevuta in compagnia come ai vecchi tempi?”

“Non è il caso, non ho niente da festeggiare e, poi, bere non fa bene e, soprattutto, tu non dovresti farlo” rispondesti, con un tono distaccato, lontano, come la risposta fosse solo un pro-forma, un copione da seguire velocemente, per sbarazzarsi di me.

Lo aveva fatto, Oscar, con poche parole si era sbarazzata di me. In effetti, io non ero degno neanche di una bevuta con lei. Non ero niente per lei. E poi, perché bere, quando poteva correre da lui, poteva fare l’amore con lui. Forse quella cavalcata serviva a raggiungerlo. Forse i pensieri che avevo interrotto erano le sue strategie per raggiungerlo, il calcolo delle bugie che avrebbe inventato per giustificare la sua assenza, il suo ritardo. Impazzii al pensiero, chiusi gli occhi, strinsi i pugni, e sperai di non vederla più quando li avrei riaperti. Così fu. Oscar era uscita dalle scuderie e, spingendo il cavallo al galoppo, era partita. Da lui. Ero sicuro che stesse andando da lui.

 

Rientrò tardi, raccontò a suo padre una scusa assurda. Come avevo previsto. E con una scusa altrettanto assurda presi la bottiglia di vino dalla credenza e la portai nella mia stanza. Non chiusi nemmeno la porta. Forse, speravo, mi avrebbe visto. Sarebbe entrata a rimproverarmi, ad impedirmi di bere. Non chiedevo altro dalla vita, in quel momento. Ma non lo fece, non mi vide. E vuotai la bottiglia velocemente, senza quasi provare gusto per quel liquido caldo che mi era entrato velocemente in circolo. Caddi sul letto, stremato, senza forze. E mi addormentai. Nell’istante in cui aprii gli occhi mi sembrò di vedere un’ombra, un’ombra vestita d’azzurro. La sensazione della seta sfiorò la mia mano, il mio braccio. Un profumo intenso, di rose e begonie. Un profumo che copriva leggermente un profumo più noto. Sentii una mano e poi… labbra appoggiarsi subito dopo sulla mia fronte, vidi un orecchino dorato, a forma di piccolo fiore. Non riuscii a vedere altro. Non riuscii a sentire altro. Piombai di nuovo nell’incoscienza.

 

Il mattino dopo, mia nonna mi comunicò che Oscar era rientrata già in caserma. A me non restava altro da fare che raggiungerla. Preparai le mie cose. Vidi mia nonna salire le scale, tremendamente affaticata da un peso. La raggiunsi. Presi tra le mie braccia le camicie che teneva a fatica. Mi disse che erano di Oscar e mi chiese di metterle a posto nella sua stanza. Entrai da solo. Appoggiai le camicie sul letto. Aprii l’armadio e cominciai a sistemarle. Fu allora che lo vidi. No, non subito, in verità. Dapprima quello che vidi mi fu familiare. Dolcemente familiare. Un lungo abito bianco, un abito che avevo visto una sola volta nella mia vita. L’unica volta in cui avevo visto il suo corpo attraverso il gioco delle luci e delle ombre, dei panneggi creati da quella seta. Il tuo bellissimo corpo, il tuo bellissimo volto, una sera di tanto tempo fa. Sorrisi, accarezzando quella seta. Ricordandoti, desiderandoti. Poi scostai quel vestito, e ne apparve… un altro. Inaspettato. Seta azzurra, morbida seta azzurra, e un sottile, lontano profumo, di rose e begonie. Piansi.

Pochi minuti dopo, in un piccolo portagioie, che nemmeno pensavo tu potessi possedere, trovai due piccoli orecchini dorati, a forma di fiore. In un cassetto trovai un paio di forbici. Stavano per muoversi da sole, per spezzare definitivamente, rabbiosamente, violentemente quell’incanto di seta e merletti che dovevano aver ricoperto il tuo corpo la notte precedente. Di nuovo. Non per me. Per lui. Per Fersen. Le forbici si avvicinarono alla gonna di seta, tremanti, ansiose di muoversi. Ma quell’abito non te lo avevo mai visto addosso. Non avevo avuto nemmeno questa gioia, stavolta. Così le forbici si allontanarono, caddero per terra, lasciandomi lì, annichilito.

 

 

Continua...

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