Una farsa inutile
parte prima
Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.
L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.
Premessa
al racconto e disclaimer:
La
prima ispirazione per questa storia si deve, in realtà, a Midori, la quale mi
propose di lavorare ad una storia che si sviluppasse a partire dall’episodio
del pestaggio di André. Inizialmente si trattava di lavorarci congiuntamente. A
questo primo proposito, poi, è invece seguito quello di sviluppare
separatamente le due versioni, in una sorta di esperimento per le scrittrici e
per il lettore. Le due storie dunque, seppure diverse, nascono dalla stessa
ispirazione ma proseguono poi per direzioni diverse, entrambe possibili e
valide. Troverete presto la storia scritta da Midori con il titolo “Missione
nell’Artois” nel sito di Alex
La leggenda
di Versailles http://digilander.iol.it/louislegrand
Come
sempre, invece, il copyright per i personaggi utilizzati in questa fanfiction
appartiene a Ryioko Ikeda e alla TMS.
Buona lettura.
Parte prima
Buio
Per terra. Buttato, come un sacco pieno di cose vecchie e inutili di cui non si può fare altro che disfarsi, gettato per terra, calpestato, i segni dei calci e dei pugni ricevuti sul suo corpo. Ferito, quasi massacrato. Così l’ho trovato venerdì pomeriggio. Così ho trovato André. Così lo hanno ridotto, quei bastardi, quei figli di puttana. Quando, in lontananza, ho sentito dei rumori, ho capito che c’era una rissa in atto. Nell’armeria, forse.
Ma non mi sono alzata.
Pur sapendo che la disciplina dei miei soldati era venuta meno. Venendo meno al mio dovere. E ai miei principi.
Non mi sono alzata. Che se la sbrigassero da soli, ho pensato.
Per vigliaccheria. Sì, per vigliaccheria. Per non affrontare quell’ennesima bega tra i miei uomini.
Quegli uomini che avevo scelto di comandare, in un certo senso. Un incarico diverso da quello che mi spettava per il mio titolo nobiliare, un incarico che mi allettava, all’inizio. Uomini diversi da quelli che avevo sempre comandato. Facilmente. - Solo adesso mi rendo conto di quanto sia stata facile la mia vita, fino ad ora. - I soldati della guardia ubbidivano ai miei ordini senza discutere, come se il solo fatto di condividere la stessa nascita facesse sì che ogni mio ordine fosse sentito come naturale, e per questo indiscutibile. Sempre, anche il più azzardato.
Per loro il fatto di essere comandati da una donna sembrava non essere un problema… ma ora… di fronte a questi uomini che mi guardano con disprezzo, che mi ricordano in ogni singolo istante che sono una donna e che per questo motivo io non dovrei essere qui, che osservano ogni mio movimento in attesa di un mio errore, di una mia defaillance, che contestano ogni mia singola parola con gli occhi, i gesti, la voce, io ho paura. Paura, sì, ma non della loro fisicità, non ho paura che mi facciano del male fisicamente, e, forse, chissà, potrebbero anche farmene.
Non ho paura del loro pregiudizio nei miei confronti. Posso dimostrare a chiunque di essere valida come comandante indipendentemente dal mio sesso.
Non ho paura delle loro parole taglienti o del loro sguardo in sé, ma di quello che mi provocano dentro le loro parole, ho paura di quello che provo io quando mi guardano. Non mi piace essere osservata, studiata, non mi piace che le persone mi leggano dentro, non voglio che nessuno possa leggere nei miei pensieri. Non voglio che si leggano attraverso i miei occhi i miei sentimenti. Nessuno. Nessuno deve conoscerli. Nessun’altro, almeno.
Ho già sofferto troppo per aver lasciato che i miei sentimenti trasparissero dai miei occhi, dai miei gesti, dal muoversi sinuoso della seta di un abito da sera. Ed ho sofferto ancora di più se possibile, quando un altro pezzo di seta è volato via con violenza, in una notte che sembrava come tante altre della mia vita e che si è trasformata, in pochi minuti, in una frattura indelebile tra me e André. Un pezzo di seta stretto nella sua mano insieme al mio dolore, insieme al suo dolore. Un gesto che avevo perdonato, dolorosamente, faticosamente, perché dettato dalla sofferenza e non solamente dalla fisicità. Questa è la motivazione che mi sono data fino ad oggi. Ora mi rendo conto che forse l’ho fatto per una ragione molto meno nobile. Credo di averlo fatto molto più vigliaccamente per non perderlo del tutto, per non rinunciare a lui, dopo che, per un paradosso assurdo, avevo chiesto io a lui di rinunciare a me.
E’ perché ti sono vissuta sempre accanto che non riesco a rinunciare a te?
E' perché ho visto il tuo volto praticamente ogni giorno della mia vita che non riesco a non guardarlo, giorno dopo giorno, in questa caserma?
E’ perché ho sentito la tua voce in ogni momento della mia vita che non riesco a far finta di niente se, da quando sei entrato in questa caserma, non mi parli più?
Non lo so. Ma nessuno è in grado di capire quello che io sento per te. E da venerdì pomeriggio la mia angoscia è diventata più forte, come il mio senso di colpa verso di te, André.
Ero persa nei miei pensieri, venerdì pomeriggio, nelle mie continue elucubrazioni, ma sapevo quello che stava succedendo non molto lontano dalla mia stanza.
E, nonostante tutto, ho lasciato correre, seduta alla mia scrivania, firmando dispacci che non leggevo nemmeno, con l’orecchio teso a capire quando quelle urla sarebbero finite, quando quella violenza inutile sarebbe terminata. Finché non l’ho sentito. Finché non ho sentito un grido diverso dagli altri. Un grido terribile, per me, perché diverso dagli altri, perché lo riconoscevo.
Perché era la sua voce. La voce di André. Ho trattenuto il respiro, sperando, pregando quasi, nel modo strano in cui posso farlo io che ho un modo strano di credere in Dio, che non fosse la sua voce, che non fosse un suo lamento. Anche lui lì, in mezzo a quegli animali?
Una scusa apparentemente razionale, per non voler ammettere con me stessa quello che stava succedendo ad André. Una scusa vigliacca, come io sono. Come io sono sempre stata. Come sono stata verso mio padre, verso la Regina, verso me stessa, e, soprattutto, per tutta la mia vita, verso di lui.
E intanto sono rimasta lì, senza fare niente, seduta alla mia comoda scrivania. Poi c’è stato un momento di silenzio e subito dopo risate. Sguaiate, volgari, quasi disumane, più simili ai suoni delle bestie che degli esseri umani. E terribili, allo stesso tempo, perché crudeli. La lotta era terminata, la rissa era terminata. Niente più vetri infranti, niente più pugni, niente più sedie spaccate o tavoli per aria. Qualcuno aveva vinto e usciva trionfante tra le risa. E qualcun’altro aveva perso, e si trovava lì, nel sangue e nel dolore. Mi sono alzata, allora, solo allora, perché dovevo punire i responsabili. Come se punire servisse a qualcosa, come se imporre una disciplina a questi uomini che non hanno niente e rischiano la loro vita per un niente servisse a qualche cosa… Dovevo farlo, comunque, per rispettare una inutile forma.
E sono andata verso l’armeria, con il solito sguardo fiero, inutilmente fiero, perché non avevo niente di cui essere fiera. Con la mia camminata decisa da militare, che ho appreso con tanta fatica da bambina, tra uno schiaffo di mio padre e una lacrima di Nanny. Dritta come un fuso. Camminando sentivo solo il rumore metallico della spada al mio fianco sinistro che si muoveva senza sosta, ad ogni passo che facevo. Quel rumore che mi accompagna da una vita, che mi ricorda quella che sono stata e quella che sono e quella che sarò, forse, fino alla mia morte. Quel rumore che mi sembra sia diventato così assordante, ora.
Perché quella spada non mi è servita a difenderti, André. Non è servita a difenderti quando ti battesti con Bernard e non mi è servita solo pochi giorni fa, maledetto venerdì di caserma, di gavette vuote e pulci sotto il letto. Non mi è servita a proteggerti dalla bestialità dei soldati. Ed è ancora qui, quella spada, e il suo rumore mi ricorda ogni istante quanto io sia stata e sia vigliacca.
Quando sono arrivata all’armeria la porta era aperta, divelta dalla furia della rissa. Dal peso del tuo corpo forse… C’era Alain in piedi, a fissarmi, con quel suo sguardo di uomo vissuto, di uomo che sa tutto. Mi ha fissato con disprezzo, con pietà quasi. Cosa ne sa Alain di una come me? Cosa ne sa quell’uomo di quello che provo io?.
Ho abbassato lo sguardo, non per sfuggirgli, ma perché non era solo nell’armeria. Perché la vittima designata della rissa era per terra. Un corpo, un corpo umano, abbandonato in quello che restava di un’uniforme, che ora era strappata, lisa, macchiata di sangue e di sudore. Solo guardandogli i capelli mi sono resa conto che era lui. Che era André, che era il mio André. Che era lui. Che era lui ad aver subito quel tormento, che era lui ad aver subito quell’agonia atroce. André… il mio André…
"Ma certo! Adesso capisco tutto! Credo che vi ami, comandante. Bene, allora vi lascio soli: credo che sia meglio che vi occupiate voi di André! In ogni caso vi ama tanto da rischiare la vita per voi…"
Mi ha detto così, allontanandosi, passandomi accanto, gettandomi un ultimo sguardo misto di ironia, di disprezzo, di pietà.
Sono rimasta sulla soglia ancora per un momento, sentendo i suoi passi allontanarsi, farsi sempre più distanti.
Sono rimasta lì, di fronte alla mia colpa. Sono rimasta di fronte ad André.
Mi sono inginocchiata al suo fianco. Aveva perduto conoscenza. Il volto pesto. Ho provato lentamente a girarlo, per accertarmi che non perdesse sangue, che non avesse ferite gravi. Ho faticato nel farlo. L’ho toccato. Con timore, come si può toccare una cosa che si ritiene sacra o fragile, così fragile che al tocco può spezzarsi, dissolversi. No, non mi era sembrato che ci fossero ferite serie. Ma c’erano i lividi e le ecchimosi, e dei tagli che andavano disinfettati. Velocemente. E c’era quel volto pesto, in alcuni punti bluastro per i colpi ricevuti. Ho scostato delicatamente la ciocca di capelli con la quale lui copre già da tempo il suo occhio sinistro.
L’occhio che non vede più. L’occhio che ha perduto per causa mia. Non so perché l’ho fatto. Ma volevo vederlo. Volevo vedere la cicatrice che lui con tanta accortezza nasconde. Volevo vedere ciò che più mi fa vergognare di me stessa, anche oggi, ogni volta che ti guardo, André. La prova della mia incapacità. Che nascondi a te e a me, come per impedirmi di ricordare che è per causa mia che la tua vita è così piena di dolore. Che è per causa mia che la mia vita è così piena di dolore. Scostando quella ciocca di capelli ho scoperto che, come per un paradosso, o come per una beffa, era proprio quella la parte del tuo volto che era stata risparmiata dalla violenza.
Mi sono chinata su di te e ho dato un piccolo bacio a quella piccola cicatrice. Non so perché l’ho fatto. L’ho fatto e basta. Come un tributo, un atto dovuto, come qualcosa che era indispensabile fare. E profondamente inutile, perché non ti avrebbe restituito nulla di quello che ti era stato tolto. E non ti avrebbe alleviato il dolore di quelle ferite, né, tantomeno, il dolore che ti portavi nel cuore. E non ha alleviato la mia pena, anzi, l’ha resa forse più profonda. Ho chiamato l’ufficiale medico, allora, che, con l’aiuto di un infermiere, è riuscito a portarti fino all’infermeria. Il medico ti ha visitato. Quando è uscito mi ha detto che stavi abbastanza bene “tutto sommato”. Ma non è stato un pensiero che mi ha reso più tranquilla, anzi. Gli ho detto che mi sarei occupata io di disinfettarti le ferite e sistemarti le bende.
Non mi ha fatto domande, l’idiota. Per lui era una scocciatura in meno. E così sono rimasta sola, nell’infermeria. Sola con te. E con le parole di Alain. Con quelle parole pesanti come il piombo.
Ho finito di spogliarti io, non senza provare uno strano imbarazzo a vedere il tuo torace completamente nudo. Eppure siamo stati bambini insieme, e il tuo corpo per me, quando eri piccolo, non aveva segreti e non mi creava imbarazzo. Guardarti non mi creava imbarazzo. Ora sì.
Vedere invece le tue ferite mi ha fatto provare dolore. Molto dolore. E di fronte al dolore ho imparato che devo reagire, e subito, e non lasciarmi andare, non lasciarmi andare mai…
Ho preso l’alcool ed ho cominciato a disinfettarti. Non volevo svegliarti nel dolore. Non volevo che vedere me fosse doloroso per te. Ma ho dovuto cominciare a farlo. Ed hai aperto gli occhi, stringendoli subito per il dolore. Povero André, povero amico mio, solo dolore posso essere per te?
“Os… Oscar…” “André… mi dispiace… devo… devo disinfettare questi tagli… mi dispiace…” “Oscar…” “Come
ti senti?” Una frase idiota, senza senso, perché la risposta la
conoscevo fin troppo bene, eppure è uscita dalla mia bocca, come per
coprire la sua voce, per coprire il suo richiamo, la richiesta d’amore
implicita nel suono del mio nome pronunciato da lui. Amore. Solo amore
mi stava chiedendo, e io non ero in grado di darglielo. |
“Non ti preoccupare… sono… sono stato peggio… sai… quella volta che le abbiamo prese tutti e due…”
Bugiardo, non eri ferito così quella notte alla taverna, e non solo perché non avevi tutti questi segni sul corpo, come ora, ma anche perché, forse, non ti avevo ancora ferito così tanto io, con la mia indifferenza verso di te. O già allora portavi nel tuo cuore le ferite che ti ho inflitto io?
“Per favore, André… non scherzare… allora non eri conciato così… un attimo solo e poi... ti lascio in pace…”
Ecco, gli ho impedito anche di parlare … di sdrammatizzare… di avere un contatto con me anche solo con le parole. Ma io ho paura, André. Ho paura anche solo della tua voce. Ed estremo bisogno di sentirla. Ho paura anche solamente che tu ti avvicini a me. Come quella notte. Eppure ho sentito in quel momento anche voglia di ascoltarla la tua voce e di toccarti, e di sentire le tue mani toccare me. Non lo so ancora, non so quello che mi sta succedendo.
Esitante, come se partisse da un punto lontanissimo nello spazio, ho visto allora la mia mano destra muoversi verso il tuo volto, e accarezzarti i capelli lievemente. Ho visto il tuo sguardo, improvvisamente tenero, carico di affetto verso di me. Lo stesso sguardo di quando eri bambino e ti svegliavi al mio fianco dopo una notte di temporale. No, non è stato lo stesso sguardo, e non è stato più affetto quello che ho letto nei tuoi occhi, mentre la mia mano, con un leggero tremito che non riuscivo vergognosamente a controllare, tornava ad appoggiarsi sul mio fianco. Era amore, quello che ho visto. Un amore che forse non merito, ma che mi ha fatto sentire, per un istante, come se tu mi avessi già perdonato, come se tu avessi perdonato le mie colpe. E’ questo l’amore, André? E’ il tuo perdono il tuo ennesimo atto d’amore verso di me?
Gli ho sorriso. E tirato su la coperta, coprendolo, affinché potesse dormire. Mi ha guardato senza protestare, senza più fare un minimo accenno al dolore che doveva sentire. Ora che le ferite erano disinfettate e le bende erano state messe, non c’era più ragione che io restassi lì con lui e, contemporaneamente, tutte le ragioni del mondo per restare al suo fianco. E me ne sono andata.
Era sceso il buio quando riaprii gli occhi. Credo che fu il fastidio dell’alcool sulle ferite a svegliarmi, o forse l’odore dell’alcool così forte, ma avrei voluto che fosse stato il suo respiro sul mio volto a svegliarmi, avrei voluto che fosse stata la sua voce a svegliarmi. E invece lei era lì, in silenzio, a curare le mie ferite. Metodicamente, come Nanny ci ha insegnato quando eravamo piccoli. Metodicamente, come se non provasse emozioni, ma, in realtà, trattenendole dentro come cerca di fare da sempre. Nonostante il tentativo di negarle, di nasconderle, io sono sempre stato in grado di capire il tuo cuore, Oscar. Sempre… fino a non molto tempo fa, almeno. Fino a quando un colpo di spada ha cambiato la mia vita. Credevo di poter vivere senza un occhio… lo credevo davvero, Oscar. E quando pensavo di poter dimenticare tutto, di poter cominciare a relegare nell’angolo dei ricordi più tristi della mia vita la ferita all'occhio… .ho cominciato a vedere sempre meno… impercettibilmente, all’inizio… e, poi, in modo sempre più evidente. Il mondo ha cominciato a perdere i contorni, a diventare terribilmente confuso… orribilmente confuso.
Volevo mettere via in un angolo della mia mente la sofferenza dell’occhio che avevo perduto insieme con la morte dei miei genitori, con quel giorno in cui stavamo per annegare, con il giorno in cui mi resi conto, dolorosamente, di quale e quanta fosse la differenza sociale tra me e te, con il giorno in cui ti vidi scendere dalle scale per la prima volta con un’uniforme addosso, con il giorno in cui ti offristi per essere condannata al posto mio e con tutto il sangue che vidi uscire dal tuo corpo quando svenisti con la paura che tu non ti svegliassi più, con il giorno in cui ti vidi per la prima volta rivolgere uno sguardo di interesse, di amore verso Fersen, con il giorno in cui mi sono reso conto che sospettavi che io fossi il Cavaliere Nero… e con il ricordo più terribile di tutti, il più terribile e insieme… il più dolce della mia vita: il sapore delle tue labbra, la sensazione del tuo corpo sul mio, del tuo seno contro il mio petto.
Perdonami, Oscar, perdonami per il male che ti ho fatto. Per avertelo rubato, strappato con la forza, quel bacio. Per avere costretto il tuo corpo a toccare il mio, a stringersi al mio in un abbraccio che, mi perdoni Dio, io non avrei mai voluto che finisse. Comunque, anche in quella circostanza. E mai, fino alla mia morte. Solo il tuo terrore, solo il tuo dolore hanno potuto fermarmi… fermarmi dall’unirmi a te… perdonami Oscar, perdonami, ti prego… perdonami se penso che non avrei voluto fermarmi affatto quella notte, perdonami se penso che avrei voluto fare l’amore con te comunque, che avrei voluto stringerti a me comunque, che avrei voluto entrare dentro di te… e non uscirne mai più… perché di te avevo bisogno, disperatamente. Io ti voglio, disperatamente. Di te non posso fare a meno, ora che ogni notte sembra ancora più buia e la luce sembra non arrivare mai. Ora che ho il terrore, ogni giorno che passa, che la notte diventi eterna. Eterna e irreversibile. Ed è una notte diversa da quella che conosci tu, Oscar. Molto diversa. E’ una notte senza luna e senza calore, senza ombre. Fredda come il ghiaccio e terrificante come un incubo senza fine. Un incubo senza forma e senza colori, fatto solo di sensazioni confuse, di suoni e rumori che diventano ogni giorno più forti, di dolore e paura. Ho paura, Oscar, ho paura… non abbandonarmi… ti prego… non abbandonarmi alla notte che viene… che viene senza che io possa più far nulla per fermarla. Più nulla. Non abbandonarmi, non abbandonarmi in questo buio… ti scongiuro, Oscar… finché posso sentire la tua voce, so che il mio mondo non può essere completamente buio, finché posso sentire il tocco della tua mano, so che non sono completamente solo. Finché tu sei con me… Non sposarti, Oscar… non sposarti… ti scongiuro… non abbandonarmi… non abbandonarmi ora… io non posso, non posso vivere senza di te…
Credimi, Oscar, c’è stato un momento in cui avrei voluto che uno di quei pugni che ho preso, uno di quei calci, una di quelle ferite che hai medicato con le tue mani fosse stato mortale.
Avrebbero scritto di me, forse: André Grandier: una persona comune, come tante altre, morto durante una rissa tra soldati in una fatiscente caserma. Morto senza che qualcuno pianga il suo corpo. Morto senza amore. Morto senza aver conosciuto la passione dei sensi.
Ma io non sono morto, perché qualcosa dentro di me mi ha spinto a rispondere. A ognuno di quei calci, ad ognuno di quei pugni. Colpo su colpo, con una forza e una violenza delle quali non credevo nemmeno di essere capace. Con tutta la rabbia che porto nel cuore da tanti di quegli anni… Ho voglia di vivere, Oscar… nonostante tutto, io ho voglia di vivere… e di stare con te... non importa come… non importa per quanto tempo. Amica o nemica che tu sia. E anche se le mie mani non ti toccheranno più, anche se non sentirò mai più le tue labbra sulle mie… rimani con me… continua a guardarmi… non mi importa con quale sentimento nei tuoi occhi… ma continua a guardarmi… e allora troverò il coraggio di affrontare anche il buio… ma se tu ti sposi… io ti avrò persa per sempre… e, allora, veramente… non avrà più alcun senso vivere… ti scongiuro, Oscar… non sposarti…
Si può vivere anche per cose che sembrano minuscole ed hanno invece un valore immenso. La tua carezza… io l’ho sentita la tua mano tra i capelli… l’ho vista la tua mano, incerta, avvicinarsi al mio volto… come a consolarmi del mio dolore, come a scusarti di avermi fatto soffrire mentre mi curavi, mentre disinfettavi le mie ferite.
Sai, Oscar, quella lieve carezza ha “disinfettato” il mio cuore meglio dell’alcool. Mi sta curando meglio di qualsiasi medicina. E, allo stesso tempo, mi fa male più delle ferite che porto addosso. Perché potrebbe essere l’ultima. Se ti sposerai, sarà qualcun altro a riceverla. Qualcuno che ha un solo assurdo “merito” per sposarti. Per stare con te. Per fare l’amore con te. Non i suoi sentimenti, non il suo amore per te, non il suo coraggio, non la sua dedizione verso di te, non la volontà di proteggerti da qualunque male, non la voglia di condividere qualsiasi dolore o gioia o paura della tua vita.
Un titolo nobiliare. Solo quello. Solo un pezzo di carta e un sigillo. Solo quello mi separa da te…
Perché c’è un’altra ragione ancora più dolorosa per cui quella carezza mi fa male: è perché rappresenta la prova che, nonostante il dolore che ti ho inflitto, c’è ancora qualcosa in te che ti spinge a volermi bene, forse… aiutami, Oscar… aiutami… non mi abbandonare… non ti sposare…
Non posso curare le ferite della sua anima, perché troppa paura ho ancora di lui. Anche se so bene che quello che è successo quella notte non si ripeterà mai più. E forse non è nemmeno paura, André, è una sensazione molto diversa. Ma qualcosa posso e devo fare. Per me stessa, sicuramente… e anche per lui… sì… anche per lui… Qualcosa che forse ti restituirà un sorriso. O forse prolungherà solamente la tua agonia. E la mia, perché questo non mi dà la forza sufficiente comunque ad avvicinarmi a te.
E forse non me la darà mai per… ricambiare il tuo amore…
Ma cosa sto dicendo? Cosa sto pensando? Possibile che la mia tristezza e la mia solitudine mi spingano verso di te? Possibile che la risposta al senso di insoddisfazione che mi porto dietro da tanto tempo sia nel ricambiare il tuo amore in qualche modo? No, non sarebbe giusto, sarebbe profondamente egoista da parte mia. Ti userei, userei i tuoi sentimenti come le bende che ho messo sul tuo corpo per curare le tue ferite venerdì. I tuoi sentimenti come bende che curano le mie ferite. Meschina, e vigliacca. Come sempre. No, non voglio questo. No, André, io non posso curare le ferite della tua anima. Ma qualcosa devo fare, e sento che è giusto, per me e per lui. E’ l’unica cosa sensata da fare. Io devo mettere fine a questa pantomima del matrimonio con il conte Girodel di cui mio padre farnetica.
Continua...
mail to: f.camelio@libero.it