Racconto di un vecchio pazzo

 

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Nota dell’autrice: Questo racconto prende spunto da varie fonti, prima fra tutte la gelosia, assolutamente fraterna, di Alain nei confronti di Diane che la mia testolina perversamente bacata ha trasformato in una mania ossessiva che sfocia nella necrofilia. Poi ho attinto dai miei maestri, il grande Poe (“Berenice”, “Il gatto nero”, “Morella”), Tarchetti (“Racconti fantastici”), S. T. Coleridge, nonché una buona dose di Dylan Dog e un trascorso di adolescente lugubre e nero. Questo racconto, per fortuna, non ha riscontri nel manga o nell’anime, me lo sono inventato di sana pianta. Esso è solo una sperimentazione di tematiche per me nuove, quali la pazzia, l’amore impossibile e incestuoso (che allegria!!), insomma non intendevo denigrare il personaggio di Alain e il suo dolore per la perdita della sorella. Se qualcuno mi vuole lapidare, sono sempre disponibile…

 

I monaci hanno intonato i Vespri. Io sono stanco, molto stanco. Sento che le forze mi stanno abbandonando e la vita fugge da me. Tra poco la sera stenderà la sua ala di pipistrello sulla campagna. Non ne avrò ancora per molto, il fiato già mi muore in petto ma spero che la fine arrivi furtiva come un ladro. Non voglio morire, ho l’anima appesantita da un peccato abominevole che ho cercato di cancellare col lavoro della terra. Nelle mura del convento ho sperato in una serena vecchiaia ma non c’è più pace per me. Tutti vedendomi arrivare mi guardano storto, in cagnesco, forse immaginano, o forse porto scritta la colpa a lettere infuocate nella carne. Mi danno del pazzo, dell’ubriacone, si scambiano malignità con i visi torvi e lividi di rabbia. Un monello mi ha sputato addosso con tutta la collera e il livore della sua giovane età. Non vi è pietà per me, vecchio oppresso dal tempo e dal peso di un amore proibito, che mi ha maledetto in eterno. Ma sangue di Dio! Lei! E’ colpa sua, e di questa terra che l’ha generata così bella, con quei capelli morbidi, quelle labbra coralline un po’ tumide e quei suoi occhi castani che rievocano il sottobosco con tutti i suoi profumi selvaggi. L’ho sognata, l’ho voluta, l’ho desiderata dal primo momento e ho dovuto farla mia. Prima che la morte giunga mi trascini tra demoni di fuoco voglio liberarmi dal peso di questo fatto. La mia storia è accaduta tanto e tanto tempo fa. Ha il sapore di quelle leggende che penetrano i bassifondi di Parigi, come presenze inquietanti, in quelle notti dell’Uragano, dove il vento porta con sé schiere di fantasmi ululanti e li conduce ad un destino di solitudine eterna, quando i bambini si tirano le coperte fin sopra gli occhi e neppure le donnacce osano mettere il naso fuori casa. Si aggira per i vicoli neri l’urlo del mio amore proibito, che insultò Dio e che sarà punito con la dannazione eterna. Non scappate, non affrettate il passo, ascoltate, ascoltate chè questa è la storia vera del mio amore disperato. Immaginate la Parigi che fa da scenario a questo racconto, una Parigi irreale, immersa in una nebbia ovattata che la separa dalla realtà, proteggendola dal clamore della vita. Una Parigi di un universo parallelo, senza vita, addormentata, dove tutti i suoi abitanti si muovono come morti, ripetendo senza sosta le stesse inquietanti azioni, lentamente, come in un mondo sottomarino, tremante ed effimero. Chiudete gli occhi e non pensate che al nulla, che il dio del sonno vi porti nel regno della sofferenza e del dolore, dove sistri di Osiride suonano melodie funebri e narrano storie di eterni ritorni, di terre bruciate e nani neri. Dormite un sonno freddo di tomba, giacché la storia sta per cominciare… 

 

Lo stridore di una carrozza mi rifiondò nella realtà con un salto doloroso. Ero come al solito nel mio corpo ma la sensazione di non appartenermi mi accompagnava sempre. A volte non ero neppure sicuro che fosse la mia mente a controllare il mio corpo tanto è vero che avvertivo quell’involucro di carne alieno ed estraneo. Camminavo e poi d’un tratto mi arrestavo e si guardavo intorno estraneo, con occhi di chi vede il mondo per la prima volta. Da qualche tempo non mi riconoscevo più, quasi come se la mia personalità fosse stata immersa in un calamaio pieno fino all’orlo di inchiostro. Odiavo tutto, tutti, me stesso. E camminavo non volendo neppure camminare, muovendomi meccanicamente al volere di una volontà perversa, forse la mia, e quindi totalmente estranea, incatenata dall’ultima ossessione. Nelle strade di Parigi, correvano rivoli di urina che mi costringevano a tappami il naso e vecchie laide dall’alito fetido, mostravano tutta la loro bruttezza, i porri in vista e le gengive spoglie, richiamandomi alla caducità dell’esistenza. E dentro morivo… Guardavo la mia anima cadere senza poterla aiutare, si allontanava sempre più, sempre più, sempre più… Stavo vagando senza una meta ma tutto quel camminare non accennava minimamente a trovare sosta. La luce del sole era pallida, lontana. Detestavo la sua freddezza, essa riversava la sua razionalità sulle cose svelandone la ripugnanza e mostrandone i lati segreti, come il marito che sorprende la sua sposa nel talamo con un nuovo amante, fugando i sogni all’alba.

Quella mattina al mio risveglio avevo provato un senso profondo di nausea che mi aveva accompagnato per quasi tutta la giornata. Ignoravo l’origine di tale angosciosa sensazione e facevo il possibile per cercare di non attribuirle una causa. Un rivolo di gelo mi attraversò il volto accompagnandosi a un crampo allo stomaco. Tutto intorno girava vorticosamente e la nausea cominciò a salirmi in gola formicolante, pastosa. Quella terribile sensazione dolciastra che mai mai abbandonava da quando… Ebbi un conato di vomito… Sul selciato caddero tutte le angosce, gli incubi, i  tormenti, le ossessioni di tutta la mia vita. Pensieri di gambero mi soggiunsero alla radice del cervello. Mi si fece avanti un ricordo che bussava da tempo alle soglie della sua mente…ma che avevo sempre cercato di cancellare per la sua tragicità ma, nello stesso tempo, bellezza…

 

Era bella, era giovane, era nuda… era morta. Col capo riverso sul cuscino e la mano penzolante che cadeva mollemente dal letto. Un rivolo di sangue si intrecciava coi capelli e colava al pavimento, rosso e denso che ricordava i petali vellutati di una rosa. L’odore metallico del sangue mi penetrava il cervello. Mi venne da vomitare, e la stanza prese a girare vorticosamente su se stessa. Portandomi le mani al capo emisi un grido: cosa le avevo fatto, cosa le avevo fatto!!! Tutto si contorse e gridò il suo nome e la mia voce partecipò di quella disperazione. Ogni cosa mostrava la colpa. I suoi fiori gridavano: “ASSASSINO”, i ricami, i vasi con i loro riflessi vitrei, tutto si univa in un coro a chiamare il volto della morte:

“Alain de Soisson: assassino, assassino, ASSASSINO!” All’improvviso la voltai, teneramente e mi misi il suo capo in grembo. La cullai per accompagnarla nel lungo viaggio verso la vuota valle, le cantai le nenie di bambino. Com’era bella! Non potei fare a meno di pensarlo, Sarebbe stata bella in eterno, congelata nell’attimo di supremo dolore. Le chiusi gli occhi e, arrossisco, me ne vergogno, avvampo, ma feci quello che mai un fratello dovrebbe fare. La baciai con tutto l’impeto e la passione di cui fui capace. Le accarezzai i capelli, erano ancora morbidi e i suoi ricci si contorcevano attorno alle mie dita rozze. La lavai delicatamente per pulirla dal sangue, con lo sguardo balenante di desiderio e di pazzia. La contemplai nuda. Provai una frenesia malata nel vestirla, le mani mi tremavano scorrendo lentamente sul suo piccolo corpo. Mi congiunsi a lei nell’eternità della morte. Dopo piansi amare lacrime. La pettinai e le misi il vestito delle nozze, ornai di fiori il suo letto da sposa: le viole per i pensieri, il rosmarino per il ricordo, la ruta, erba di grazia, le rose per la purezza e la vita che scorre via. Sembrava che dormisse. Quella pelle marmorea, quei capelli scarmigliati sul letto di morte e quelle labbra leggermente socchiuse divennero il mio pensiero dominante. Lei era mia sorella e non avevo il diritto di amarla, ma, PER DIO! Io non volevo altri che lei, non mi interessava nessun’altra donna, nessuna suscitava quella specie di risveglio dei sensi, quella bramosia malata che lei non avrebbe mai accettato. Fin da piccoli avevo assistito impotente al crescere del mio affetto, esso si era trasformato in un’ossessione ed il pensiero di Diane regnava sovrano sugli altri. Avevo provato di tutto per cancellarla dalla mia mente, per dimenticarla. Mi ero persino arruolato nei soldati della guardia per non doverla vedere e diventare ogni giorno più bella. Poi un mattino di primavera mi aveva annunciato tutta gioiosa: “Mi sposo Alain!” Ero rimasto inebetito, interdetto. I suoi occhi ridevano mentre lo diceva e un casto rossore si era soffuso sul suo visetto da ragazzina.

“Mi sposo Alain!” Mi riecheggiava nella testa ovunque fossi, nelle marce estenuanti, nelle partite a carte, nelle taverne, nell’amore con le puttane nei vicoli puzzolenti alla luce delle torce.

“Mi sposo Alain”

Credevo di impazzire. Così decisi di farla mia ad ogni costo. E ci riuscii. Rimasi con lei per tempo interminabile a contemplarla nel riposo e ad accarezzarla. Pareva esausta e ora dormiva un sonno tranquillo. Fino a che mi dissero che dovevano seppellirla, emanava un odore nauseabondo, lei così bella e fresca. Lo feci a malincuore.

Quel ricordo seppellito così a fondo nel mio cuore mi fece piangere calde lacrime. I singhiozzi impedivano quasi il respiro e riprese la nausea, stavolta fortissima, incontrollabile, la nausea fatta di fiori e svolazzi di stoffa. Ricordavo tutto, l’uccisione di Diane, il mio amore di morte, il funerale. Nei giorni seguenti caddi in un tedio profondo, nessuno mi riconosceva più. La bellezza di quella donna diventò per me un’ossessione. La rivedevo nei sogni, fra le veglie notturne, la scorgevo sorridermi tra le merlature della caserma per poi svanire rapidamente. Quando potevo fuggivo nella boscaglia dove orrende visioni mi erano compagne. Andavo spesso al cimitero. Mi acquattavo nel ventre della terra, sopra lei, avevo scavato un buco col dito per esserle più vicino, per stabilire un contatto tra i due mondi. E piangevo, urlavo e mi dimenavo all’ombra dei cipressi mentre tutto stava a guardare impassibile, con tranquillità imperturbabile.  La vita continuava a fluire, maledizione! Niente si era fermato per renderle omaggio, per salutarla, ma ogni cosa, ogni elemento aveva continuato il suo ciclo ancestrale e lei se ne stava avvolta nel grembo del mondo con le pietre e gli con gli alberi, cullata dal sospiro del vento. A volte mi consolava il pensiero della sua bellezza. La volevo rivedere, la dovevo rivedere un’ultima volta… Ero pazzo! Folle. La lucidità con cui me lo dissi mi sconcertava. Un pensiero perverso mi attraversò da capo a piedi, mi scosse nel profondo, nei bui anfratti dove si rifugia, come una fiera, l’anima malvagia e perversa. Ansimando come un animale, raggiunsi il piccolo cimitero. Scavai senza sosta, meccanicamente finché vidi il piccolo feretro. Avrei stretto patti col demonio pur di riportarla in vita da me.

“DIANE” il grido mi uscì inarticolato, contorto e si perse nella notte come il vento negli alberi. In preda alla disperazione invocai prima Dio poi Satana. Urlai ancora ma le mie parole avevano il suono di un grugnito che proveniva dalle viscere. Tutto si svolse in un attimo: un tuono scosse quell’atmosfera irreale. Il grande albero che vegliava sulla quiete dei morti si squarciò cadendo al suolo con un tonfo sordo. In quel luogo di sonno eterno si sparse odore di cipresso imbrunito. Non esitai, la presi, era ancora bellissima nel suo abito da sposa, maritata in eterno con la morte che alla fine era riuscita ad averla tutta per sé. Trafugai il corpo e scappai. Riuscii senza fatica a nasconderla in un pertugio della cantina della caserma, dove di solito tenevano il vino riservato al comandante, la murai lavorando tutta la notte. Quel che successe poi si perde nella memoria. La Rivoluzione portò il terrore, la caserma fu distrutta e il suo corpo sparì misteriosamente. Io, dopo gli orrori della Rivoluzione, mi sono ritirato col mio segreto su questi colli e ho lavorato la terra per non pensare a lei. Ho lavorato fino allo sfinimento sotto il sole e l’arsura, con la pioggia e il temporale, non fermandomi mai. Ma qualcosa è cambiato da quella notte. Credo che qualcuno abbia ascoltato le preghiere di questo pover’uomo. Ho motivo di credere che la mia piccola e amata Diane sia ancora viva. In paese è nata una bimba che le assomiglia molto. L’ho vista crescere da lontano e non posso che amarla silenziosamente dello stesso malato amore con cui amai mia sorella. Ho passato questi ultimi anni ad osservarla di nascosto, è ogni giorno più bella, proprio come lei ed io sento di desiderarla con tutto me stesso. Domani si sposerà. Me l’ha detto lei qualche giorno fa. Vedendo che la osservavo mi si è fatta vicino. Profumava di fieno appena tagliato, mi ha guardato coi suoi occhi grandi e ha bisbigliato: “Mi sposo, Alain, finalmente mi sposo” Poi è corsa via, leggera e impalpabile come un’ombra. Sono rimasto stranito, il vento ha preso a soffiare e ha portato dall’est profumo di rose in boccio. Ora aspetto la fine ben sapendo che non troverò mai più la pace. In fondo non ne ho mai avuta, il tormento si è unito alla mia vita fin dalla giovane età quando mi prese l’insana passione per una donna che non poteva, non doveva, essere mia. Non mi sono mai sposato solo lei è regina dei miei pensieri, tutte le notti sogno che mi chiama da terre lontane, avvolte dalla bruma, ed io rimango ad osservarla senza avere il coraggio di correrle dietro. Lei è sempre bellissima, solo io sono vecchio e stanco. Aspetto la fine, conto i respiri che mi allontanano dalla vita. Il mio cuore rallenta i battiti ogni giorno di più. Rimorso e Rimpianto si stanno giocando a dadi la mia anima torva. Domani la giovane Diane si sposerà, forse è giunto per me il tempo di partire per il lungo viaggio. I monaci hanno finito di cantare i Vespri e le campane suonano lenti rintocchi. Io sono stanco molto stanco…

 

 

Mail to elisabetta.dragotto@comune.mantova.it

 

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