Il sospetto
parte prima
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Disclaimer: Non temano i lettori di “Il viaggio degli inganni”, sto ancora lavorando agli ultimi capitoli del racconto. Nel frattempo però ho avuto l’ispirazione per un’altra storia, perciò, perché non scrivere? Come sempre, il copyright per i personaggi appartiene a Riyoko Ikeda e alla TMS.
Buona lettura.
Credevo di conoscerla. Sì, credevo di conoscerla bene. Credevo che il fatto di avere vissuto con lei fin da quando eravamo bambini fosse sufficiente a conoscerla. Fosse sufficiente a sapere tutto di lei.
Ho passato una vita, una vita intera ad osservarla, ad osservare tutto. Pensavo di poter persino guardare il mondo come lo guardano i suoi occhi. Pensavo che fosse sufficiente guardarla negli occhi per capire cosa le passasse per la testa. I suoi pensieri, i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue gioie e i suoi dolori, mi sembrava di poter leggere tutto attraverso i suoi occhi, i suoi gesti, il tono della sua voce. E che solo a me, a me soltanto potesse essere conosciuto. L’unico vero testimone della sua vita. L’unico testimone di lei.
Mi sbagliavo. Ora so fino a che punto mi sbagliavo.
Parte Prima
Ventiquattro dicembre… la vigilia di Natale… la sera prima del suo compleanno… la solita messa di mezzanotte con tutta la famiglia… con tutta la sua famiglia… le solite tradizioni…
Curioso, mi rendo conto soltanto ora come certe tradizioni sono persino rassicuranti, nonostante gli anni che passano le rendano il più delle volte noiose.
Oscar… guardarla, osservarla da un banco lontano, dentro questa chiesa enorme, come ogni anno, la mezzanotte di Natale, lei, in mezzo alle sue sorelle, a tutti i suoi parenti, curiosamente diversa da loro e allo stesso tempo così maledettamente simile a loro. Lo faccio da anni. Automaticamente, senza neanche pensarci. Mi sono sempre sentito unito a lei in queste circostanze, anche se non sono realmente i banchi a separarci, ma le leggi, le regole. Una morale quasi immorale. Quella che mi impedisce di amarti.
La noiosissima e lunghissima messa di Natale. Su questo io e lei siamo sempre stati d’accordo. L’ho osservata per anni, sedersi con gli altri abbozzando sorrisi di circostanza, e poi, a mano a mano che la messa andava avanti, ho osservato ogni suo gesto sottile di nervosismo, di noia, di voglia di andar via. Dal modo in cui accavalla le gambe, al suo sguardo, persino al modo in cui congiunge le mani in preghiera, certe volte.
Ha sempre aspettato, come me, che la messa finisse, che i suoi parenti si allontanassero in carrozza, per tornare a casa con me, per restare con me. Il nostro momento, il nostro momento insieme. Scambiarci gli auguri di Natale. Tra vecchi amici. Come sempre. Quando ero ragazzo era anche il momento che aspettavo per darle il suo regalo di compleanno. Per guardare i suoi occhi felici quando le consegnavo il pacchetto. Per sentire il suo “Grazie, André, sei molto caro”, per vedere il suo sorriso. Così raro, in effetti.
Poi cavalcare lentamente, nella notte, sotto il cielo stellato, sotto la pioggia, sotto la neve, parlando con lei. Di mille cose, di nessuna in particolare.
Quante volte, guardandola così, vicina, serena, con quel sottile desiderio negli occhi di sentirsi al centro dell’attenzione la notte del suo compleanno, di sentirsi amata per un giorno, avrei voluto dirle: “Oscar, io ti amo”. Dirglielo dolcemente, teneramente. Sarei stato magari pieno di imbarazzo, rosso in viso, le parole mi sarebbero uscite a malapena. Avrei visto stupore nei suoi occhi, forse un sottile piacere. Sarebbe arrossita anche lei e forse…
Ma non è stato così che gliel’ho detto. Non sono stato né timido né impacciato, non ho faticato a tirar fuori le parole, non ho atteso affatto che i suoi occhi incontrassero i miei… e lei non era stupita, sorpresa… nessun rossore sul suo viso…
Lacrime invece… tante… e i suoi occhi spaventati, umiliati, tristemente rassegnati.
Io… non l’ho guardata neanche in faccia quando gliel’ho detto, e lei… era lì, come buttata, gettata lì da me, né timido, né impacciato, semmai fin troppo sicuro di me, della mia forza, della mia violenza, di poterla sopraffare, di poterla dominare. Lì, sul suo letto… la sentivo solo piangere… doveva aver freddo… non solo nel corpo… ma nell’anima… tanto freddo…
L’ho sentita trattenere per un istante il respiro quando ho detto “io ti amo, penso di averti sempre amata”. Poi non ho sentito più nulla. Non esistevo più. Completamente svuotato. Di lei, di me. Questa è stata la mia “grande” dichiarazione d’amore per lei. Questo è stato il mio “grande” amore per lei. Mi piaceva pensare che fosse così. Grande, immenso, pronto a qualsiasi prova. Mi piaceva considerare me stesso capace di qualsiasi cosa per lei. E invece, niente più di un uomo qualsiasi, anzi, peggio di un uomo qualsiasi. Molto peggio di un uomo. Un uomo pronto a violentare una donna in nome del “suo amore”.Un animale, dunque.
Vergogna, non provo altro che vergogna. E tristezza. Per me, per lei.
Ho continuato ad essere al suo fianco, anche se lei probabilmente non vorrebbe, tra i soldati della Guardia. Vergognosamente al suo fianco. Per difenderla da chi, se io più di chiunque altro l’ho ferita, offesa, violata? E allo stesso tempo orgogliosamente, tenacemente al suo fianco, perché la amo. La amo da morire.
E credevo di sapere tutto di lei, lo credevo davvero. Fino a quella notte di Natale…
Lei era lì quella notte. In chiesa. In quel suo banco lontano dal mio. Congiungeva le mani in preghiera. Non stava certo pregando per me, quella notte. Lo immaginavo, quasi lo sentivo con certezza. Non avrebbe potuto farlo. Non avrebbe dovuto farlo. La guardavo, e pensavo solo che avrei voluto essere lì, toccarle quelle mani congiunte. Poterla guardare negli occhi, poter ricevere un suo sorriso…
Ma i banchi che ci separavano quella notte non erano più cinque, ma dieci, cento, mille.
Oscar… ti amo…
In un istante, improvviso, la vidi alzarsi, stavano ancora distribuendo la comunione, dire qualcosa al padre, allontanarsi, passando velocemente tra i banchi. Aveva il volto molto tirato, quando è passata quasi correndo davanti al mio, non mi ha guardato nemmeno. Non riuscii in quei pochi momenti a dirle niente. La vidi fuggire via. Non… non era mai successo… Continuavo a chiedermi: perché… perché va via adesso?… per me? Non vuole restare con me? No… la fuga a che servirebbe? Le basterebbe tornare in carrozza con i suoi parenti…
La seguii. La vidi montare a cavallo. Partire al galoppo, mentre la neve scendeva lenta.
Pensavo: Quella… non è la direzione di casa… Oscar… dove vai? Dove vai?…
Perché quel volto tirato? Perché tuo padre ti lascia andar via? Non era mai successo…
Pensieri assurdi di un uomo stupido, meschino, celati da apparente preoccupazione per la tua vita. E invece volevo solo sapere dove tu stavi andando. Controllarti. Una volta ti proteggevo, ora finisco per controllarti. Non eri più tenuta a dirmi cosa tu facessi. Non ero più tenuto ad occuparmi di te. Me l’hai detto tu mesi fa, quella terribile notte, che non dovevo più occuparmi di te.
Più o meno come chiedermi di smettere di respirare. E mi è mancato il respiro, quella notte.. Avevo bisogno di te, quella notte, tanto bisogno di te…
L’ho aspettata per ore a casa, dandomi del cretino, pensando, scioccamente, che lei volesse solo fare un giro, o volesse solo evitarmi, trovando mille scuse, giustificandola, e giustificando me stesso perché l’aspettavo alzato, a stento riscaldato dal fuoco e dal cognac. Mi sono addormentato, infine. Ricordo a malapena di aver visto l’orologio puntare la lancetta più piccola sulle tre. Poi più nulla. L’alba. Una luce tenue sulle scale. Dovevo vedere se era rientrata. Salii le scale. La sua stanza. La porta… non era chiusa a chiave… strano… la aprii… passai davanti al suo pianoforte… cercando di non fare rumore… ed era lì… nel suo letto… addormentata… mi avvicinai a lei. Aveva gli occhi bagnati dalle lacrime.
La guardai, chiedendomi perché stesse piangendo, accusandomi.
Le sfiorai con le dita, le sue lacrime. La coprii meglio. Non volevo che prendesse freddo. Nemmeno quella notte maledetta avrei voluto che prendesse freddo… avrei voluto… avrei voluto dare qualsiasi cosa per poterla riscaldare, quella notte. Per poterla abbracciare, rassicurare, per mandare indietro le lancette del tempo, e non farle più male.
Poi, mi accorsi del suo diario aperto, lasciato distrattamente aperto, sul comodino. La tentazione, insieme, di leggerlo e non leggerlo… immaginavo parole di disprezzo per me… i miei occhi tradivano la voglia e la paura di leggere quel disprezzo. La voglia ebbe il sopravvento.
La data, quella di quella notte. Due sole frasi, scritte di una grafia quasi incerta, convulsa, e tremante allo stesso tempo. Due frasi evidentemente sofferte. La causa di quelle lacrime?.
Dovevo
vederlo, stanotte. Dovevo assolutamente farlo.
Il mondo intero allora mi crollò addosso.
Continua...
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