Un mantello nero
parte I
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Disclaimer:
prima di essere una “fanfic writer” sono una lettrice io stessa. E alcuni
spunti qualche volta possono derivare dal lavoro di altri, come già successo in
passato per altri miei lavori. Per questo racconto ho deciso di utilizzare,
modificandolo significativamente, uno spunto utilizzato per il racconto
“Nobiltà” di Ely, pubblicato sul sito www.larosadiversailles.it,
che ringrazio per avermi concesso di lavorare su un tema
per certi versi simile.
Come
sempre i personaggi non mi appartengono. I copyright appartengono a Riyoko Ikeda
e alla TMS.
Una dedica speciale a Laura, che mi è sempre molto vicina, anche in questo momento un po’ difficile per me.
Nuvole grigie, tonde, così basse da sembrare vicine a sfiorare i cipressi, coprivano a malapena un cielo freddo ma azzurro. Avrebbe voluto farglielo notare, ma lo sguardo di lei, seduta su una vecchia poltrona, era come perso in pensieri molto lontani, molto al di là di quelle stesse nuvole. Era in America, probabilmente, quello sguardo. Forse stava immaginando come fosse, l’America. Se in America ci fosse lo stesso colore, nel cielo, e lo stesso vento, e le stesse nuvole. Certamente stava immaginando lui, Fersen. André sentiva chiaramente che non poteva essere un altro, il suo pensiero. Quel pensiero che la distraeva così tanto, lei, così precisa, così attenta. Smise di parlarle, non aveva sentito nulla di quello che lui le aveva detto. I problemi della corte di Versailles non interessavano Oscar. Questo pensava, André. Lei non era lì. Era in America. La sua America. Per un istante pensò di voler essere lui, al posto di Fersen. Ma era un pensiero stupido e lo comprese subito. Non sarebbe bastato andare così lontano perché Oscar si accorgesse di lui, della sua assenza. E a nulla era servito tradirla. Anche perché è difficile tradire una persona che non è, in realtà, la propria amante. Per tradire, e godere del tradimento, e avere allo stesso tempo quella sottile paura, e quel desiderio, di essere scoperti, bisogna almeno sapere, credere, sperare, di essere amati da chi si ha accanto. Ma come si fa a tradire qualcuno da cui non si è amati? Così, André aveva finito per tradire solo se stesso, scegliendo la compagnia di altre donne. Non che fosse stato brutto. Era stato… indispensabile, vitale. Qualcosa di cui si ha necessità, come il pane. Ma una volta saziata la fame…
Era sempre tornato da lei. Comunque. Ogni notte. Nonostante qualche schiaffo di un’amante delusa.
E qualche pianto disperato, e qualche sottana trascinata per terra nel tentativo di trattenerlo. Oscar non si era mai accorta di quei piccoli lividi. Era sempre tornato da lei.
Ogni volta più deluso, ma ancora in quella casa.
Deluso da lei, deluso di se stesso.
In certi momenti aveva pensato di dirglielo. Di avvicinarsi a lei in un momento di tranquillità e confessarle il suo amore. Qualche volta aveva davvero provato ad avvicinarsi a lei, ma lo sguardo di lei, freddo, distante, aveva fatto morire le sue intenzioni. La partenza di Fersen per l’America li aveva, in realtà, divisi ancora di più. E lo sguardo di Oscar era ormai da qualche tempo oltre quelle nuvole, e oltre la pioggia che silenziosamente cominciava a scendere. La pioggia rimase allora l’unica compagna dei pensieri, smarriti, di André.
La pioggia bagnava, inopportuna e indesiderata, anche la lunga e ampia veste di sua nonna, che si affrettava a ritirare i panni già umidi, prima di doverli lavare di nuovo. Precauzione inutile, perché la cesta piena le cadde a terra quando vide una persona, avvolta in un lungo mantello nero, come la pece. Una persona di cui aveva conservato, solo per se stessa, nella sua memoria stanca e logora, il ricordo antico e doloroso. Si chinarono insieme, in silenzio, a raccogliere quei panni ormai sporchi di fango. Li raccolsero uno ad uno, in un ordine come prestabilito da una vecchia abitudine, non del tutto dimenticata, né da lui né da lei. Nanny se ne accorse, e le sfuggì un sorriso amaro. Sollevò la cesta piena. Per appoggiarla subito su un tavolo, nella veranda.
“Per ora dimmi solo come sta”, le disse.
“Per ora? Tutto qui quello che hai da dirmi, dopo tanto tempo?”. La voce le tremò. Si girò, dandogli le spalle, rabbiosa, scura in volto.
“Sì, per ora sì, per ora non posso dirti altro”. Tentò di avvicinare la mano ai capelli di lei, in una carezza a lungo desiderata, cercata, temuta, ma smorzata immediatamente da un ulteriore allontanarsi di lei, come se avesse percepito le sue intenzioni.
“Sta bene” disse lei, senza voltarsi. “Posso almeno sapere dove alloggi?”
“No, ma lo saprai presto, te lo giuro”, rispose.
Nanny si voltò a guardarlo, lo sguardo ora più triste. “Non giurare, l’ultima volta che l’hai fatto…”
“L’ultima volta è stato molto tempo fa. Sono passati anni, molte cose sono cambiate.”
“Non giurare, lo stesso”. Nanny prese la cesta e si allontanò, nascondendo le lacrime e il desiderio di toccare quella mano offertale, tra le pieghe dei vestiti bagnati.
L’uomo si allontanò, protetto dal suo mantello nero e portato via dalle ombre della sera, anticipata dalla pioggia che continuava a scendere.
Nei giorni che seguirono la preoccupazione di Nanny crebbe, al pari della sua delusione per non averlo ancora rivisto. Ruppe inavvertitamente una zuppiera antica, e a capo chino si recò a scusarsi dell’incidente presso il generale. Jarjayes non capì perché un incidente tanto banale avesse reso l’anziana donna così prostrata. La congedò velocemente, minimizzando l’accaduto. Sulla soglia della porta, Nanny si fermò. C’era qualcosa che avrebbe voluto dire, che sarebbe stato necessario dire. Ma non ne ebbe il coraggio. Dopo tutto non era più tornato. E poi, era anzitutto un problema suo. Quindi si allontanò, senza che Jarjayes potesse intuire cosa stava succedendo.
Tornando in cucina un giovane servitore le diede una lettera. Le bastò un istante per capire di chi fosse. Si allontanò dalla cucina e uscì su quella stessa veranda dove l’aveva rivisto, dopo tanto tempo, come se il leggerla lì potesse evocarlo anche fisicamente. Aprì la busta, inforcò gli occhiali, e dovette sedersi velocemente su una sedia quando lesse il contenuto. Strinse i pugni, pensando che le stesse mentendo, come molti anni prima, ma poi il suo pugno si distese in una carezza, solo immaginaria. In fondo, non c’era stato giorno, in tutti quegli anni, in cui non avesse pensato a lui. Con rabbia, con dolore, con vergogna. Nel profondo della sua anima, ancora con amore.
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Battuto nell’ennesima sfida, André raccolse la spada. Non aveva per niente voglia di continuare, quel giorno. Non rispose né allo sguardo di supplica che lei gli rivolse, per spingerlo, né al tono quasi di comando che adoperò per richiamarlo, mentre si allontanava. Sì, da qualche tempo André era strano, in effetti. Molto più silenzioso, molto meno incline a scherzare con lei. In certi momenti, Oscar, aveva temuto che la loro amicizia fosse molto vicina a rompersi. E in quei momenti, per timore di non perderlo, non gli aveva parlato. Non si sentiva capace di fargli certi tipi di discorsi. Temeva di dirgli una parola di troppo, o forse due, e che, così facendo, André sarebbe andato per sempre via da quella casa. In fondo, quale soddisfazione poteva avere lui in quella casa?.
Qualche volta il sospetto di una sua insoddisfazione l’aveva sfiorata. Forse più di una semplice insoddisfazione. Forse anche più di una volta.
Poi si era convinta che fosse un problema… di donne. Ma questo non l’aveva tranquillizzata, in realtà. Lo aveva visto rientrare, una notte, e accasciarsi stancamente su una poltrona. Era rimasta nascosta, per paura di non disturbare, lei che non si era mai posta limiti nei confronti di André. Aveva visto un segno, sul viso di lui, rosso acceso, come un forte schiaffo. Forse più d’uno. Lo aveva sentito mormorare un nome, forse era Elise, forse era Marie. Forse erano state due sere diverse, due donne diverse. Non lo ricordava bene, chissà perché. Le era dispiaciuto, però. E molto. E stava per entrare nella stanza, per rimproverarlo, per dirgli quanto fosse stato vigliacco a trattare così quelle donne. Che, era certa, lui aveva lasciato. Per rimproverarlo di essere uscito, senza il suo permesso. Di non essere rimasto in quella casa, di non essere rimasto… con lei. Ma poi… non l’aveva più fatto. Sentiva di non averne il diritto. E poi, perché arrabbiarsi con lui? Era pur sempre un uomo…
Non riusciva più a capirlo. Si chiese, con sgomento, se l’avesse mai capito. Si chiese, soprattutto, quanto tempo sarebbe passato prima che una donna entrasse davvero nella sua vita, a portarglielo via. Non doveva mancare molto al giorno in cui André si sarebbe affacciato, una sera, nel loro salotto e le avrebbe detto: Oscar, vado via, vado via per sempre, sii felice per me.
Non riusciva a spiegarsi perché questo pensiero non le piacesse affatto, perché sentisse dentro di sé il bisogno di dirgli, invece: André, non mi abbandonare...
La sua razionalità prese il sopravvento, per un altro giorno. O forse aveva alzato il suo solito scudo a difenderla dal dolore. E si diede una spiegazione più semplice per quel rifiuto di proseguire gli allenamenti da parte di lui. Forse era solo stanco.
Così Oscar non si accorse, qualche giorno dopo, una sera senza pioggia ma solo tanto tanto fredda, di cosa André avesse nel cuore quando entrò nel loro salotto, per parlare con lei.
Continua...
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