Un mantello nero

parte IV

 

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André stringeva ancora tra le mani la lettera, rileggendo l’indirizzo. Aveva faticato molto a trovare quella casa. Aveva chiesto informazioni a molte persone nel tentativo di trovarla. Si era perduto, un paio di volte.  Aveva fame, e nessuna voglia di fermarsi a mangiare.  Lo stomaco era vuoto, ma non lo era altrettanto la sua testa. Pensieri confusi. E una frase, nella lettera che dopo tanto girovagare nella notte, lo aveva spinto ad andare lì: Vuoi sapere qualcosa di più dei tuoi genitori?

Se voleva saperlo… certo, certo che voleva. Ricordava poco o nulla di loro. Il colore dei capelli di sua mamma, il calore dei suoi abbracci, forse… la sua voce, ma non ne era sicuro. Non era mai stato sicuro di questo. Forse quei capelli, quella voce erano di sua nonna, e lui non ricordava davvero niente di lei. Aveva passato anni a cercare di ricordare sua madre e suo padre, quando era piccolo. E l‘aveva vista, vestita di un vestito azzurro, camminare verso di lui. E i suoi occhi, verdi come i suoi, e il sorriso, timido e dolcissimo. E la vedeva prenderlo in braccio e accarezzargli i capelli, i riccioli che con il tempo aveva perduto. Ma era veramente così, sua madre? E suo padre? Di lui non ricordava davvero nulla. La nonna gli aveva detto tutto. Che erano una bella coppia, povera ma unita e felice, che sua madre era bellissima. Che erano morti insieme, per difendersi l’un l’altra, inghiottiti in un incendio, nella loro piccola bottega di falegnameria. Che non ne era rimasto niente, né della bottega né di loro. Che lui, André, era salvo per miracolo, perché quel giorno l’avevano affidato alla nonna. A quella stessa nonna che, madre di suo padre, lo aveva portato con sé, a palazzo Jarjayes dove già lavorava, perché non sapeva dove altro andare. Ecco, lui era figlio di un amore finito troppo presto. Tutto qui. Nient’altro, e i suoi ricordi, per quanto non fosse così piccolo da non poter ricordare proprio nulla, finivano lì, a quel vestito azzurro di sua madre, e quei capelli scuri, lunghi e morbidi che lui aveva accarezzato da bambino piccolissimo.

Vuoi sapere qualcosa di più dei tuoi genitori?

Sì, certo, vorrei sapere tutto di loro, si ripeteva André, bussando al portone di quel palazzo.

L’uomo, anziano, che venne ad aprire lo guardò prima di sottecchi, poi il suo sgomento sul volto divenne palese, come se avesse visto in lui qualcosa di ben conosciuto.

“Mi chiamo André Grandier, io, sono qui per questa…” disse, mostrando la lettera al servitore.

“Aspettate qui, aspettate qui vi prego, vi riceverà immediatamente” disse, celando a stento un’emozione forte, violenta, che ad André sembrò persino gioia.        

André si guardò intorno. Una bella casa, soleggiata, luminosa, non come certe stanze scure, austere di palazzo Jarjayes. Un mobilio recente, più sfarzoso di quello della casa in cui era sempre vissuto, paragonabile a certi mobili di Versailles. La casa di una persona ricca, indubbiamente. Ma che ne sapeva quell’uomo dei suoi genitori? E perché lo aveva trovato nelle scuderie? Perché, soprattutto, conosceva il suo nome? Si sedette su una sedia, stanco, prostrato dalla lunga cavalcata, dalla notte persa, e dalla fame, che si faceva sentire. Chiuse gli occhi, per un istante, e vide lei. Sentì il calore del suo corpo, e il sapore dolce e amaro insieme delle sue labbra, vide i suoi occhi pieni di lacrime. Allora le accarezzò il volto, dicendole piano, perché nessuno potesse sentire - amore mio, perdonami, non lo farò mai più, ma tu accarezzami, ti prego.-

Quando si risvegliò si ritrovò in un letto caldo. Si accorse che sognando aveva pianto, situazione abituale per lui, non per questo meno avvilente del solito. Non si era accorto, invece, di come era giunto lì, in quel letto. La giovane che lo guardava gli sorrise e gli indicò il pranzo che gli aveva appena portato. Lui si alzò a sedere sul letto e la ragazza gli porse il vassoio. Lo stomaco di André fu più veloce del suo inaffidabile e ritardatario proprietario, e ringraziò a modo suo la ragazza di quell’inaspettato, quanto desiderato, pranzo. André, imbarazzato, portò una mano al ventre, scusandosi. La ragazza sorrise di nuovo. “Bene, allora renderete onore come si deve a questo pranzo cucinato per voi da mia madre”, disse.

La ragazza fece un inchino e si allontanò da André, il quale fece appena in tempo a domandarle: “Ma dove sono?”

La ragazza rispose, con un ultimo sorriso, un istante prima di chiudere la porta: “Siete a casa”.

 

Poteva ben dire di avere fatto onore all’abilità della cuoca. E anche il suo stomaco, un po’ meno in collera con lui, a quel punto, contraccambiava la sua opinione. Forse aveva persino ancora fame. Ma non era davvero il caso di approfittare di quella eccezionale accoglienza. Si alzò, deciso a vedere il padrone di casa. Uscì nel corridoio. La luce del giorno, ormai forte e quasi accecante, filtrava dai vetri, illuminando il volto di una donna. Capelli biondi, lunghi, un fiore bianco tra i capelli, intenta a leggere un libro. Un ritratto di donna. Appeso ad una parete, illuminato pienamente dal sole. Poco più in là un altro ritratto di donna, nell’ombra, poco visibile. Si avvicinò, per scoprirne le sembianze. Una voce fermò il suo movimento. Si voltò. Era proprio l’uomo della notte prima. Lo vide meglio, allora, perché la luce del sole illuminava il suo viso, come quello della donna bionda del quadro. E rimase colpito, come da un qualcosa che gli era familiare ed estraneo allo stesso tempo. Rimase colpito dai suoi occhi, che erano verdi. Come i suoi. L’uomo sorrise e gli disse: “Sono contento che tu sia qui, André, vieni nel mio studio, dobbiamo parlare”.

 

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Nanny si sedette accanto ad Oscar. Aveva lo sguardo profondamente triste, ed Oscar finì per appoggiare la testa sul suo petto, esattamente come quando era bambina. Aveva imparato a fare così quando la vedeva triste. In quelle occasioni Nanny le accarezzava il viso e i capelli, e, dopo un po’, le sembrava che fosse meno triste. Era il suo modo, silenzioso, per dirle quanto Nanny fosse importante per lei. Come allora, Nanny accarezzò i capelli della sua Oscar. Poi le accarezzò il viso, sollevandolo, come a voler separarsi con tanta dolcezza da lei. Oscar si rimise a sedere, mentre Nanny abbassava gli occhi e congiungeva le mani, come in una preghiera, o in una confessione. Senza più guardare la sua bambina negli occhi, Nanny cominciò a parlare.

“Oscar, tu eri troppo piccola per ricordare, per ricordare i genitori di André”.

“N… no, ma come potrei ricordarli? Loro non vivevano qui.”

“Ma erano molto spesso qui e i tuoi genitori li conoscevano bene”, disse Nanny.

“Non capisco, questo cosa c’entra? Cosa vuoi dirmi?”

“No, in effetti non è proprio quello di cui volevo parlarti”, disse Nanny come se avesse detto qualcosa che in effetti, non voleva proprio dire, e non andava detto, in realtà. “Vedi Oscar, noi non abbiamo mai raccontato tutta la verità ad André”. Oscar assunse un’espressione triste sul volto. “Cosa avrebbe dovuto sapere, André?”

L’anziana donna si voltò a guardare la ragazza, cercando nei suoi occhi comprensione, un perdono, almeno da lei, prima di fare la sua confessione. La ragazza la guardò, cercando di farle capire che il suo perdono lo avrebbe sempre avuto, qualunque cosa avesse fatto, o nascosto. Quello che Nanny aveva fatto, in tutti quegli anni era per loro due, per lei e per André. Per proteggerli. Non poteva essere che così, e quella confessione non avrebbe cambiato l’opinione che Oscar aveva di Nanny. E André l’avrebbe perdonata, lei ne era sicura.

“I genitori di André non sono morti nelle circostanze di cui vi abbiamo sempre raccontato”. La ragazza guardò Nanny con stupore. “E allora… sono ancora vivi?” chiese, con sgomento.

“Mia nuora, la mamma di André, è morta. La trovai io. Ma mio figlio è vivo”. Oscar si alzò in piedi di scatto, incredula. Poi la guardò. Nanny era scoppiata a piangere e si teneva il volto tra le mani. Oscar si sedette di nuovo accanto a lei e si avvicinò, dandole piccoli baci sulla fronte, per consolarla. Ma anche lei sentiva la stessa agitazione. Non riusciva a capire, voleva spiegazioni, eppure in quel momento poteva solo rassicurare lei. Passò del tempo, prima che l’anziana donna potesse riprendere il racconto. Oscar le prese una mano allora, mentre Nanny cominciò a raccontare come era finito il grande amore tra la madre di André e suo figlio.

“Mio figlio era sempre stato buono e rispettoso delle leggi e degli uomini. Quando aveva sposato Marie, io ne ero stata felicissima. La consideravo un po’ mia figlia, perché non avevo avuto figlie femmine. E quando nacque André, io ero al colmo della mia felicità. Avevo tutto quello che potevo desiderare. Davvero. La loro felicità durò per qualche anno, mentre il piccolo André cresceva. Poi, un po’ per volta, mio figlio cominciò a rientrare sempre più tardi, a casa. Talvolta, spesso, ubriaco. E se la prese con lei una sera. Accusandola di cose assurde. Le stesse di cui a buon ragione avrebbe dovuto essere accusato lui stesso. Mio figlio aveva affari strani, forse erano affari sporchi, non so. Ma non furono quelli a farlo andar via di casa, una notte. Fu una donna. Una donna di cui mio figlio si era perdutamente innamorato. E che lo spinse a lasciare tutto per lei: moglie, figlio, casa. A nulla servì l’ultimo tentativo di mia nuora di trattenerlo. Mio figlio lasciò tutto, la sera in cui seppe che sua moglie era di nuovo incinta. E se ne andò.

Marie rimase ad aspettarlo, da sola, con suo figlio che giocava e un altro figlio, nel ventre. Passarono i giorni, e lui non sembrava voler tornare. Arrivò qui, con André, una notte che pioveva. L’accogliemmo, come era naturale che fosse, e André lo misi nella mia stanza. Tu non eri qui, Oscar. Era estate, e tu e i tuoi genitori eravate in Normandia. Rimasi con mia nuora e mio nipote. E quella fu la  prima volta che André entrò in questa casa. No, Oscar, lui non lo ricorda. Il dolore è stato una buona medicina. Ed ha dimenticato molto in fretta certe cose.

Per giorni dicemmo tutti a Marie che sarebbe passata, che lui si sarebbe stancato presto di quella ragazza, oltretutto più giovane di lui. Tutti le dicemmo di aspettare. Che sarebbe tornato. Poi, un giorno, mentre André giocava nel parco, semplicemente smise di aspettare. E aveva ragione lei. Mio figlio non tornò più”.

 

Oscar, sconvolta, come scioccata, strinse più forte la mano di Nanny.

“André non si accorse di niente. La trovai io. E non era proprio il caso che la vedesse così, né che un giorno potesse leggere quanto gli aveva scritto, prima di morire. Mandai alcuni servitori a portarlo fuori dalla tenuta, e lo feci tornare nella sua casa. Facemmo quello che era necessario, e allertammo i tuoi genitori, che concordarono con quanto avevo deciso. Ad André raccontai che sua madre aveva raggiunto suo padre al lavoro. Lui non sapeva ancora bene che lavoro facesse il padre, ma aveva notato che gli piaceva molto intagliare il legno, e, in verità, quando ancora amava sua moglie e suo figlio, alcuni dei giocattoli con cui giocava li aveva creati lui. E siccome André pensava che il padre avesse una falegnameria a Parigi, inventai che la falegnameria si era incendiata, e che i suoi genitori erano morti insieme. Cercando di difendersi. E che il loro amore era morto con loro. André ci credette, povero piccolo. E tornai a stare con lui, nella mia vecchia casa a Parigi, per un po’. Poi, un giorno, non molto tempo dopo, tuo padre decise che era meglio che André vivesse qui, e stesse con te. Io ero contraria all’inizio. Ma lui mi convinse che era la soluzione migliore, per tutti”

Nanny si alzò in piedi, Oscar la seguì con lo sguardo, poi le chiese: “Perché me lo racconti ora? E lo racconti proprio a me?”

Un istante di silenzio, poi Nanny rispose: “Perché mio figlio è tornato, adesso, e non credo che sarà un bene per nessuno di noi. Nemmeno per André, in realtà.”

 

 

Continua...

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