Davanti alla porta del destino

parte settima

 

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Nota della webmaster: a causa di impegni in questo update mi è stato impossibile procedere alla revisione dei testi delle ff, che pubblico, quindi, così come mi sono stati inviati. Me ne scuso con gli autori e con i lettori.

 

La notte distesa nel cielo.

Lanterne disciolte tra vapori di nebbia esalati dal fiume fluttuano spettrali nell’aria scura. Passi sul selciato, irregolari, amplificati dall’eco riflessa dai pilastri di pietra umida.

I rumori della città spenti nello scorrere lento della Senna che, al di là del ponte, borbotta, spegnendo nella notte la sua voce.

Le palpebre si chiudono pesantemente, fissando un punto vago nell’aria immota, satura dei miei pensieri… no, non ce la faccio a tornare a casa, credo che andrò in caserma, in fondo qualsiasi letto va bene per smaltire il vino.

Un’ombra avanza tremando tra le luci deboli. Le parole spezzano i miei pensieri sgangherati.

“Siete sola, bella signora?”

“Dite a me?”

Sollevo con lentezza la testa in direzione della voce, la mente che evapora nei fumi dell’alcool.

Che sbronza. Non ti ho dato ascolto… sono un’idiota, sento che sto per vomitare l’anima. Il pilastro di pietra a cui sono appoggiata di schiena è l’unico appiglio saldo in questo momento.

“Vedete altri?”

“Vi sbagliate. Non sono una dama.”

“No. Ma siete una donna”

“Già… Comunque andatevene, non ho denaro con me.”

“Allontanate la rabbia dalla vostra anima, bella signora. Lasciate che un povero vecchio come me goda di una vista così bella ”

E’ un vecchio suonatore di fisarmonica la sagoma stagliata contro la cortina di luce ritagliata tra i pilastri e la linea ricurva dell’arco nero, affacciati sulla superficie vetrosa della Senna. Ho gli occhi appannati e secchi dal troppo vino che ho bevuto, dal fumo delle candele, lì, nella taverna.

Un vino pastoso, dal sapore troppo denso. Me lo sono meritato, almeno questo.

Ma non erano gli uomini ad abbandonare le fanciulle dopo l’amore? Siamo proprio strani, André.

Le fanciulle sedotte ed abbandonate di solito si disperano, tu ed io invece stavamo per rifare l’amore, lì, nella stalla, perché lo sai che sarebbe finita così, ma tu ti sei voluto vendicare, lasciando che assaporassi un desiderio insaziato. Bella mossa! Bravo.

Distinguo a fatica la superficie dell’acqua tagliare in due il selciato, dividendo in due la città.

Anche io mi sento spezzata. Ero una donna mancata e un uomo fallito, forse in attesa che un giorno la vita bussasse alla porta… quella vita che ho avuto oggi, e non so che farmene, André.

Aiutami. No, lasciami.

Averla sentita dentro, la vita. Insieme al tuo cuore, sai, per la prima volta li ho sentiti i battiti del mio.

“Signora, io vi conosco. Siete il comandante dei soldati della guardia. Vi ho vista spesso, di pattuglia qui in città.”

“ E allora?”. Non ce la faccio a prestargli attenzione, mi sento svenire. Le immagini si accavallano in segmenti diagonali davanti agli occhi, le annullo socchiudendo le palpebre, cancellando per un istante il vecchio, il fiume, per ricomporli nella mente, con lentezza.

“Avete lasciato che la notte cadesse ancora sulla vostra anima. Avete dato un’occhiata furtiva a quello che c’è dentro, e poi l’avete chiusa, quella porta e…”

Non lo lascio finire di parlare. Le monete d’oro rimbalzano sulla banchina del fiume, matassa nera ribollente di schiuma grigia. Stridono sul selciato scuro, le tonde sagome dorate, ondeggiano sulla circonferenza e, adagiandosi, mostrano il lato con l’effigie del re coniata nell’oro opaco. Il re. La regina. Versailles.

 

Eppure ero io.

 

“Volete pagare il mio silenzio. Vi conosco, anche se voi non sapete chi sono”. Il vecchio si trascina sulla stampella, accomodandosi accanto a me, sulla banchina di pietra che argina il corso d’acqua. Porta alti stivali e un soprabito che deve avere conosciuto epoche migliori, carezza con dita tremanti  un cane dal pelo rado che lo ha raggiunto saltellandogli tra le gambe. L’uomo resta curvo, a grattare tra i ciottoli che si ammassano davanti a noi con la punta del bastone. Il cane alza la testa, mi guarda, seguita a latrare, lappando dell’acqua traboccata dal fiume. L’uomo mi osserva, con occhi obliqui, con labbra pallide che sigillano una bocca senza denti. Sembra uscito fuori dai racconti per bambini, quelli che credevo appartenessero alla fantasia. Magari le storie che mi narravano sono state attinte dalla realtà, da questa vita avara di gioia., da questa Parigi di cui ho respirato l’angoscia, la fame, persino il buio. Basterebbe più luce, forse.

Il tetto scuro del cielo punto di stelle, riflesso nel fiume che scorre ai miei piedi, dà l’impressione che il mondo sia capovolto.

Un giorno e la mia vita è capovolta. E perché? In un gioco di specchi deformanti, nel fiume vedo riflessa me stessa, quella che sono stata, quella che sarò. Proietto me stessa nel passato, nel futuro, perché non ci sia un presente da affrontare. Un po’ come il viaggiatore, felice solo quando è in strada, né in un posto, né in un altro. Sono ovunque, e in nessun luogo.

Sembra lontano il pomeriggio nella casa del custode, una parte di me vorrebbe solo confonderlo nei ricordi chiusi dentro, ma so che non ce la farò, e che prima poi dovrò affrontarti. Chissà che idea ti sarai fatto di me, e mi vergogno di me stessa. Me l’hai detto che mi sono comportata come una cortigiana, e certo non era un complimento.

Il vecchio è sporco, esala un sapore aspro, come le strade di Parigi immerse nella fitta caligine della notte, paesaggio surreale che si disegna davanti ai miei occhi. Alla mia destra svetta il campanile di Notre Dame, al centro dell’Ile de la cité, il cuore di Parigi. Quanti vicoli che corrono qui intorno… vorrei perdermici in questo dedalo di strade.

E non ritrovarmi mai più.

 

Ascoltare la vita che freme dietro questi muri, quella che bussa in punta di piedi all’alba per sgattaiolare indisturbata al tramonto dietro il sole che si nasconde tra le colline, non quella che ti esplode dentro, all’improvviso, e tu non sai che fartene.

 

Una vita qualunque, pur di non ritrovarmi. Questo vecchio attende che io parli. Confidarsi con un estraneo per districare la coscienza. Non hai niente da temere.

Le labbra si muovono prima che coordini i pensieri. All’inizio sembra difficile, poi le parole scivolano nel silenzio, tra il cielo ed il fiume.

Sospese nella notte, le frasi scorrono inciampando tra le labbra impastate di alcool, la mia voce  giunge sommessa, sconosciuta, scende nell’anima, per disperdersi nelle ombre.

 

 

“ Voglio raccontarvela una storia, una di quelle che tra qualche tempo assumerà la sfumatura sbiadita di ricordo, di già detto, o di già sentito. E’ una storia come tante, forse più strana, dai colori indefiniti. O forse no.

 

E’ la storia di una donna che corre, lotta, soffre, vive perché la vita è lì, a portata di mano, e le sembra giusto gettarsi nel vortice di giornate uguali, scandite solo dai colori sgargianti di abiti di seta, gioielli, uniformi. Le sembra di afferrarla per le braccia, quella vita, e di scuoterla  sottomettendola a sé ogni volta che, galoppando sfrenatamente, disperde i pensieri sfidando giorni troppo uguali tra loro per poter costituire un ricordo vero che non sia quello di un minuetto di corte.

Sì, si sente libera!

Libera perché una voce le ha detto un giorno che la vera libertà è ricchezza e potere, carriera, rispetto, l’ammirazione di un giovane re e di una regina bella e bionda, come quella delle favole.

Orgoglio e fierezza, bellezza e nobiltà, notti e giorni uguali, di risa e giochi, come il turbine di colori di quei sogni variopinti che appena svegli ci lasciano fiele in bocca. La vita come un bel gioco, è il sussurro che l’accompagna.

Una favola senza tempo, una giostra eterna al riparo dalle miserie della vita. Una bambina in una culla rosa e dorata. Nata in un castello, bella e bionda, ricca e nobile. Persino il re sfida un giorno, perché lei non teme nessuno.

Una vita a colori, ricorda quella voce lontana, in un sogno, che gliel’ha detto, ma non ne è certa perché sono tante le cose che le sono state dette. Cose importanti. Ma se sono così importanti  perché la memoria la tradisce?

Continua a stringere il frustino nelle mani per piegare gli anni e i giorni che accompagnano silenziosi la sua solitudine. Si nasconde dietro una suonata al pianoforte e dietro un bicchiere di vino in compagnia del suo migliore amico.

 

Non lo sa che la fata cattiva della favola la osserva perché ignora cosa sia il male.

Sono le parole e le risate di André che le danno la forza di alzarsi al mattino per andare a comandare i suoi soldati, per combattere la malinconia, spessa come un alone nero, che sfuma la sua vita dorata, nei momenti più impensati. Questo non le è mai stato detto da nessuno.

Non rientra negli insegnamenti dell’accademia militare e nelle esercitazioni con spada e pistola.

Per questo non lo sa. Non può saperlo. Ma sa che gli vuole bene, perché i suoi occhi sono un chiarore verde in quell’oscurità che, spandendosi intorno a lei la notte, le ha sempre fatto paura.

Il passare del tempo aumenta la sua fama, potrebbe vantarsi delle imprese più eroiche: ha salvato la vita alla regina, e non solo.

 

Ma la fata crudele dice basta e sguinzaglia i suoi demoni a caccia della donna.

 

La fanciulla capisce che i colori cominciano a cambiare quando uno straniero alto e bello non la tratta con la deferenza a cui è abituata.

Non può comprendere perché una giovane principessa ridente, in maschera, possa superarla in qualcosa! Lei che guida eserciti, va in missione, riceve incarichi delicati! Eppure questa volta prova un senso di sconfitta. Strano, dal momento che vorrebbe essere considerata un uomo a tutti gli effetti, perché è stata educata come tale. Lei vorrebbe essere un uomo e finora è stata fiera di esserlo per tutti.

Ma quella sera che si trova davanti al bel conte straniero vorrebbe non essere scambiata per un maschio. Certo, non desidera l’inchino come si fa con le dame, ma desidererebbe che non fosse stato così sicuro nel rivolgersi a lei chiamandola “signore”.

Qualcosa rabbuia la luce.

I colori sfavillanti di Versailles cominciano ad infastidirla.

A completare il disagio si aggiunge la scoperta di esseri umani che non sono come lei. Vestiti di stracci grigi. Chissà perché sente che tutto quel grigio la mette a disagio, non ci è abituata, che

gratta la pelle per defluire nell’anima senza che si possa fare niente per scrollarselo di dosso.

Ha fatto l’elemosina ad una ragazzetta bionda che la implorata di scoparsela in cambio di quattro soldi, evidentemente la piccola aspirante meretrice non ha capito che lei è una donna!

Come!?

Se lei vive da uomo perché non può scoparsi una donna come fanno tutti gli uomini?

Che ne sa lei di cosa sia una donna, un uomo? Non sono uguali, gli esseri umani?

Più comodo non pensare, simulando di riflettere sulla vita, raccogliendola in fondo ai suoi occhi fiordaliso, belli, tristi. Sa che i suoi occhi sono così, gliel’ha detto un giorno André, quel giorno che lei decise di vivere come un uomo, per stare insieme a lui, ma allora non l’aveva capito. Non aveva fatto questa scelta per paura di suo padre, né per qualcun altro. Solo per loro due. Per incrociare le lame, per ammirare le cime dei monti incoronate dell’oro rosso del tramonto, i lampi viola che squarciano il buio, perché i suoi occhi verdi danno una luce diversa al mondo, a quel grigio, quel nero, che si accalca all’orizzonte. E’ come un filtro, pensa lei, lo sguardo di André, che mi consente di guardare il mondo senza restarne accecata.

Lei lo osserva di nascosto quando lui osserva lei di nascosto. Giocano al gatto e al topo, senza che nessuno si esponga ad assumere l’uno o l’altro ruolo, perché in fondo la vita è ancora un bel gioco.

Ad essere sinceri lei lo guarda spesso, per curiosità. La infastidisce notare che è alto e muscoloso, e che è più forte di lei.

Almeno così sembra quando sono vicini, anche se lei preferisce osservarlo da lontano, dove le distanze sembrano annullarsi.

Un giorno si accorge che i colori si appannano.

Scopre che la gentilezza delle persone è ipocrisia, che l’ambizione comincia a divorarle l’anima, che il coraggio è un tappabuchi per sconfiggere la solitudine di certe giornate. Si accorge che forse Andrè è più coraggioso di lei. Lui quando è sconfitto al duello – e questo accade sempre - pare non dispiacersene.

Vuole proteggere la regina dallo scandalo provocato dall’amicizia stretta col conte di Fersen, invitando questi a lasciare la Francia. Il conte le chiede se non si è mai sentita sola o a disagio nella sua vita. Gli dice di no, è stata educata per prendere un giorno il posto del generale Jarjayes suo padre. Per Oscar questa è una ragione valida alla sua esistenza. E la sua vita è restata sospesa, quel giorno, a quelle parole: “sono stata allevata per prendere il posto di mio padre”.

 

Per giustificare a suo padre la sua venuta al mondo. Come se il diritto di vivere fosse un premio da meritare, svendendo l’anima.

Il corso della vita si è arrestato per tornare a scorrere, oggi.

 

Lo sguardo di Andrè, sussurro impalpabile tra le menzogne inchiodate al cuore, mi dice qualcosa, e io relego in fondo al cuore quella luce, quella promessa di vita. Sento la sua voce che mi cerca, mi chiama, mi conduce ai suoi occhi. Le rispondo che forse è tardi, che quell’eco si è affievolita, che non ce la posso fare.

 E quel giorno che una di quelle luci verdi si è spenta per sempre, spezzata da un colpo di spada, è come se la vita avesse perso i colori, e ora annego nella nebbia grigia, che da bambina vedevo apparire in incubi notturni, avvolta in spirali gelide intorno al mio corpo.

 

La mia vita è più fredda, dopo che ho conosciuto il tepore.

 

Un giorno di venti anni fa mi hanno presentato gli idoli che avrei venerato, adepta volontaria, e a cui mi sono assuefatta, carceriera di me stessa. Ma poi ho cominciato a pensare, sono uscita sconfitta dal confronto con donne ed uomini, scoprendo che mi ha fatto comodo essere né l’una né l’altro.

Il purgatorio dell’anima.

E so che dovrei dire basta, ora che quella Oscar sparita dentro l’uniforme è tornata.

Se avrà il coraggio di restare.”

 

A fatica striscio con la schiena contro il muro, facendo forza sulle gambe, le dita umide che annaspano contro sporgenze scivolose del pilastro. Un ultimo sguardo al vecchio, poi mi avvicino al fiume immergendo le dita nell’acqua che scorre sotto di me, vorticosa e ribollente di sporco. Avverto la corrente che sfiora le mani, bagnando viso e polsi riesco a reagire al torpore impossessatosi di me poco fa.

“Buonanotte”, mormoro al vecchio, incamminandomi, scuotendo le dita verso terra per asciugarle.

 

“Vi state sbagliando, è quasi giorno. E’ giorno, ormai. E avete dimenticato queste”. Mi prende una mano tra le sue, avverto un brivido, è il freddo del metallo delle monete impresso sul palmo. Guardo il vecchio, senza riuscire a vederlo, a scorgerne il volto.

Sento i suoi occhi dentro la pelle, non mi volto. Non posso voltarmi indietro.

 

Slego César, afferrandolo per le redini, dirigendomi a passo malfermo in caserma. Ma non ho nessuna voglia di trovarmi in un posto.

 

Vagare, così, senza meta, seguendo il respiro del vento.

 

Un suono di violino, nella notte, sprigiona note struggenti, avvolgendo sagome di alcuni ubriachi che incrocio sul mio cammino, ballonzolando come marionette, avanti e dietro, a destra, a sinistra, attraversando i crocicchi tra strade principali e secondarie. Figure spettrali che sorridono, senza denti e senz’anima, creature di carne e sangue, trascinati nella notte, come manichini, da una forza motrice invisibile. Una carrozza cigolante ondeggia fermandosi bruscamente, la portiera è aperta da una mano guantata di nero e una donna viene spinta con malgarbo lungo il predellino finendo a terra in un cumulo di stoffe. Fa scudo a se stessa con i palmi delle mani incollati al suolo, istintivamente. Mi affretto al suo fianco per tenderle la mia mano.

 

“Signora, vi siete fatta male?”. Afferra le mie dita, alzando due occhi che brillano come diamanti neri alla luce della luna. Forse, a questa donna che mi sta di fronte, sembro anch’io una creatura di cera, una comparsa dal sorriso fatuo incollato sul viso. Sono una comparsa della notte, anch’io, sul palcoscenico della strada, figura rigida, falsa, di uno spettacolo miserabile, portatrice di finzione io stessa.

 

“Allora, vi siete ferita?”. Ripeto lentamente la domanda, sembra assente, oppure è solo stordita.

 

“No, grazie. Sto bene. E’ solo un graffio.” Si massaggia i polsi con dita sottili.

 

“Mi sembra di conoscervi, signora. Siete per caso Marguerite de La Tour?”

 

“Lo ero prima di sposarmi col conte di Villers- Cotteret. Ma come fate a saperlo?”

 

“Voi siete stata amica di mia sorella, Clotilde de Jarjayes. Io sono la sorella minore, Oscar, e abbiamo avuto l’onore di avervi ospite in casa nostra, molto tempo fa”. Lo sguardo le si illumina.

 

“Oscar! La sorella allevata come un maschio! Sì, mi ricordo benissimo di voi. Perdonatemi se non vi ho riconosciuto subito. E’ che… la mia serata non è stata delle migliori.”

 

“Siete sicura di stare bene? Siete molto pallida. E poi perché vi hanno riservato un trattamento così offensivo? Il vostro accompagnatore non si può definire certo un gentiluomo.”

 

“Se è per questo, aveva una compagna degna. In ogni caso, scusate, Oscar, preferirei non parlarne”.

 

“Dove abitate? Vi accompagno a casa”.

 

“Vi ringrazio, non è necessario.”

 

“Insisto. Non è prudente girare da sola per Parigi, a quest’ora di notte”.

 

“E voi, allora? Non siete donna anche voi, Oscar?”

 

“Allora, andiamo, madame?”. Le porgo il braccio, non lasciandole alcuna possibilità di sottrarsi al  mio invito, che sa un po’ troppo di ordine. E’ molto bella.

Comincia la nostra passeggiata silenziosa, verso casa sua. Che serata… Esco per dimenticarti e mi ritrovo a fare da accompagnatrice a questa donna che conoscevo tempo fa, di cui ora ignoro tutto. La solitudine crea strane complicità. Avanziamo silenziose tra fili sottili di nebbia, come su un palcoscenico deserto spalancato all’infinito, protratto nel buio. Ha mani morbide ed affusolate, appoggiate con eleganza al mio braccio. La lieve stretta delle dita mi comunica un senso di pace. Cèsar ci segue silenzioso, quasi intimidito dalla presenza di quest’estranea.

Ci inoltriamo nel dedalo di strade che si diramano da Place de Greve verso il lungosenna Lanvin, in direzione del suo palazzo. Una strano buio aleggia intorno a noi.

Sono tenebra anch’io.

 

 

Il cielo ad oriente è rosa, una tenda di luce dolce spalancata sull’azzurro polveroso del cielo all’alba. Sono queste le ore che preferisco, giorno che non è luce, notte che non è tenebra. E’ l’ora del risveglio, quando la vita bussa piano alla porta, e tu l’accogli, ma non sai come. Poi decidi che improvviserai, fingendo che quello che la tua mente plasma nel buio della notte sia quello che volevi.

Il gioco deve continuare. Lo spettacolo ricomincia.

Sono tornata in caserma tardi, quando albeggiava, dopo aver accompagnato Marguerite a casa sua.

Non credevo che fosse in condizioni economiche così precarie. E’ una donna dallo sguardo intenso, bruciante, e le sue pupille di oro nero hanno risposto in severo silenzio ad ogni mia domanda.

Non le ho chiesto perché sia stata spinta fuori da una carrozza ad un’ora in cui le nobildonne se ne stanno a dormire, a casa loro. E poi la sua casa m’è sembrata deserta, fatta eccezione per la vecchia cameriera che ci ha aperto. Deve essere abituata a uscire la notte, perché l’anziana Pauline non le ha chiesto spiegazioni sul ritardo, o presunto tale, dovrei dire. Lasciata dal marito, piena di debiti, con una bimba morta di vaiolo. No, non ha avuto vita facile, nemmeno lei. Si stordisce partecipando a feste, frequentando chissà chi. E da quello che ho notato non è gente per bene. Mi ha promesso che questa sera verrà a trovare Clotilde, che non vede da tempo. Mi sono offerta di metterle a disposizione la mia carrozza, ma si è rifiutata. Ho insistito perché resti a cena da noi, in fondo abbiamo molto tempo da recuperare, e mi è parsa lieta di quest’invito.

 

“Colonnello de Jarjayes, se volete potete andare. Vi faccio sostituire. Tornate a casa, siete stanca, è evidente. Pensate solo a vostro padre”.

 

Il colonnello d’Aguille mi guarda con i suoi grigi occhi malinconici, velati di dolcezza. Sento di volergli bene, pur conoscendolo da poco. Mi osserva ancora un po’, mentre volgo il mio sguardo in direzione della finestra e, con la coda dell’occhio, mi accorgo che è in attesa di risposta.

“Vi ringrazio colonnello, ma non è necessario. Sto bene. Piuttosto vorrei effettuare una comunicazione di servizio. Quest’oggi il soldato Grandier è in licenza. E’ tutto. Potete andare”.

“Colonnello, il soldato Grandier è in servizio dall’alba ed è stato assegnato, dal vicecomandante, al drappello di soldati che effettuerà la ronda presso il mercato generale di Place Saint Germaine l’Auxerrois. Come saprete certamente, è una zona calda e frequentata dai ribelli. Posso ordinare  ai vostri uomini di tenersi pronti sulla piazza d’armi per ricevere i vostri ordini?”.

 

“Colonnello Jarjayes, vi sentite bene?”

 

“Sì, sì, è tutto a posto, colonnello d’Aguille. Scusate, ero distratta. Impartite ai miei uomini l’ordine di farsi trovare schierati tra dieci minuti. E fate venire il soldato Grandier, subito, per favore!”

“Agli ordini!”. Saluto militare con voce secca, tacchi che sbattono, porta che si chiude.

Pochi istanti e l’ordine si inverte: porta che si apre, tacchi, saluto militare di una voce conosciuta.

“Agli ordini, comandante!”.

“And… che ci fai qui Alain? Avevo chiesto di vedere And… il soldato Grandier”.

“Comandante, André Grandier è nell’ufficio del colonnello Goriot. Stanno inventariando la fornitura d’armi consegnata stamattina. Siete stata assente ieri e forse ignorate che i soldati della guardia hanno ricevuto, per ordine diretto del generale Bouillet, un equipaggiamento supplementare, a cagione del recente incremento dei rischi durante le missioni di pattugliamento e sorveglianza delle zone calde di Parigi. Comunque, se volete, dirò al soldato Grandier di raggiungervi nel vostro ufficio”.

“Non fa niente, ti ringrazio Alain. Non è una cosa importante. Ora puoi andare”.

“Bene. Agli ordini comandante. Scusate se mi permetto ma, ho saputo del ferimento del generale vostro padre e vorrei chiedervi come sta.”

“Grazie Alain, sta meglio. Ora vai.”

“Agli ordini. Buona giornata.”

Mi dirigo verso l’ufficio del colonnello Goriot, capo dell’unità di milizia B.

“Colonnello Jarjayes! Come mai qui? Credevo foste in procinto di recarvi coi vostri uomini a Saint Germaine l’ Auxerrois. Ci sono stati segnalati dei disordini.”

“Colonnello Goriot, devo parlare col soldato Grandier. Mi è stato riferito che è impegnato in operazioni di inventario di nuove armi presso il vostro ufficio”.

“Lo faccio subito chiamare. E’ nella camera a sinistra. Potete attenderlo qui, se preferite.”

“Ditegli che lo attendo in cortile, davanti alle dispense. Grazie.”

“Bene, comandante. Buongiorno.”

Fuori, nel cortile, osservo drappelli di soldati prossimi alla pattuglia, altri che si apprestano ad andare in licenza, altri ancora che vanno ad allenarsi al poligono di tiro. Frammenti di umanità racchiusi in queste mura. Strana, questa impressione di dover far passare il tempo, come nell’anticamera di un medico. Non avrei pazienza di attendere nel mio ufficio, seduta tranquillamente in poltrona, dando un’occhiata svogliata alle carte che si accumulano sullo scrittoio. Non ne ho la testa. Sono in attesa di un avvenimento, di qualcosa di bello al punto da risultare intollerabilmente dolce. Almeno per me, che non sono abituata alla dolcezza. Il giorno appena trascorso insieme a te, dentro me stessa, la notte fumosa di cui i miei occhi, gonfi ed opachi, conservano traccia, il fatto di non aver mangiato nulla da non so quanto tempo, tutto contribuisce a questo latente respiro di vita che si è impadronito di me. Mi sembra di essere sulle soglie di una nuova fase e, nello stesso tempo, tutto mi sembra vecchio e più grande di me. Caserma, soldati, Parigi che affonda nel dolore. La ragazza che ieri si è tolta l’ uniforme per capire che è viva, che anche lei contribuisce al miserabile spettacolo della vita che si snoda in questi giorni primaverili, l’ho lasciata da qualche parte dentro di me. Il comandante Oscar con la sua uniforme è seduta su questa panca di pietra, dove attendono solitamente i familiari dei soldati che vengono in visita ai loro cari. Anche io attendo, in silenzio, col vento in viso.

Attendo che la vita mi trascini con sé, corrente che rompe gli argini, dopo che ieri l’ho afferrata e l’ho lasciata andare via, in silenzio. Aveva ragione, il vecchio suonatore di fisarmonica.

 

“Non hai mantenuto la promessa”.

“André?”.

“Buongiorno”.

“Buon…buongiorno. Non ti ho sentito arrivare”. Che sciocca. Rimanere sorpresa quando sono stata io a ordinarti di venire qui.

“Agli ordini. Cosa desiderate?”.

“André…”

“Comandante, sono qui per esaudire i vostri desideri. Di qualsiasi tipo.”

Beffardo. Hai uno sguardo beffardo. Vuoi giocare. Ma ti avviso, non sarà facile.

“Nulla. Volevo dirti che ti concedo una licenza di tre giorni, in fondo te la sei meritata, è da tempo che volevo farlo... potresti approfittarne per andare ad Arras, desideravi recartici, oppure semplicemente potrai riposarti a casa. Da domani sei in licenza. E’ tutto”.

Mi appresto a ritornare in ufficio, il sole accecante è una buona scusa per non guardarti in viso. Ad un tratto mi sento afferrare per la vita da mani di cui dovrei conoscere la stretta, terribile e dolce, ed inchiodare contro il muro che separa parzialmente il cortile dal porticato interno che corre tutt’intorno all’edificio. Stretta al tuo corpo, le mie mani sulle tue spalle, la tua rabbia nel mio sangue, sì, anche questa è la vita, questa gioia, questa paura, questo dolore che mi trafigge.

La vita che sale lenta, dal sangue, dal taglio nel cuore, e mi dà ebbrezza, e dolore. Ma almeno lo so di esistere.

 

 Non ho paura, siamo in caserma, ci sono persone intorno, cosa potresti farmi? Cosa vorrei che tu ne facessi di me?

Cominci a baciarmi. Apro gli occhi e vedo, sopra di noi, uno scampolo di sole occhieggiare tra nubi sfumate di giallo. Affamato, continui a baciarmi, quasi con disperazione, mormorando il mio nome, mentre sento la tua lingua calda esplorare la mia bocca, assaporarne ogni angolo. Ogni tanto apro gli occhi su raggi liquidi che scivolano tra orli di nubi mutevoli, e intorno a noi la caserma, coi suoi muri di pietra vecchia, il suo odore di miseria, i colori sbiaditi.

Sono calma. D’un tratto ti fermi, mi scosti da te, ma continui a bloccare le mie braccia tra le tue mani.

“Avevo ragione. E’ tardi, Oscar. Tu non mi ami. Sono io che ho scambiato un fremito di passione per amore. Sono io, solo io, Oscar. Credevo che ieri avesse un significato, invece mi accorgo che fuggi, che guardi lontano da noi. Dimentichiamo quello che è successo, quello che ti ho detto. Non ti importunerò più.”

 

Parole.

La realtà, di fronte alla quale bruscamente mi riporti, André, e sento un freddo dentro, mi assale un terrore ignoto, il cuore sobbalza in petto perché ora ti sei appoggiato al muro, inerte, le mani a sorreggere la testa,  le dita passate tra i capelli. Ti voglio bene. Ti voglio bene.

“No, André. Non è tardi, te lo giuro”. Protesto, scuotendomi dal mio torpore, venendoti accanto per accarezzarti i capelli. Vorrei stringerti, mi limito a sfiorarti con i polpastrelli il collo, fino a risalire alle tue guance pallide. Le tue dita che scivolano verso le mie, intrecciandosi in un dialogo muto, perché è solo questo che posso darti adesso, amore. Solo questo.

“André… non devi dire questo. Non hai capito: credi che sarei stata capace di stare con te senza provare nulla? E’ che… sono confusa, smarrita… quando mi hai baciata, poco fa, ero scossa, come intontita. Non ho sentito più nulla, non riuscivo ad esprimermi.”

“Perché? Perché Oscar? Ieri abbiamo fatto l’amore e oggi sei silenziosa per un bacio… E’ strano, davvero. Non credi che avremmo bisogno di parlare? Che ne diresti di andare un po’ in giro stasera, noi due soli? Ho voglia di stare con te, non sai quanto.”

 

Non guardarmi con questi occhi, non posso ricambiare l’amore che mi dai, quello che trovi il coraggio di mostrare. Sei molto più forte di me, che cammino all’ombra della notte, nella consapevolezza di essere viva, per non riuscire poi a vivere. Un dolore insopportabile, quello che ti costringe a sigillare frasi in gola, con ogni parola misurata, pesata, analizzata, e archiviata. Le parole non possono essere dettate dal cuore, me lo diceva sempre mio padre. “Prima di esprimere una tua opinione, pensaci parecchie volte”: è questo quello che ricordo maggiormente delle conversazioni con lui. Ne ho tante di parole qui dentro, chiuse, legate a catene di ferro infinite. Quelle parole che ho imparato a dominare, anche se con te non ne sono mai serviti, i dialoghi. Ancora adesso sento che potremmo stare in silenzio. Ascoltare il mare, in Normandia, che si infrange, qua e là, tra gettate di pietre sulla spiaggia, i gabbiani contro il sole. Dio mio, come vorrei essere lì, con te.

Le tue dita sfiorano la mia fronte, imprimendovi carezze ruvide, di quelle che fanno male, piene di dolce dolore. E tu sai che non riuscirai a sollevare le mani per contraccambiare, che lasci ancora che i demoni allontanino le mani da lui, per posarle lungo l’elsa della spada.

Sai che ti allontanerai, che lui ti guarderà, ancora, con quell’amore infinito che senti effondere tra mille pieghe nascoste in te, e non vuoi vedere, fai finta che non ci sia, ma sai che è lì, sarà con te, per sempre, quando gli anni avranno inciso solchi di dolore sul tuo viso, che allora sarà come il cuore. Perché il tuo cuore è sempre stato vecchio, senza conoscere la gioia, non è invecchiato, non è stato giovane. E’ lì, da trent’anni.

E quel silenzio che ieri hai accolto, non sai più se si perderà o se lo farai tuo, per non lasciarlo mai più. Programmare la prossima mossa, è quella la cosa più difficile.

 

Come i giocatori, hai le carte per vincere in mano, ma non sai come giocarle.

 

E ti guardi intorno, scrutando volti di avversari che vorresti conoscere, eppure non hanno un viso, né un nome, perché tu hai voluto crearli, perché non puoi fare a meno di loro, perché sono la tua croce, e il tuo volere.

Perché senza quei nemici, quei demoni, non ci sarà nessuno a cui aggrapparti, nel giorno in cui ti guarderai indietro e ti maledirai per averla gettata via, la tua vita. O quella che ne resta.

 

“Non hai niente da dirmi?”. La tua voce. Non la ricordavo così dolente, incerta, così bella.

 

E’ un balsamo sul veleno che circola nel sangue, alimentato da me stessa. Sono io il mio demone.

Ora lo so. Ho combattuto nemici reali,  quello vero era qui dentro.

 

“André… stasera vorrei restare a casa, stare un po’ con mio padre, ieri non l’ho visto, se non per pochissimo. Sono certa che mi comprendi. E poi ci sono ospiti, una vecchia amica di famiglia che non vedevamo da anni. Dal momento che sono stata io ad invitarla, non sta bene che poi non mi faccia trovare in casa. Ti prometto che domani sera ci vedremo, noi due soli”.

“Giuralo”.

 

“Te lo giuro, André”.

 

“Non hai mai tradito la parola data. Aspetterò”.

 

“Bene, adesso dobbiamo sbrigarci. Stasera verrai a casa?”.

 

“Se me lo chiedi, verrei all’inferno, con te”.

 

Prendi la mia mano tra le tue, te la porti sul petto, il cuore ti batte forte. Sfioro il tuo petto fino alla vita, lascio un ultimo sguardo nei tuoi occhi.

Rientriamo in caserma, io nel mio ufficio colmo di fogli, tu nella camera degli inventari.

E’ meglio non vederci, per oggi.

 

                                                                            ***

“Vi sentite meglio, padre? Ieri vi ho visto per poco tempo, oggi vorrei stare qui con voi, se vi fa piacere. Potrei leggervi qualcosa”.

“Sto meglio, grazie, Oscar. Non preoccuparti per ieri, ho dormito per tutto il giorno. Sarà un effetto del laudano, oggi in compenso mi sento sveglio come un grillo”. Risata, suono insolito, che esce dalle vostre labbra.

“Sono davvero felice che vi sentiate meglio, padre. Posso fare qualcosa per voi?”.

“Ti ringrazio, cara, mi fa piacere parlare con te. Capita sempre più di rado, purtroppo. Come va in caserma? I soldati sono più docili, adesso che hanno conosciuto il tuo valore?”.

“Non dovete preoccuparvi, sono felice di essere tra di loro. Devo conquistarmi a fatica la loro stima, giorno per giorno, ma va bene così. In fondo sono un soldato, devo lottare”.

“Oscar, so bene quanto tu valga. Ti avevo addestrato per anni per sentirti dire queste parole e, adesso che le pronunci, non sono sicuro di essere orgoglioso del fatto che tu parli così.

Oscar, io vorrei che tu fossi felice, che vivessi come una donna, che trovassi un compagno degno di te. Sono davvero pentito. Perdonami, figlia mia”. Una lacrima che scivola dal vostro volto, così simile al mio. Vi ho guardato così di rado, padre, per non vedere sul vostro volto le tracce del tempo scorrere silenziose, per non sapere come sarò io, alla vostra età. Sapete, non riesco ad immaginarmi vecchia, non so pensare a come sarò tra venti anni. Vecchia, poi! Se mi sentisse Nanny!

“Padre, sono una donna. Mi sono innamorata, come tutte le donne. Davvero, non avete nulla da rimproverarvi”. Mi guardate sorpreso, sollevando il volto. Restiamo in silenzio, ascoltando i rumori della casa all’avvicinarsi della sera.

Mi chiedete quali siano stati i miei impegni, oggi. Rispondo cercando di rendere interessanti le mie ore, pescando dalla mente particolari che possano farvi piacere. Non credevo di essere così brava a recitare.

                                                                             

                                                                        ***

 

La sala da pranzo, illuminata dalla luce soffusa delle candele, cornici dorate appese lungo le pareti, specchi ovali che riflettono la fiamma del camino di marmo. Alte finestre drappeggiate da tende rosse. Osservo Clotilde conversare, leggera, con Marguerite.

 

“Madamigella Oscar, un ospite per voi. Vi attende nello studio”.

pubblicazione sul sito Little Corner del giugno 2004

 

 

Continua

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(*) E’ il verso di una poesia di Walt  Whitman attorno al cui significato si snoda la vicenda narrata ne “L’attimo fuggente”.