Una farsa inutile
parte terza
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Parte terza
Battiti
Per
quello che posso ricordare il primo battito che ho ascoltato nella mia vita era
quello di mia madre. Probabilmente è stato il primo suono della mia vita e
forse potevo sentirlo anche quand’ero nella sua pancia, prima ancora di venire
al mondo, prima che mio padre decidesse del mio destino. Poi le occasioni per
ascoltarlo si fecero sempre più rare. Ero stata affidata ad una balia, come è
usanza, e mia madre scomparve lentamente e inesorabilmente dalla mia vita. Mio
padre riteneva che dovessi passare meno tempo possibile con le donne e riuscì
ad ottenere che mia madre si occupasse sempre meno di me. E fino ai cinque anni,
l’unico altro battito di un cuore che potevo ascoltare era quello di Nanny.
Era
un battito lento, cadenzato. Mi sorrideva, mi accarezzava, Nanny, tenendomi
sulle sue ginocchia, dopo aver chiuso bene a chiave la porta della mia stanza,
alla sera.
Mia
madre era tornata stabilmente a Versailles già da molto tempo e la vedevo di
rado, mio padre passava le giornate ad insegnarmi ad andare a cavallo e a tenere
in mano una piccola spada, fatta su misura per me. In verità allora adoravo mio
padre, anche se era fin troppo esigente con me. Non potevo mai permettermi di
essere o di comportarmi da vigliacca e spesso volavano ceffoni, ma io amavo mio
padre e, in fondo al cuore, avevo una grande paura di perderlo o che non mi
volesse più bene, il che era assolutamente e spaventosamente equivalente. Non
ricordo di aver mai ricevuto un bacio o una carezza da lui, né ricordo che ne
abbia mai dati a mia madre, almeno in mia presenza. Ma si occupava di me, molto
più che delle mie sorelle e questo mi faceva sentire, nonostante gli schiaffi e
le urla, di essere al centro della sua attenzione e quindi amata da lui, in
qualche modo. Finché non sei entrato tu nella mia vita, le uniche carezze che
avevo ricevuto, gli unici abbracci che ricevevo erano quelli fatti di nascosto
da tua nonna, nella mia stanza chiusa a chiave e solamente dopo che mio padre si
era ritirato nelle sue stanze. Poi sei arrivato tu e quando ci siamo guardati
per la prima volta forse anche le nostre solitudini si sono guardate, riflesse
come se l’una fosse lo specchio fedele dell’altra. E si sono cercate, e
trovate, sicuramente.
Tu
eri rimasto orfano e sembravi timido, ma sotto la superficie eri molto più
sicuro di te di quanto non lo fossi io, che mi atteggiavo a soldatino spavaldo e
impavido. In fondo eravamo, e probabilmente siamo ancora, praticamente identici
nel bisogno di amore, nel bisogno di essere amati, nel bisogno di sentire che
qualcuno pensa a noi, si preoccupa per noi e ci vuole bene per quelli che siamo.
Tu avevi perso i tuoi genitori, i miei, anche se c’erano, non avevano
particolari manifestazioni di affetto verso di me. Per mio padre io ero un
piccolo uomo o, meglio, un uomo in miniatura, e i miei sentimenti di bambino o,
per meglio dire, di bambina non erano e non potevano essere riconosciuti. Non
dovevano esistere, semplicemente. Non potevo piangere di fronte a lui, non
potevo aver paura, di niente e di nessuno. Dovevo portare con me, in qualsiasi
circostanza, orgogliosamente, il nome e il fasto della famiglia Jarjayes.
L’erede della famiglia. Ma con te no, quando eravamo da soli potevo anche non
essere necessariamente questo, ed essere anche, talvolta, me stessa. Diventammo
rapidamente amici in realtà, tanto le nostre solitudini si toccavano. E
nonostante i dispetti e gli scherzi ci volevamo bene. Anche se non ce lo
dicevamo. Un bene inespresso ma non per questo meno profondo, anzi, talmente
profondo e inestimabile, da avere persino difficoltà ad esprimerlo con le
parole. Così, la prima volta che fu un gesto ad esprimere quello che sentivamo
l’uno per l’altra, fu un’emozione che non mi è stato possibile
dimenticare e adesso, in questo preciso momento, ascoltando il battito del tuo
cuore con la mia testa appoggiata sul tuo petto, non mi è possibile non pensare
a quella prima volta di tanti anni fa.
Ora
il tuo cuore batte più lentamente, stai dormendo, probabilmente, le tue braccia
cingono ancora le mie, con decisione, come per proteggermi da un mondo che non
può, in ogni caso, capire quello che siamo noi, che siamo stati e sempre
saremo, oramai ne sono certa. Vorrei lasciarmi andare anch'io al tuo stesso
sonno. Sono tanto stanca, ma non voglio e non posso. Non voglio che nessuno ci
scopra ora, perché quello che stiamo vivendo in questo momento è troppo
prezioso. Alla festa, a Girodel, al modo di uscire da questa farsa assurda,
inutile, penserò domani, te lo giuro, André.
Voglio
ricordare questo momento per sempre, come ricordo la prima volta che è
successo, tanti anni fa.
Avevamo
l’abitudine, dopo aver studiato, di andare a giocare, andavamo a cavallo, ci
battevamo e quando finalmente eravamo fuori dal controllo visivo di mio padre
giocavamo liberamente a qualsiasi cosa ci venisse in mente: a rincorrerci, a
nasconderci, ad arrampicarci sugli alberi… finché non trovammo questo posto,
e questo salice, lontano persino dai confini della tenuta. Quando eravamo
stanchi venivamo qui, e ci addormentavamo fianco a fianco, mentre il vento
muoveva leggermente, come ora, i sottili rami ondulati del salice. Era capitato
altre volte che ci fossimo presi per mano, prima di addormentarci, ma io non
avevo dato mai un valore particolare a quel gesto. Era naturale, semplicemente,
o io lo interpretavo come tale, senza alcun significato recondito o
sentimentale. Quel giorno invece ero profondamente inquieta e triste. Avevo sei
anni e mio padre voleva a tutti i costi che io imparassi a nuotare. Avevo già
rischiato di affogare non molto tempo prima, con te. Ma io avevo paura
dell’acqua e mio padre mi aveva rimproverato aspramente e duramente per la mia
codardia. E mi aveva schiaffeggiato, come sempre. Poi se n’era andato ed io
ero rimasta lì, come bloccata, come una statua di sale, senza dire niente,
senza riuscire a pensare a niente, né alla mia paura, né alla mia rabbia. In
silenzio eravamo arrivati qui. Stavo in un angolo, sdraiata, cercando di
dormire, quando all’improvviso la tua mano cercò e trovò la mia. La strinse,
forte, e quella stretta per me fu qualcosa di così forte e intenso da sembrarmi
quasi violento. Mi aveva toccato il cuore, in realtà, molto profondamente, come
quando un albero viene attraversato fino alle radici da un fulmine. Mi ritrovai
rannicchiata su me stessa a piangere con forza, con rabbia, forse persino con
violenza, lasciando con decisione la tua mano, per potermi coprire il volto, per
nascondere le mie lacrime al tuo sguardo. Fu allora che ti avvicinasti a me e ti
mettesti ad accarezzare i miei capelli. Smisi di piangere, e ti guardai. Quella
cosa che stava succedendo mi imbarazzava e, allo stesso tempo, mi faceva sentire
stranamente bene.
Mi
sollevai a guardarti e ti dissi: “André… questo non sta bene… io… io
sono…”
Avrei
voluto dirti che ero un maschio, ma sapevo di non esserlo. Avrei voluto dirti
che ero un soldato, ma come può essere un soldato una bimba di sei anni? Avrei
voluto dirti che ero l’erede della famiglia Jarjayes, ma che senso poteva
avere in quella situazione? Non riuscivo a dirti niente. Tu mi sorridesti e
finisti tu per me la mia frase: “Tu sei triste, e arrabbiata, e hai tutte le
ragioni per esserlo. Mia madre faceva così con me, quando ero triste…”
Tua
madre ti coccolava, la mia non lo faceva da tanto di quel tempo… tu eri lì,
le tue mani erano lì, i tuoi occhi erano lì… ed erano pieni di affetto per
me, mi sorridevano e mi dicevano che mi capivi e che mi volevi bene. Quello che
non potevo capire allora era che non solo mi volevi bene, ma che mi accettavi
per quello che ero e sono, completamente. Tu sei l’unica persona ad avermi
vista e considerata, sempre, al di là delle apparenze, perché di me avevi
bisogno, come io di te. E da allora non siamo stati più solamente l’unione di
due solitudini, ma qualche cosa di molto più profondo, come è profondo il
battito del tuo cuore, André. Mi avvicinai a te come per istinto, allora e misi
la testa sul tuo piccolo petto. E ascoltai il battito del tuo cuore per la prima
volta. Mi stringesti con le tue braccia, esattamente come ora, e mi tenesti così
per tanto tempo. Piansi le mie lacrime che divennero sempre meno violente, e
sempre meno dolorose fino a scomparire del tutto. E mi addormentai, continuando
a sentire il battito del tuo cuore, e tu ti addormentasti dopo di me. Quando ci
svegliammo mi guardasti negli occhi, sciogliendomi dal tuo abbraccio. Mi dicesti
una sola cosa:
“Oscar,
noi saremo sempre insieme.”
Non
una domanda, non una ipotesi, non una tra le tante cose possibili, sembrava
esserci un’assoluta certezza nei tuoi occhi.
“Sì.”
Non
una risposta ad una domanda, non la verifica di un’ipotesi, non un calcolo o
un ragionamento. Solo un’assoluta certezza. Ci alzammo e andammo via da lì,
verso la nostra casa, verso la nostra vita, che, da quel momento, non era più
solo l’insieme di due vite diverse, quella nella nobile Oscar de Jarjayes e
del servitore André Grandier, ma era la nostra vita.
Nostra,
comune, condivisa e sostanzialmente indivisibile e inscindibile.
Ogni
volta che siamo tornati qui, e fino a quando siamo entrati in accademia, con
ruoli e mansioni diverse, ci siamo abbracciati in questo modo. Da allora non lo
abbiamo più fatto. Ma ora sono qui, abbracciata a te, con la testa sul tuo
cuore, felice, ma scopro, in questo istante, di desiderarti fisicamente, di
voler fare l’amore con te. E’ la prima volta che mi succede e cerco di
scacciare questo pensiero dalla mente. Meriti di fare l’amore con una donna
che ti ami e non con me che non so cosa provo per te ora, ma non riesco a
staccarmi dal tuo petto. Potrei svegliarti, baciarti, rendermi disponibile ai
tuoi occhi, e lasciarmi trasportare dal tuo amore e dalla tua passione. Ma non
posso, non sarebbe giusto. Forse è per questo motivo che da quando siamo
entrati in accademia non ci siamo più abbracciati, e i nostri contatti fisici
si sono limitati alle pacche sulle spalle e talvolta, ai pugni. Roba da uomini -
tra un uomo e una donna. - Per non scoprire che possiamo anche desiderarci
l’un l’altra. Perché avrei scoperto il mio desiderio per te. Come sarebbe
stata la mia vita se avessi scoperto l’amore con te? Se mi fossi innamorata di
te a quindici o a sedici anni? Ci avrebbero separato, e io non ti avrei visto
mai più… No, devo scacciare questi pensieri assurdi… e questo strano
desiderio che ho di te ora…
Il
tuo cuore batte più lentamente… non voglio che questo momento finisca. Al tuo
risveglio mi dirai qualcosa? No, non credo. Probabilmente non mi dirai niente.
Perché quello che potresti dirmi lo so già.
Sì,
Andrè, noi saremo sempre insieme, te lo giuro. Non importa quello che succederà
dopo. Non mi importa di niente e di nessuno. Ora so cosa devo fare e come farlo.
E devo farlo in fretta, anche a costo della vergogna. E’ l’unica strada. So
che mi capirai. So che mi guarderai, sempre, al di là delle convenzioni e delle
maschere. Che non darai peso a ciò che si dirà di me, dopo quella festa. Tu
sai che non è vero. Io sono con te, come sempre. Non so cosa sarò nella tua
vita. Ma so che sarò sempre con te. Perdonami se in questo momento non posso
essere per te quello che vorresti. So solo che sono con te e che sarò sempre
con te. Ad ogni costo. Contro tutto e tutti. Finché lo vorrai anche tu.
Voglio
ascoltare il tuo cuore ancora un po’, finche il tuo sonno non sarà diventato
più profondo e potrò sciogliermi dal tuo abbraccio senza che tu te ne accorga.
Ti voglio bene, André, ti voglio bene.
Se
n’è andata. Mi ha lasciato qui. Si è allontanata da me dopo essermi stata
così vicina… talmente vicina… Oscar… dimmi che non ti ho sognato… dimmi
che il profumo che sento ancora sul mio petto è quello dei tuoi capelli…
dimmi che le braccia che ho stretto erano le tue. Che gli occhi che ho visto
preoccuparsi per me… senza remore… senza convenzioni… erano i tuoi. Oscar,
io ti amo. Ti amo così tanto…
“André,
ho voglia di fare una cavalcata, vieni con me?”
“Certo,
Oscar.”
“André,
io… volevo dirti una cosa…”
“Dimmi,
ti ascolto.”
“Tu…
come… come stai… le ferite ti fanno ancora male?”
“Oscar,
non mi hai mai chiesto una cosa del genere!”
“Rispondimi,
per favore…”
“Scusa…
sì… in certi momenti sì… mi fanno ancora male… ma chi mi ha medicato ha
fatto un buon lavoro e il peggio è passato…”
“…
e… il tuo occhio… come… come va?… in certi momenti mi sembri così
strano…”
“AH
AH AH! Ma va
benissimo, Oscar, in certi momenti invece potrei dimostrarti che ci vedo meglio
di te! Potrei dirti per esempio che hai messo il calzino sinistro al
rovescio.”
“Oddio…
hai ragione… ah ah ah…”
“André,
stai dormendo?”
“No.”
“…
perdonami…”
“Di
cosa?”
“Di
averti in un certo senso trascinato tra quegli animali… tra i soldati della
Guardia.”
“è stata una mia scelta, non ne sono pentito, e poi non sono
così animali come pensi… ho trovato un amico, un caro amico tra di loro.”
“Un
amico?”
“Alain.”
“Già,
tutti abbiamo bisogno di un amico…”
“André?”
“Sì?”
“Sono
ancora la tua… amica?”
“Il
fatto che abbia conosciuto Alain non cambia i miei sentimenti per te. Sarò
sempre tuo amico, finche lo vorrai.”
“André?”
“Sì?”
“Se
siamo amici… ho bisogno di una cosa… come quando eravamo… piccoli…”
“Cosa,
Oscar?”
E
così si è avvicinata a me, mi ha abbracciato, ha messo la testa sul mio petto,
come quando eravamo piccoli, come quando al mondo c’eravamo solo noi. Oscar…
tu non sai quanta tenerezza mi hai fatto. Cercavi le mie braccia, cercavi il mio
cuore, cercavi i miei occhi come allora. Ma io ora posso guardarti e a fatica,
solo con un occhio. Oscar… non posso dirti che ti vedo sempre più
confusamente, che ho bluffato sul calzino perché mia nonna stamattina aveva
fatto quest’osservazione vedendoti uscire e tu non l’avevi sentita. Che non
riesco a distinguere le foglie di questo salice che continuano a muoversi sopra
di me… non posso…
La
tua voce tremava mentre mi chiedevi del mio occhio. E non voglio vederti così.
E
tu non sai quanto desiderio avevo di te mentre mi abbracciavi. Non te lo posso
dire, non te lo posso dimostrare. Perché non mi ami come ti amo io. Eppure,
c’è stato un momento… stavo assopendomi… e tenevo il tuo polso nella mia
mano. Tenevi chiusi gli occhi, eri persa in chissà quali pensieri, e il battito
del tuo cuore ha cominciato ad essere più veloce, molto più veloce. Lo sentivo
dal tuo polso. Ti sei stretta di più a me. Perché, Oscar, perché?
Perché
mi hai portato qui? Perché mi hai abbracciato? Perché ti preoccupi per me?
Perché sembri sentirti responsabile delle mie ferite? Perché mi chiedi se
siamo amici? Perché sembri “gelosa” di Alain? Che cosa ti succede, Oscar?
Che cosa?
“Comandante,
dovete rientrare immediatamente a casa, vostro padre è stato ferito. Sembra sia
grave!”
Sono
corsa via, ho preso il mio cavallo, per correre verso casa, in fretta, sempre più
in fretta, sempre più veloce… Mio padre… non adesso… non lasciarmi
adesso, padre… pensavo, come se potesse esserci un momento giusto perché i
genitori muoiano? No, non c’è, e io non sono pronta… non voglio perderti…
E
allora via, veloce, sempre più veloce, mentre tutto quello che vedevo intorno a
me sfumava fino a diventare totalmente indefinito, e totalmente indifferente.
Un
mondo senza confini, senza bene né male, senza colori, eccetto il rosso del
sangue; senza rumore, eccetto il battito del mio cuore impazzito. Senza emozioni
eccettuata una, che cancella ogni colore, e attutisce ogni suono, che riempie
ogni forma e ogni spazio, fino a pervadere completamente ogni pensiero, ogni
sentimento: la paura. La paura di perderti, padre.
Ma
quando sono arrivata e Nanny si è voltata verso di me, con le lacrime agli
occhi e il suo più bel sorriso dicendomi che mio padre era salvo… che eri
salvo, padre, sono crollata.
Di
fronte alla morte siamo tutti uguali e tutti spaventosamente fragili. Come
bambini spaventati. In cerca di una mano a cui sorreggersi, in cerca di uno
sguardo d’amore.
Di
qualcuno o qualcosa che ci protegga, o che ci faccia credere, almeno per un
istante, di non essere soli. Uno sguardo che ci accompagni. E quello sguardo era
lì per me, in quel momento in cui tutta la mia paura svaniva, si scioglieva
nelle lacrime.
Ed
era il tuo sguardo su di me, André. Le tue braccia mi hanno stretto solo ieri
pomeriggio ed oggi è stato il tuo sguardo ad abbracciarmi.
Come
una carezza, come una foglia che portata dal vento tocca delicatamente lo
specchio di una pozzanghera. Mi hai sorriso, André, guardato con amore,
guardato con comprensione, mentre io non riuscivo più a trattenere il mio
pianto.
Stanno
succedendo troppe cose, ci sono troppe cose in gioco. Ci sono io, ci sei tu, e
ora anche mio padre…
E
per un attimo non ce l’ho fatta a mantenere la calma, ad essere
l’inflessibile comandante… ma in quella stanza, per qualche minuto ho potuto
essere me stessa e piangere le mie lacrime.
Sapendo
che tu le avresti permesse, le avresti permesse, le avresti protette, le avresti
consolate.
Come
sarebbe stato se avessi potuto in quel momento abbracciarti? Se avessi potuto
alzarmi dal pavimento e avessi potuto abbracciarti, toccarti? Come sarebbe se io
abbattessi ogni barriera, ogni convenzione tra me e te? Come sarebbe se questo
mondo intero non esistesse, io non fossi quella che sono; se di fronte a te,
André, ci fosse solo una donna che oggi ha avuto una paura folle che suo padre
morisse? Come sarebbe se fossimo solo un uomo ed una donna? Nessuna barriera,
nessun confine, nessun dolore, nessuna paura, ma solo le tue braccia intorno
alle mie, solo i tuoi occhi nei miei?
Sto
male, ho la fronte calda, forse ho la febbre. Nient’altro può spiegare questi
pensieri confusi. Nient’altro può spiegare questo tutto che è fatto della
paura, del sollievo, della gioia che ho provato oggi. E il calore che ho
incontrato nei tuoi occhi, André, e questo senso di attesa che sento. Che mi
porto dentro. Cos’è questa sensazione? Questo senso di attesa, attesa di un
qualcosa che non conosco, che non riesco a esprimere con le parole, che non
riesco a formulare compiutamente nella mia mente, che non riesco ad immaginare,
che cos’è?
E anche adesso, nella mia stanza, sento ancora il tuo sguardo su di me. Sento ancora quella carezza. Per un istante, un istante solo, in quello sguardo mi sono persa. Un istante solo prima di tornare ad essere me stessa. Forse.
Continua...
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