Davanti alla porta del destino

parte quarta

 

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La notte è trascorsa irrequieta.

A tratti mi pareva di sognare, altre volte credevo di essere sveglia, ma quando il chiarore grigiastro di quest’alba ha spezzato le tenebre insinuandosi attraverso i vetri sono stata felice di ritrovarmi nella mia stanza.

 

 

Ho sognato di aggirarmi per Versailles, ma non era il solito edificio contornato dal parco rigoglioso che ben conosco. Notavo sulla facciata le finestre spalancarsi come occhiaie vuote su un’oscurità inquietante come i cumuli di tronchi spezzati ammonticchiati sui viali tra aiuole desolate.

Ero sola, sembrava che ogni presenza umana fosse stata risucchiata da poteri misteriosi che non avevano cancellato però i resti della reggia, avvolti da una nebbia penetrante e densa fluttuante in fitte, viscide, lingue biancastre.

Entrando nell’atrio dell’edificio centrale gli occhi si sono soffermati su imponenti statue di marmo alla basa della scalinata, decapitate e prive degli arti. Avevo freddo e cercavo qualcosa... qualcosa che avevo perso e il cui ritrovamento era indispensabile alla mia sopravvivenza.

Riuscivo solo a percepire una voce impalpabile come il suono di un violino risalente dai corridoi, forse solo un riflesso del desiderio di catturare un qualsiasi rumore che riuscisse ad attenuare il mio profondo disagio. Tele squarciate penzolanti dalle cornici poste sopra la boiserie nera come il resto della tappezzeria, ridotta a brandelli, rendevano soffocante l’aria intorno, una melodia lontana che si è diffusa nel salone accrescendo la mia angoscia.

Trasalivo nell’avvertire passi di cui non intuivo la provenienza, quando una figura umana si è materializzata, ma non sono riuscita a vederne il volto. Nel prendermi la mano, le mie pene sono svanite al contatto di quel palmo tiepido, ed ho pensato che è stato quel calore a salvarmi.

 

     *****

 

E’ freddo e grumoso il cioccolato stamattina, non è il solito che prepara la mia governante.

Non ci ha messo la cura consueta prestata a tutto ciò che mi riguarda. Sta arrivando la primavera, il giardino sta perdendo finalmente quell’aria spettrale dei giorni scorsi.

“Posso chiederti una cosa, Oscar?”

“Ma certo“ rispondo mentre poso la tazza e credo di saperla la risposta.

“Sai dov’è André? Sono tre giorni e tre notti che manca da casa. Se sai qualcosa devi dirmela.”

 

Un’eco di sottile rimprovero nella voce di Nanny. Anche per lei sono colpevole.

 

“Certo che lo so. Si è arruolato tra i Soldati della guardia.“

“Cosa? Ma perché ha fatto una cosa del genere?”

 

Taccio, come quando da piccola credevo di farla franca prevenendo i rimproveri con sguardi di ghiaccio. Ma la mia anziana governante non desiste seguendomi fino alla porta di casa. Non l’inganno più. Non ho mai ingannato nessuno in vita mia.

“Non devi preoccuparti per noi, André ed io non siamo più dei bambini“, le dico spronando al galoppo il mio cavallo.

 

E’ più nervoso del solito César.

 

André ed io.

 

Credevo che questi nomi ormai appartenessero ad un’incisione scavata nel legno di una stalla coi coltellini da due bambini annoiati dai giochi soliti, o dovrei dire insoliti.

Te li ho fatti notare nel pomeriggio che precedeva la notte che ci scoprimmo uomo e donna.

 

Sono impressi in noi quei nomi.

 

Mi hanno fatto il primo “regalo”, i miei soldati oggi. Non erano presenti alla parata in mio onore, l’ho saputo da te che non intendono accettare ordini da una donna. L’ho visto il tuo sguardo sottilmente compiaciuto quando me l’hai riferito.

Sei contento di riscontrare che mi vedono come una donna. Maledetti bastardi! Farò vedere io di cosa sono capace.

A te ed ai tuoi compagni.

 

 

 

Raggiungo le camerate nonostante il dissenso del colonnello d’Aguille, il mio vice. Ha gli occhi soffusi di malinconia, non so perché ma l’notato. Forse perché da un po’ di tempo ho imparato a guardare negli occhi le persone.

Mi sorge spontanea una risata se penso ai motivi del suo timore da vecchio gentiluomo: una donna che entra in una stanza di uomini potrebbe trovarne di sorprese! Spalanco la porta, avanzo nell’antro e immediatamente un sibilo d’aria mi avverte del pugnale che, descritto il suo percorso aereo, si incunea nella porta.

Penso per un istante che il mio incarico nuovo avrà breve vita, mentre un rivolo di sudore sfugge dalla tempia lungo il collo disperdendosi definitivamente nell’uniforme. Anche il soldato è spaventato e mi chiede scusa.

Mi avvicino con sguardo belluino rinfoderandogli il pugnale nella cintola, chiarendo subito che la prossima volta che li scopro a fare questo gioco li sbatterò in cella per un mese intero.

L’intervento di Alain, capo del branco, non mi calma affatto e mi dichiaro pronta ad accettare qualsiasi sfida a singolar tenzone, possono battersi con me scegliendo spada o pistola.

 

Orgogliosamente esco dalla camerata, sono soddisfatta.

 

Ma incontrando i tuoi occhi mentre avanzo nella polverosa oscurità del corridoio, non lo so se devo essere fiera o se debbo piangere.

 

 

La parata c’è stata poi, perché ho vinto il duello la cui posta in gioco era rappresentata dalla permanenza del mio incarico presso la Guardia parigina.

Ho riportato facilmente la vittoria, però qualcosa turba la gioia di osservare i miei soldati che marciano al passo di parata. Non so cosa sia.

Sembrano uguali i loro volti, i loro corpi stretti nelle divise, ma ognuno mi colpisce per qualcosa. Cerco di seguire con gli occhi il nastro di uniformi blu che scivola sotto il mio sguardo, osservando tutti e nessuno.

 

Come ho sempre fatto nella mia vita.

 

Sembra strano pensare che dietro ogni divisa, più o meno impeccabile, si celi una mente, una vita, un cuore .Mi viene da pensare che anche io forse suscito questi pensieri nella mia truppa, ed è come se per un istante i nostri pensieri si riflettessero.

I pensieri di un comandante e dei suoi sottoposti.

Però i miei soldati forse la conoscono la vita.

 

 

Naturalmente evito di guardare te . Ti ho già fissato troppo ieri.

 

 

     *****

 

 

Sapevo che la calma della settimana scorsa precedeva la tempesta.

Ricordo solo che qualcuno gridava che nell’armeria stavano massacrando André.

Ho cercato di camminare ma ero inchiodata al suolo senza poter avanzare, come in un sogno orrendo.

Ed era troppo tardi quando mi sono risvegliata. Un gruppetto di soldati si è allontanato dall’armeria mentre Alain è entrato a prestarti aiuto. Non volevo entrare.

 

Mi è sembrato di scorgere occhi maligni dai riflessi rossi che si beffavano di me nel corridoio antistante l’armeria.

 

Li ho ignorati e sono entrata senza sapere cosa avrei trovato in quella stanza. Ho provato la stessa sensazione di paurosa vertigine della notte in cui fosti ferito all’occhio da Bernard, solo che questa volta il coraggio di prenderti la mano non l’ho avuto, io.

E’ stato Alain a soccorrerti e ad ascoltare la frase che la tua bocca non avrebbe mai pronunciato se fossi stato cosciente: “Oscar, ti prego, non ti sposare“ ripetendo poi “ti prego“.

Parole spezzate, sussurrate, eppure pareva che tu gridassi. Rumore di parole troppo forti perché le possa ascoltare, André. Non supplicarmi, sono io a pregarti. Non mi amare.

Le lacrime versate nel tuo delirio incosciente, scorse sul pavimento, le sento scorrere ora dentro di me, miste al mio sangue.

 

Le tue lacrime mescolate a quelle che sono scivolate in silenzio dalla mia anima.

 

Alain mi ha scosso dal torpore con parole inesorabili, tra il serio e lo scherzoso: “Credo che vi ami, comandante, sarà meglio che vi occupiate voi di André”.

Uscendo dall’armeria mi punge con un sorrisetto strano, quasi di commiserazione. Ho l’impressione che Alain, o come diavolo si chiama, abbia pena di me!

 

Ma a questo penserò più tardi.

 

Continui a piangere, lo so che questa immagine mi perseguiterà per tutti i giorni della mia vita. Anche io ho pianto nella mia vita.

 

Però le lacrime vere le ho versate una volta sola col tuo corpo che mi schiacciava sul letto, nell’unica volta in cui non hanno rappresentato un comodo paravento per schermare la parte vera di me.

Anche le mie lacrime erano bugie, prima di quella notte.

 

Dopo che il medico ti ha curato mi sono rifugiata nell’ ufficio. Le scartoffie sullo scrittoio sono una consolazione in questo momento e mi accingo a prendere posto sulla sedia, quando mi comunicano che mi attende una persona fuori dalla caserma. Per oggi decido di smettere.

Girodel è venuto a prendermi e i soldati li sento ridacchiare alle mie spalle.Non oso immaginare le loro battute.

In groppa a César mi avvio verso casa, dopo che Girodel mi ha chiesto gentilmente se poteva cavalcare accanto a me. Il mio silenzio gli è parso evidentemente un assenso perché ha affiancato la sua cavalcatura alla mia, aprendomi il suo cuore: mi ha detto di amarmi tanto e di volermi condurre all’altare, aggiungendo che per lui sono stata sempre una donna. Se non fosse per gli obblighi legati alla posizione del suo casato, sarebbe felice di essere il mio servo.

 

Non lo immaginavo che qualcuno ti invidiasse, André. Chissà cosa diresti se lo sapessi.

Ma forse lo sapevi. Hai sempre intuito tutto ciò che mi riguardava, fin da piccolo. Non so poi nei confronti di Fersen cosa tu abbia provato, ma una cosa è certa, che eri sempre con me quando il conte ci onorava della sua presenza. Mi guardavi duellare con lui da un angolo, con sguardi indecifrabili che adesso scopro lucidi di rabbia. Di amore.

Ricordo le sfide lanciate a te dopo che Fersen mi salutava declinando con garbo composto i miei inviti ad intrattenersi per la cena, mentre il sole trascolorava all’orizzonte, invitandoti a raggiungermi nel giardino sul retro con la spada. Ignoro l’effetto delle mie sfide e perché tu accettassi sempre di buon grado, non riuscendo a capire perché fossi così reticente davanti a Fersen per poi sciogliere i tuoi silenzi con me, appena lui si allontanava, con battute al vetriolo.

Quando ti chiese di portarlo nella taverna che frequentavi dicesti che, sì, ci provasse pure ad entrarvi, lasciandomi apposta una curiosità che non mi tolsi la briga di saziare chiedendoti il motivo della tua sarcastica sicurezza. Non volevo darti la soddisfazione di avermi strappato una domanda. Che scemi, orgogliosamente stupidi dei nostri sotterfugi.

 

Perdonami se ti ho usato, se i nostri duelli li affrontavo come se ne andasse della mia vita, ma erano l’unico modo per rimuovere pensieri scomodi. Però sono certa che lo sai bene, André. Sapevi che duellavo con te per soffocare le fitte che mi stringevano il cuore.

 

E tu mi hai sempre assecondato, perché lo sapevi che Fersen me lo avrebbe spezzato.

I tuoi sguardi e le tue parole mi hanno accarezzato sempre quando ci battevamo con la spada.

 

Forse era semplicemente quello che cercavo.

 

Cosa hai provato quando ha soggiornato da noi?

Sapere che dormiva in casa con noi? E quante volte le hai ingoiate le nostre frasi, i nostri falsi discorsi su sciocchezze autentiche? Cosa hai provato quando al mattino presto mi guardavi scendere in giardino per tenergli compagnia mentre accudivi i cavalli nelle stalle? Ci osservavi da lontano camminare tra gli alberi, fermandoci di tanto in tanto a riposare sui bordi delle fontane?

Quanto hai potuto sopportare?

Ma anch’io ho tollerato l’amicizia di un uomo che avrebbe voluto un’altra accanto a sé.

 

Hai vissuto anche la mia vita. Dolori paralleli ed uguali, ma tu li hai vissuti doppiamente.

 

Girodel sarebbe felice di essere il mio servitore, il mio stalliere, se non fosse condizionato dagli obblighi di casta, ribadisce.

 

Lurido bastardo di un damerino! Sono combattuta tra la voglia di dirgli quello che si merita e la mia educazione nobiliare. Prevale l’istinto, al diavolo l’educazione.

 

Gli dico che nessuno ha il diritto di fare simili considerazioni sulla servitù, tantomeno chi dalla vita ha avuto tutto senza alzare un dito.*

 

Le parole di Girodel si disperdono nel vento feroce che avvolge la strada sollevando grappoli di terriccio subito dissolti dalla violenza delle folate.

E’ rosso e pesante questo cielo di aprile, sembra protendersi in un abbraccio con la terra fasciando la campagna di un velo sanguigno, quasi sinistro.

Scorgo un mulino alla mia destra, il mulino dei sogni dove da piccoli venivamo a giocare durante la bella stagione. Le pale funzionano ancora girando su se stesse con il loro moto ordinato, regolare. E’ un paesaggio quasi irreale, rabbrividisco.

Girodel se ne accorge e, galante, mi invita gentilmente ad andare a Parigi a bere qualcosa di caldo per ristorarci. Non ne ho affatto voglia e non mi prendo nemmeno la briga di rispondergli.

Lo lascio parlare unicamente perché il suono della sua voce forse potrebbe distogliermi da altri pensieri.

 

Altre volte, con un altro e per un altro, ha funzionato.

 

Ci provo a concentrarmi sulle sue parole, ma non ci riesco.

Sono passati i tempi in cui una voce mi strappava a pensieri pericolosi.

 

Confessa di avermi sempre trattato come una donna.

Non sei l’unico, dico a me stessa.

 

Invece chi avrei voluto mi vedesse come tale mi ha considerato il suo migliore amico. Fersen, chi lo sa cosa pensi di me!

 

 

 

La vita è un gioco di specchi: amiamo di noi stessi ciò che ci fa comodo e che ci riesce più facile vedere, pretendendo che si apprezzi della nostra essenza ciò che noi crediamo debba essere ammirato, ma in realtà sono gli altri ad osservarci dalla loro visuale.Chissà cosa vedono. Chissà cosa sembro io agli altri, al mondo.

 

Un uomo, una donna, un essere come tanti, o forse un niente con addosso un’uniforme bianca, rossa e poi blu. .Ma non lo saprò mai.

 

Sono il tuo migliore amico, Fersen. Ho amato uno che mi considera il suo migliore amico e sono amata da uno che io consideravo il mio migliore amico. Come un gioco crudele dove nessuno vuole osservarsi attentamente per timore di vedere qualcosa che non ha mai visto ma solo immaginato con gli occhi dell’anima, quelli che non ci deludono mai.

Quelli che nutrono le nostre speranze giorno per giorno sorreggendo il domani.

 

Gli sguardi di odio o di ammirazione delle dame di corte, dei gentiluomini, si confondono con le occhiate sfacciate che mi rivolge di Alain, con l’insolenza stampata nei suoi occhi che si stempera nell’ironia delle sue parole senza malizia alcuna, però. Gli faccio pena, ora ne sono sicura! Gli sguardi dei cortigiani erano puntati sul comandante Oscar, ora questa soldataglia di plotone da quattro soldi scalfisce ogni certezza.

Ma l’apparente durezza di Alain non riesce a celare la sua sensibilità, altrimenti André non gli si sarebbe affezionato.

Sono un giovane colonnello aristocratico che li comanda impartendo ordini di pattuglia, di servizio, di turni di guardia.Uno come tanti, scelto in base alla nobiltà dei natali. Un nobilastro pieno di boria e di soldi che pretende di insegnare la disciplina ad un plotone da poco.

 

Non so, sento che i loro occhi raccontano la vita, quella vera. Mi parlano.

La mia esistenza l’ha letta nei miei occhi una sola persona.

 

 

André, lo so cosa hai visto. Lo sappiamo entrambi.Ti ho punito perché hai guardato dove non avresti dovuto.

 

Girodel vorrebbe una risposta.

 

La sua orazione è stata lunga, ed io penso a te mentre un uomo mi confessa il suo amore.

 

Penso a come eri pallido stasera, stanco. La malinconia dei tuoi occhi cerchiati di insonnia.

Penso che, se mi fossi accanto, ti racconterei della dichiarazione di Girodel e poi, ridendo, ti proporrei una bella sbronza in una taverna. Ma chi lo sa se rideresti stavolta.

Penso che una bella galoppata mi tirerà su. Girodel mi guarda ancora, dice che il mio silenzio è strano, meriterebbe che gli esponessi i miei pensieri.

Borbotto qualcosa tipo un “Credo che sia giusto. Dovete dimenticarmi in fretta”.

 

Corre César, corre attraverso i campi sterminati. La terra nera scorre sotto i suoi zoccoli, il cielo rosso sangue dilegua in un rosa carico che mi riporta alla mente il cielo di quel giorno che decisi di vivere da uomo: ti aggredii perché credevo mi avessi tradito dal momento in cui ascoltai la conversazione tra te e mio padre. Sono salita sul cornicione per spiarti indisturbata, perché dal corridoio mi avreste scoperto.

 

Sulla riva della Senna ti ho provocato invogliandoti ad ottemperare all’accordo col generale in base al quale avresti dovuto convincermi ad indossare un’uniforme, accusandoti di fingere di assecondarmi invece nel mio desiderio di libertà di scelta. Ti ho accusato di fare il doppio gioco.

Ti ho sfidato. E’ tutta la vita che ti sfido. Perché senza i nostri scontri sono vuota.

 

Mi stendo sulla riva del fiume a contemplare acqua e cielo, su cui galleggiano nubi di peltro in un continuo allargarsi e restringersi, rincorrendosi fino a colmare l’orizzonte. Sembrano vivere di forza propria, eppure è il vento a dirigerle, a far assumere loro forme mutevoli.

Quella è la quercia contro cui mi sbattesti con un pugno violento perché non sopportavi che ti accusassi di tradirmi. Non hai mai tollerato che mettessi in dubbio la tua fedeltà. Ed io lo sapevo. Ti ho provocato perché li volevo i tuoi pugni.

 

Pugno su pugno, un colpo dietro l’altro per trovare il coraggio di andare avanti, di scegliere le nostre vite dimenticando la nostra infanzia. Calci su calci per trovare il coraggio di tacere, per diluire nei colpi inferti parole troppo amare per essere pronunciate.

 

Cristo santo, mi sembra di sentirlo quel pugno nel ventre. E le tue nocche sul viso. Siamo crollati a terra dopo esserci colpiti senza misericordia, perché nessuno di noi due si è risparmiato.

Perché sapevamo che la nostra vita stava per cambiare, e quei colpi erano l’addio alla nostra infanzia. Li vorrei ora i tuoi pugni, ma non me li ricordo.

 

Le tue mani emergono da un altro ricordo, più recente. Dolci e cattive. Sei davvero forte.

Me lo dicesti anche tu in quel lontano mattino di venti anni fa, con intento consolatorio, che ero davvero forte.

Che idioti! Due sciocchi che avevano bisogno di credere alle loro bugie.

Ricordo che prendesti la mia mano e mi spiegasti il motivo del tuo silenzio: non ti importava che mio padre ti punisse per la tua disobbedienza, preferivi tacere con me ritenendo giusto che decidessi della mia vita.

E quel calore mi sembra di sentirlo qui sul palmo della mano, tra le dita bagnate che modellano i fili d’erba, dove la tramontana si insinua violenta, ghiacciandole.

 

Il calore del tuo corpo e delle tue mani lo sento, adesso.

 

Girodel mi è sembrato triste oggi. Credo che i suoi sentimenti siano sinceri.

D’altra parte che interesse un uomo avrebbe ad amarmi? Vivo da uomo, sono un militare.

Anche voi Girodel, l’algido, compito colonnello Girodel, avete ceduto alle lusinghe del cuore.

 

Anche gli uomini possono amare.

 

Fersen, non so più nemmeno se ti ho amato davvero. Sono incapace di amare.

 

Comincio a ridere e a piangere. Solo una sciocca poteva innamorarsi di Fersen, un uomo che mi confidava i suoi sentimenti per un’altra. Forse mi faceva comodo.

César mi scruta coi suoi occhietti di pece e poi continua ad abbeverarsi.

Sono stata innamorata di te. E non lo so il perché. Non mi interessa saperlo.

Ti ho visto quel giorno, al ballo in maschera a Parigi, così splendente e sicuro di te nel dichiarare le tue generalità al capitano Oscar che cercava di spegnere un’emozione sconosciuta aggredendoti con la spada e con le parole. Già , mi hai impartito una lezione di galateo nel sostenere che un vero gentiluomo si presenta sempre ai suoi interlocutori! Hai osato ribattere alla mia richiesta.

Credo di essere stata colpita da te perché eri diverso dagli altri uomini che avevo conosciuto fino ad allora. Diverso dal mio più caro amico, diverso dai militari che ho conosciuto, diverso dai miei soldati. Eri bello, forte e dolce allo stesso tempo. Capace di assumere le sembianze dell’eroe di guerra e del messaggero d’amore. I tuoi occhi mi hanno raccontato la forza del coraggio, della disciplina, la passione.

 

Forse ti ho amato perché sei l’uomo che avrei voluto essere.

 

 

In caserma la situazione è più calma perché ora i soldati mi rispettano per le mie doti.

Mi piace conquistarmi giorno per giorno la loro stima, è una sfida piacevole che mi riempie di soddisfazione, pur essendo al corrente del fatto che hanno scritto al generale Bouillé per protestare contro l’incarico di comandarli, e il generale ha convocato mio padre per informarlo della faccenda.

Padre, dovete perdonarmi se ultimamente vi sto deludendo profondamente.

Vi ho persino confessato di non voler sposare Girodel infrangendo tutti i vostri piani matrimoniali. Non voglio sposarmi.

Strano affare il matrimonio. Charlotte de Polignac si è uccisa per non sposarsi, le mie sorelle non vedevano l’ora.

Mi trattate con gentilezza brindando da solo alla mia felicità mentre io continuo a suonare il piano le cui note coprono la vostra voce falsamente lieta nell’augurare qualcosa che sappiamo entrambi non accadrà.

Il vento fa tremare le imposte, è terribilmente fredda la mia casa stasera, è vuota.

 

Sono giorni che non torni qui.

 

Tua nonna è stanca, sta invecchiando. L’altra sera ho chiamato il medico, l’ha trovata affaticata.

Se dovesse morire resteresti solo al mondo.

Mio padre parla troppo sognando un matrimonio sontuoso, sta già programmando gli inviti. Sembra voglia convincersi di qualcosa in cui non crede affatto. Mia madre parla sempre meno. Io non parlo più.

 

     ******

Il turno di guardia è pesante, stasera è peggio del solito. Mi hai inserito nel turno settimanale per impedirmi di ritornare a casa. Ma io so tutto perché mi ha informato mia nonna, arrivando qui in caserma con il pretesto di portarmi delle maglie di lana, lei che non usciva da anni!

Vorresti tenermi all’oscuro della notizia del tuo matrimonio.

Alain mi sprona ad uscire sulla torretta di guardia e saluta un gruppetto di soldati ubriachi fradici che rientrano da una serata di bagordi. Mi salutano con quello che vorrebbe essere un sorriso, perché dal giorno che mi hanno quasi ammazzato di botte tutti mi trattano con rispetto, essendo amico di Alain. Si fermano sotto la torre di guardia, iniziando ad elogiare le prestazioni di una ragazza “nota” per un certo tipo di qualità.

Ignoro i loro discorsi mentre Alain simula un interesse fasullo dipinto sul suo simpatico volto tra uno sbadiglio ed un’occhiata maliziosa. Certo Alain è uno che piace alle donne ma non mi sembra che se ne vada in cerca di avventure. Sono le donne a corrergli dietro, non so più quante siano venute a trovarlo in caserma. Di certo attira per la sua prestanza fisica e per il carattere allegro, solare.

Come ero io prima che la tua pelle cedesse all’assalto delle mie mani.

Il velo scintillante della notte si solleva lentamente, mentre l’alba disegna dolcemente il profilo degli edifici, quando un soldato a cavallo si precipita nel cortile della caserma chiedendo di parlare con urgenza al comandante Jarjayes. Si diffonde presto la notizia che il padre del comandante Oscar è stato gravemente ferito e si teme per la sua vita. Smontando immediatamente dal turno di guardia, avviso Alain che starò fuori per tutto il giorno, evitando di fissarlo negli occhi.

Ormai sta diventando un’abitudine quella di non fissare in volto i miei interlocutori.

Volo a palazzo Jarjayes per prevenire il tuo arrivo e per prepararti al peggio, in caso di morte del generale. Se così fosse non sarai sola, Oscar. Non ti lascio sola.

 

 

 

Questo giorno non finisce più. Ho vissuto sospesa tra mille paure, rimpianti di cose non fatte, non dette, tra feroce angoscia ed un dolce senso di abbandono.

Ora che è sera, finalmente, sento di potermi rilassare.

 

Mio padre è stato raggiunto da un proiettile sparato da un gruppo di facinorosi che probabilmente l’hanno scambiato per il generale Bouillé, sulla cui carrozza viaggiava. Quando sono giunta a palazzo Jarjayes ho scorto alcune carrozze che ho riconosciuto dallo stemma: si tratta di tre delle mie sorelle. Ho pensato al peggio, subito. Smontando da cavallo non riuscivo a piangere, attonita, impietrita. Ho galoppato come se avessi il diavolo alle calcagna, ma non riuscivo a risalire i gradini dell’atrio. Poi ho notato il tuo cavallo legato ad un palo: non lo avevi mai fatto perché ci sono le stalle a tale scopo. Allora ho pensato che non c’era più alcuna possibilità che mio padre fosse vivo, ma sapere che eri lì mi ha dato la forza di entrare in casa, di salire in camera di mio padre e di ricevere da tua nonna la notizia che, per fortuna, la ferita non è stata mortale.

Non lo so perché solo allora sono scoppiata a piangere scivolando in ginocchio sul pavimento, coprendomi gli occhi con la mano. Com’è gelido il marmo, ho pensato.

E quel gelo mi ha invaso.

 

Poi un passo e un soffio di vita che mi ha avvolto.

 

La tua mano si è tesa per porgermi il fazzoletto di batista, morbido e caldo come il tuo sguardo su di me. Ho pensato che quel dolce tepore era lo stesso del mio sogno. Quel calore che mi ha salvato dalle tenebre. Dalla paura. Quando mi hai teso la mano per risollevarmi, conducendomi nell’anticamera, non sono riuscita a rifiutare. Sussurro: “Grazie, André .Ti ringrazio”. Mi hai servito un liquore leggero leggermente intiepidito, informandomi del responso del medico. Nonostante la casa fosse riscaldata ho cominciato a tremare.

 

“Se non hai più bisogno di me Oscar, mi allontanerei per un po’.”

 

Non adesso.

 

Mi piace guardarti…

 

Solo questo mi ricordo, adesso, di aver pensato.

“Vai pure e grazie ancora, André”, ti ho risposto congedandoti. Mi piace ripetere il tuo nome.

Mi piace pensarti.

Quando sei uscito dall’anticamera hai portato via con te il tepore.

 

 

Ora però stanno bussando. Entra André.

 

     *****

Sei sola. Sei ancora sveglia.

Davanti al camino, i bagliori del fuoco acceso illuminano i tuoi occhi. Ti trovo meglio, sei rilassata.

Dovresti riposare di più. Mi inviti a sedermi nella poltrona accanto alla tua, continuando a fissare nel vuoto. Cerchi una risposta.

Cerco di distrarli i tuoi demoni. Vediamo se ci cascano.

 

Omettendo qualsiasi riferimento alla rissa di cui sono stato vittima, attiro la tua attenzione su aneddoti della caserma, su battutacce e pettegolezzi che prendono di mira il colonnello d’Aguille.

Lo chiamano “testa di legno”, mica l’ho capito bene perché, non saprei spiegartelo. Ma tu sembri non accorgerti delle falle del mio racconto e ridi di gusto.

 

“Chissà di me cosa dite!”, mi rispondi mentre il tuo sorriso lieve rischiara il buio della stanza.

 

Ti rispondo che tutti ti ammirano e ti stimano, evitando di informarti circa i commenti sulla tua bellezza, alcuni piuttosto volgari per la verità.

 

Io non dico ciò che penso di te. Ti basta il mio sguardo.

 

Due soldati sono in procinto di sposarsi e non parlano d’altro che delle future nozze. Sorridi malinconica. E’ arrivata anche la sorella di Alain, quella che è corteggiata da tutti i miei commilitoni ma che nessuno osa invitare ad uscire perché Alain è peggio di un mastino, geloso da morire e pronto a fare a pugni per qualsiasi cosa riguardi la piccola Diane.

 

Di cosa siete capaci voi donne. Di farci provare sentimenti sublimi ed abietti. Di trasformare l’amore in dolce violenza, in possesso. Preferisco non pensare a questo.

 

Ora lo so che mi hai perdonato.

Per completare la serata mi reco in cucina a prenderti del cioccolato.

Mi è sempre piaciuto viziarti.

 

Penso che vorrei stringerti stasera. Solo stringerti, te lo giuro.

Ma no, forse è meglio non giurare, non lo so come reagirei se ti tenessi tra le braccia.

 

E’ troppa la mia voglia di entrare dentro di te.

E forse lo immagini a giudicare dal fatto che, appena smetti di ridere, non mi guardi più.

Devi averlo letto sul mio volto il mio desiderio, ne sei impaurita e ti dedichi alla tazza di cioccolato. Improvvisamente il silenzio si fa greve intorno a noi. Mi alzo per ritirare la tazza vuota dissimulando il mio imbarazzo, nel farlo le nostre dita si sfiorano. E’ bastato questo a farmi rabbrividire. Ti ritrai come se bruciassi. Devi aver pensato che avessi chissà quali intenzioni.

 

Oscar, te l’ho giurato quella sera che non ti avrei mai fatto del male, mai più.

 

Devi essertene ricordata allora, perché mi sorprendi prendendo la mia mano tra le tue e mormorando in un sussurro “Grazie di tutto“.

 

 

     *****

Sono a letto, finalmente, davvero distrutta dalle emozioni!

Io.

Io che ho sempre avuto l’abitudine di rielaborare nella quiete della mia camera le mie giornate, verificando il buon esito dei miei allenamenti, delle esercitazioni che ho comandato ai miei soldati. Ho schematizzato e dissezionato ogni attimo del giorno e della notte.

 

Ed ora sono agitata, sento il cuore che mi scoppia nel petto. Non riesco a non pensare al rischio corso da mio padre: se fosse morto sarei a capo della famiglia.

 

Da bambina ero innamorata di lui.Ho cercato di conquistarmi il suo affetto, e non so se ci sono riuscita. Le mie sorelle le ha amate come si può amare qualcosa che sappiamo ci farà salire nella scala sociale grazie ai matrimoni giusti. Ricordo che si facevano spesso discussioni sulla dote da attribuire all’una o all’altra, discutendo sui vantaggi che l’unione avrebbe procurato. Merci di scambio, come altre fanciulle nobili, come Maria Antonietta.

 

Poi sono nata io, e mio padre ha sfidato il destino che aveva voluto farsi beffe del suo desiderio di un figlio maschio imponendomi un’educazione militare di alto livello. Mi lusingava sapere che non mi considerava una svenevole femminuccia da dover accasare, a cui fornire una dote, a cui scegliere un marito nobile e ricco.

Mi lusingavano le sue attenzioni e, sì, anche i suoi ceffoni, perché mi rendevano diversa dalle altre e mi garantivano un posto nel suo cuore. Non mi importava quale fosse. Avevo bisogno di sentirmi importante per qualcuno della famiglia che non fosse solo la mia governante, avevo bisogno di sapere che avevo almeno un genitore.

Perché mia madre non era mai in casa. Credevo che l’affetto di mio padre fosse proporzionale al tono di voce che assumeva nei miei confronti durante gli allenamenti, alle sgridate rivoltemi spesso, agli schiaffi.

Ne ero quasi fiera, nella mia sciocca idea di dimenticare di essere una bambina.

 

Quando sei arrivato tu, André, ho capito che la mia idea di affetto, di voler bene a qualcuno, era distorta. Nel notare le premure di tua nonna nei tuoi confronti, nonostante ella fosse molto severa nell’educazione che ti ha impartito fin da piccolo, i suoi modi erano teneri. Ti rimboccava le coperte, con me poteva farlo solo se mio padre era assente. Ti sgridava e ti picchiava, ma subito dopo si pentiva e ti accarezzava. Allora ho capito che mio padre non mi amava, considerandomi un trofeo da esibire in pubblico. Non ricordo esattamente quando presi coscienza di ciò, forse quando mi dette quello schiaffo così forte in cima alla scalinata, quel giorno che segnò per sempre la mia vita, facendomi rotolare dai gradini fino alla base. L’umiliazione fu tremenda ed ancora più atroce il fatto che per mio padre i miei sentimenti non contassero affatto. Ricordo che la servitù ci osservava atterrita, la mia governante aveva le lacrime agli occhi. Povera nonna, quanti dispiaceri!

Volevo stare sola e fuggii in cima alla collina, nostro rifugio.

Ma ero sola perché nessuno avrebbe mai potuto capirmi, nessuno avrebbe mai potuto consigliarmi. Solo tu con la tua sincerità di adolescente, quella sera che salisti in camera per portarmi le candele, dicesti che capivi quello che provavo. Ed io mi infuriai mandandoti via. Pentendomene subito dopo.

 

André, ho scelto di essere un uomo per continuare a vivere con te.

 

Diversamente, se avessi scelto di vivere da donna, saremmo stati divisi per sempre.

Mi gridasti disperatamente dopo la nostra rissa giù al fiume di vivere da donna, credendo che non ti avessi sentito. Ma ho dovuto scegliere di essere un uomo per continuare a starti vicino, allo stesso modo in cui tu hai scelto di essere un amico per starmi vicino.

 

Vite parallele di gioie e dolori, pianti, risa,duelli, sbronze. Fino a quella sera.

 

Poi siamo diventati uomo e donna l’uno agli occhi dell’altra, quando le catene dell’anima non hanno retto più, spezzate dalla tua gelosia, dal tuo dolore, dalla tua disperazione di perdermi. Non ti ho mai visto infuriato prima di quella notte, tu, sempre calmo, pronto alla battuta, allo scherzo.

 

E quella sera le tue mani su di me, gli occhi e le mani di uno sconosciuto che mi accarezzava con rabbia il seno, il ventre. Ho avuto paura, lo confesso, però lo so che non mi faresti mai del male, mai.

 

Ed ora le tue mani mi sembra di volerle sentire sul mio corpo, in una carezza.

 

Vorrei essere toccata da te. Il mio corpo lo vuole sapere.

Saresti dolce ed impetuoso, mi ameresti per ore ed ore.

Li noto gli sguardi delle inservienti in caserma e delle cameriere qui a palazzo, ma sembri non farci caso perché devi esserci abituato. Non lo so se sei stato a letto con qualcuna di loro. Preferisco restare nel dubbio.

 

Cosa mi diresti dopo l’amore, André? O saresti silenzioso?

Mi parleresti di noi, mi diresti che mi ami, mi riscalderesti, mi racconteresti i tuoi sogni?

Ne hai ancora di sogni? Per lo meno,quelli che non si sono infranti contro il mio rifiuto di essere donna, contro il mio orgoglio, contro il rifiuto di noi? La trama dei miei deliranti pensieri si fa troppo fitta, li abbandono. Non scorgo fantasmi stasera intorno a me. La tua immagine incisa nella mente li ha messi in fuga , i demoni mi concedono una tregua di qualche ora.

Mi accorgo che vincerli è più facile di quanto credessi.

 

    

 

 

“Come vi sentite padre stamane?”

Sono le prime parole che riesco a rivolgergli dopo quanto è accaduto ieri. Guardo mio padre per la prima volta negli occhi dopo molto tempo. Il nostro ultimo colloquio verteva sulla proposta di matrimonio di Girodel: seduti nel vostro studio abbiamo parlato a lungo, ma non riuscivo a reggere il vostro sguardo, non volevo ferirvi, disilludervi, comunicandovi la mia decisione di non sposarmi con nessuno. Avete trattenuto il respiro quando vi ho detto che ero stata innamorata di un uomo e che quindi non dovevate sentirvi in colpa per l’educazione impartitami. Vi ho rincuorato perché possiate perdonare voi stesso. Per cominciare a perdonare me stessa.

 

Ora giacete steso, pallido in volto. Non le avevo notate quelle rughe, non volevo vedere che il tempo passa sul vostro viso lasciandovi impietosi segni. Tempo bastardo.

Mi accorgo di scrutare i vostri lineamenti per immaginare come sarò io tra molti anni, perché tutti dicono che vi assomiglio. Mentre questi strani pensieri si affacciano alla mente, mi parlate del ballo che il generale Bouillé darà in mio onore tra qualche giorno. Per non deludervi vi dico che ci andrò e che ne sono addirittura felice.

Sembra che tutto cospiri contro di me, perché all’improvviso entra in camera André con in mano un vassoio e immediatamente mio padre gli ordina di accompagnarmi al ballo dove tutti dovranno ammirare “la nostra bellissima madamigella Oscar”!

 

Stavolta mi giro in tempo per vedere come hai incassato il colpo André.

Apparentemente non fai una piega e ti limiti a rispondere a bassa voce “Agli ordini signore“.

Non ti ho mai visto così solerte nell’obbedire.

 

Ma la tua voce è roca e sa di pianto.

Continua

mail to: modcarusio@libero.it

 

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  1.   Il dialogo tra Oscar e Girodel è ispirato alla versione originale giapponese dell’anime.

  2. I nostri dialoghi sono più “morbidi“ e Girodel si limita a confessare il suo amore, laddove nella versione giapponese si abbandona ad osservazioni poco simpatiche sulla casta, sulla servitù, offendendo la sensibilità di Oscar che, con un servo, ci è cresciuta.

  3. La scena dal dialogo originale mi ha dato l’impressione che la dichiarazione del conte per Oscar abbia rappresentato uno dei momenti in cui la nostra comincia a capire i suoi veri sentimenti per André.

  4.  Ho ritenuto opportuno riprendere in parte il dialogo originale per giustificare l’apparente freddezza di Oscar che, nell’anime, reagisce alle parole di Girodel in modo gelido. Pensavo che Girodel meritasse una risposta più garbata fino a quando ho ascoltato il dialogo in giapponese. Credo che la freddezza di Oscar sia ben giustificata.