Ortiche e tele di ragno
Warning!!! The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.
L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.
Nota
dell’autrice: In
questo racconto Oscar ha circa 15 anni. Siamo perciò intorno al 1770.
Nell’anime e nel manga Fersen giunge in Francia solo nel 1774. Pare che negli
anni precedenti abbia viaggiato, per studio, in Italia ed in Germania. In questa
storia si suppone che il conte nei suoi viaggi culturali abbia lasciato
l’Italia e abbia voluto visitare la Francia prima di partire alla volta della
Germania. Ho creato, dunque, un primissimo incontro tra Oscar, André e Fersen.
Delphine
si era ritirata nel suo carro scappando dalle scene appena terminata la
rappresentazione. Da tempo Caterina si era accorta di quell’insolito colorito
giallastro, delle palpebre violacee, delle guance stanche e del cerchio scuro
sotto gli occhi che conferivano al suo volto un’espressione sofferente. Ella
fuggiva sempre appena finite le prove, non si soffermava a scambiare scherzi e
facezie con gli altri. E ciò appariva alquanto inusuale per il carattere aperto
e cordiale della donna.
Sicognac,
con passo sicuro, andò diritto nelle stanze di Delphine, sperando di alleviare
il malessere che l’aveva colta. Bussò con decisione ma non ebbe risposta.
Pensò allora di entrare di forza. La vide riversa sul tappeto vicino al letto.
“Un
dottore, per Dio!” Urlava come un indiavolato. Caterina corse a caracollo per
le vie di Parigi bussando di porta in porta, non riuscendo a trovare nessuno. La
sua disperazione, l’apprensione crescevano: Delphine aveva più che mai
bisogno di aiuto. Un’ora più tardi stanca, con i piedi che le doloravano,
aveva quasi perso ogni speranza. Guardò Pietro, suo fedele compagno e bussò
all’ultima porta.
Venne
ad aprire una donna corpulenta che l’invitò ad entrare. Suo marito era un
medico, del popolo certo ma andava bene, l’importante era che Delphine potesse
tornare in salute al più presto.
“Fammi
strada ragazzino” La incitò il medico chiudendo la borsa dopo aver radunato
tutti gli strumenti.
Humf!! Ancora veniva cambiata per un monello. Si guardò, in fondo con quei calzoni attillati di scena, quella casacca larga e quel cappello con pennacchio rosso, sembrava davvero un maschiaccio. E i capelli, i suoi bei capelli rossi per cui Sicognac la derideva, erano ridotti a una peluria cortissima.
"Pel di carota!" l'apostrofaca spesso Sicognac.
“Ignorante! Le carote non hanno peli!!”1 Rispondeva secca.
A questo pensiero sorrise.
L’attesa
si rivelò snervante. Sicognac era apparentemente calmo, non gli interessava più
di tanto perdere una potenziale amante, tutte gli cadevano ai piedi. Era
abituato a ricevere i sospiri delle fanciulle da quando era poco più che un
ragazzino. E Delphine non l’aveva mai degnato di uno sguardo. Si era impegnato
con tutta la sua arte amatoria ma la buona ragazza aveva sempre respinto con
motti arguti la sua ossessiva presenza. In fondo le donne gli facevano dono dei
loro sospiri, dei moti del loro cuore e di ogni pensiero. Il suo fare istrionico
aveva qualcosa di magico, una specie di alone misterioso. Neppure le nobildonne
gli resistevano. Quante volte Caterina gli aveva fatto recapitare speciali
biglietti profumati. Lui spariva per tutta la notte e si rifaceva vivo la sera
seguente giusto in tempo per andare in scena. Del resto Sicognac sapeva di avere
fascino, era alto, ben proporzionato, con un corpo elastico. Quel filo di barba,
che ogni sua amante adorava solleticare dopo l’amore, lo rendeva
irresistibile. D’altro canto lui ben sapeva come conquistare una donna, come
camuffarsi per rendersi amabile. E se Delphine non accettava il suo amore, non
era caso di prendersela tanto a cuore. Anche se… Qualcosa nel suo animo lo
faceva scattare, una punta di orgoglio inferocito per l’allontanarsi della
preda… Pensieri inutili! Inutili, certo, e poco appropriati. Un oscuro male si
stava impossessando di Delphine. Sicognac si sentiva chiamato a starle vicino se
non altro per mostrarsi amante apprensivo e nobile di cuore.
Tutta
la compagnia era davanti al carrozzone di Delphine ad aspettare il verdetto del
medico. Quando uscì gli si avvicinarono stretti stretti.
“Gravidanza
a rischio, deve stare a riposo per tutti i nove mesi se non vuole perdere il
bambino” Affermò grave il dottore stropicciandosi la barba.
Sul volto di Sicognac si dipinse una smorfia quasi buffa. Delphine incinta e di chi? Chi aveva avuto l’ardire di possederla prima di lui??!! Caterina sapeva dell’amore della bella attrice per un poeta che aveva incontrato in Guascogna. Un giovane squattrinato morto prematuramente di polmonite nella rigidità della sua amena abitazione. Eppure Delphine aveva deciso di mettere al mondo il frutto del suo amore. Ed ora, prostrata da quella nuova vita, non avrebbe potuto recitare nelle commedie che la compagnia si era prefissa. Infatti Monsieur Doumberle aveva predisposto di mettere in scena la più grande rappresentazione del Signor d’Inghilterra: Romeo e Giulietta. A chi, dunque, Sicognac, baldo e ardente Romeo, avrebbe sussurrato parole d’amore con quel fare ammiccante e seduttivo? Aveva studiato tutto per far cadere ai suoi piedi Delphine invece questo bambino gli scombinava i piani. Maledizione! Chi avrebbe rimpiazzato Delphine? Non certo Caterina, era troppo secca e sgraziata. E poi doveva recitare la parte di quel tal Mercuzio, matto come un cavallo. Caterina doveva solo correre su e giù per il palco urlando stramberie. La nuova Giulietta doveva per forza solleticare la curiosità di Sicognac, altrimenti lui non si sarebbe neppure presentato alle prove. Questo Doumberle lo sapeva bene ma aveva sempre accettato i suoi capricci per la sua bravura. Nessuna compagnia poteva vantare un fascino magnetico come quello di Sicognac.
“Maledizione,
maledizione!! Delphine incinta di un altro!” Urlava Sicognac accelerando il
passo per scappare dagli altri.
Ferito
nel suo orgoglio di Don Giovanni decise di trovare conforto nell’alcool in
qualche bettolaccia. La rabbia gli stava montando nell’animo, non riusciva a
credere che Delphine l’avesse rifiutato per un’avventuretta con un poeta da
strapazzo.
“Fragilità,
il tuo nome è donna!” Sibilò a denti stretti quella frase che aveva ripetuto
migliaia di volte sul palco.
André
non riusciva a credere che Oscar si fosse svagata così tanto. Rifletteva sugli
ultimi avvenimenti che gli avevano sconvolto l’esistenza. La loro amicizia si
era trasformata. Non giocavano più, lei non gli raccontava più nulla, non gli
confidava pensieri, paure, dilemmi, cose ridicole solo per il gusto di farlo
ridere a crepapelle. Stavano crescendo. Eppure lei era sempre così strana. E
lui si sentiva morire. In più sentiva crescergli dentro un sentimento
fortissimo. La sera, nella sua stanza disadorna, si stendeva sul letto, chiudeva
gli occhi e iniziava a sognare un universo parallelo. Le tristezze gli
sembravano essere lenite dall’evasione fantastica. Avrebbe voluto essere
importante solo per lei, gli bastava. Non resisteva più, gli sembrava di
reprimere in cuore quel sentimento da troppo tempo e non riusciva a liberarsene,
ormai era diventato parte di lui. D’altro canto tutto sembrava una tenera
poesia per lei, tutto. Dalle stelle chiare che esplodevano in un’alchimia di
colori alla luna di marmo, dalla magnolia del giardino che regalava quei candidi
fiori carnicini ai cipressi sulla via del cimitero che infondevano quella quiete
serena, dal canto dei passerotti che si perdeva in un cielo zuccheroso come
quello d’estate ai tramonti che si smorzavano in un sussurro di quercia. Nel
cuore sentiva esplodergli spari di fucile ed ogni volta che la rivedeva tutto si
fermava a contemplarla con lui. Non trovava parole per descrivere quello che
provava. Aveva cercato di mettere per iscritto i suoi sentimenti su un piccolo
taccuino di cuoio rosso. Voleva trovare le parole più belle per rivelarle il
suo amore perciò aveva scritto i suoi pensieri fluenti come un torrente in
piena, tutto quello che gli evocava starle vicino, cercare il suo profumo sparso
nell’aria. Si era scoperto ad annusare il cuscino del suo letto, ne
riconosceva subito il profumo fresco e stava con il viso premuto sul piumino,
chiudendo gli occhi immaginando di stringerla a sé. Erano cresciuti insieme e
lui la conosceva meglio di se stesso, gli era entrata dentro, nel sangue che gli
scorreva nelle vene, era maledettamente indispensabile, come l’aria che
respirava, come la gioia, come il sole che vedeva alto nel cielo, come…non
sapeva dire…non era un poeta, non sapeva trovare parole per esprimere
quell’ondata di emozioni che gli tempestavano nel cuore, i colori, i profumi
speziati, i sapori dolci che lei gli evocava. Si addormentò pensando a lei.
Quella
locanda era luogo d’incontro di malviventi, bontemponi, puttane e poveracci
desiderosi di far riposare al caldo le loro ossa. Sicognac in piedi su un
tavolo, decisamente ubriaco, levava il calice ai nuovi compagni di sbornia.
“Lode
a Sicognac! Nel più profondo degli inferi!!2”
Urlava la combriccola alticcia. E prorompeva in risa sguaiate.
“Sì!
Giù giù all’Inferno!!” urlava tra un colpo di tosse e l’altro Calcabrina3.
Il vino gli era andato di traverso era si era messo a singhiozzare.
“Sicognac!
Quante donne hai sedotto?” incitava la folla.
“Francamente,
amici miei ho perso il conto.” Bevve un altro sorso. L’allegra brigata
irruppe in risa fragorose.
“Silenzio,
per Diana! Sicognac ha qualcosa da dirci!” Sbraitò un vecchio ubriaco con il
grasso che gli colava dalla bocca e che si impastava con la barba. E suggellò
il suo intervento con un rutto.
“E le
duchesse? Quante duchesse?”
“Oh,
almeno una cinquantina”
“Marchese?”
“quelle
poi saranno una ventina”
“E
popolane?”
“Un
centinaio. Se non erro, ma a volte la memoria mi inganna! E’ più forte di me,
quando vedo una donna penso a quella meraviglia, a quel travaglio che si chiama
amore, e la voglio, la desidero, devo assolutamente farla mia. Se non cede, io
mi scaltrisco e divento quello che piace a lei. So essere tenero, burrascoso,
poeta. A una ragazza graziosa dico che è carina, se ha grande il naso, dico che
è importante, se è grassa, diventa ai miei occhi sana e in carne. Pallida,
assume il colore della luna, scura come la terra arsa dal sole, è del color
delle terre d’Oriente. Io sono fatto di sogno, muto come loro mi vogliono e
mai mostro la mia vera natura. E poi…”
Sicognac
osservava il fondo vuoto del bicchiere. La sua voce era malinconica, nel suo
delirio alcolico stava fluendo la parte nascosta di se.
“E
poi mi la noia mi assale. L’entusiasmo passa, la donna per cui ho lottato, che
ho voluto, che ho dovuto fare mia, cade nell’ombra ed io resto con una
manciata di mosche in mano e stringere i pugni rabbioso, avvinto dal tedio che
mi opprime il cuore. Ora se incontrassi Venere le torcerei il collo sbadigliando4
e me la porterei con me dritta negli Inferi.”
La
combriccola non capiva, era presa dai lazzi e dalle risa, dal vino frizzante che
scorreva a fiumi. Le donne ridevano e sedevano alzando vistosamente le sottane
mentre Sicognac restava solo tra tutti a soffocare la sua disperazione più
profonda in un altro boccale di vino.
Riuscì
a trascinarsi fuori dalla taverna solo all’alba e raggiunse i carrozzoni
fermandosi al carro di Isabelle. Lei lo fece entrare con un misto di gioia e
sorpresa. Gli tolse i vestiti sudici. Lui le cadde addosso e tutti i fumi
dell’alcol, la sua frustrazione della perdita dell’oggetto d’amore si
riversarono su Isabelle che non aspettava altro. Era stata la sua amante qualche
anno prima ma lui si era lasciato trascinare dalla foga per un nuovo amore. Le
era rimasto il rimpianto per quella storia finita. Lo accolse nel suo letto.
Sicognac, stordito dall’alcol, si lamentava come un predatore deluso. Sentiva
l’oscura presenza di Isabelle muoversi con lui nel buio, una presenza sottile
e mormorante come un ruscello. Le sue mani stringevano quella sbiadita forma ed
egli digrignava i denti nello sforzo immane della penetrazione5.
Caterina
aveva passato il resto della nottata al capezzale di Delphine, bagnandole il
volto con una pezza intrisa di acqua fredda. Consolava l’amica, le ripeteva
giuramenti di amicizia, le confermava la sua presenza in qualsiasi caso. La
mente correva a Sicognac, dov’era andato a cacciarsi quel buono a nulla? Lo
scorno era stato troppo grande. Lo conosceva fin troppo bene. Perché aveva
quell’ossessione delle donne? Era un giovane così affascinante, metteva
l’anima in ciò che credeva. Aveva solo quella brama di possesso che lo
prendeva al cospetto di qualcosa da cui era attratto e quando riusciva ad
ottenere tutto, imponendo la sua stessa misura sulle cose, la realtà si
ribellava, ed egli affondava in un’apatia che raggiungeva livelli cosmici. Il
capocomico Doumberle ripeteva che sarebbe finito male. Se solo si fosse accorto
di lei! Ma non aveva speranze, grazie al carattere burrascoso che si ritrovava
era sempre in lite con Sicognac tanto che finiva per mandarlo al diavolo. E lui
cosa credeva? Che lei dovesse gestire i suoi rapporti con le amanti? Tutte
quelle smorfiose le affidavano messaggi d’appuntamenti per lui che sfilavano
dalle ampie e generose scollature. La stizza si impadronì di Caterina.
Odiosamato Sicognac!
“Vai
alla malora!” pensò chiudendo violentemente gli occhi come per dar forza e
consistenza al pensiero.
L’alba faceva capolino tra campanili e cupole, correndo, appena spruzzata di pioggia, fresca sui cornicioni di marmo, facendo cadere ad uno ad uno i suoi veli ed insinuandosi nella camera di André, posandosi con tocco tiepido sul suo viso.
Si svegliò tutto avvolto nelle lenzuola. Si divincolò da quell’abbraccio di panno e si stropicciò gli occhi pieni di sonno.
“André,
André, svegliati, devi portare la colazione a madamigella Oscar!!” Era la
voce della nonna che lo chiamava e gli ricordava i suoi doveri di domestico.
Con un
immenso sforzo si alzò e si preparò.
La
nonna era furente, lo salutò con una mestolata sulla testa, tanto per
imprimergli ben chiaro nella memoria che gli attendenti non hanno tempo per
poltrire.
“Corri
da madamigella Oscar, la cioccolata si sta freddando” sbraitava la nonna
brandendo il mestolo.
André
si catapultò al piano di sopra.
“Oscar,
svegliati, ti ho portato la colazione!” Bussò dolcemente ma dall’altra
parte non gli rispose nessuno.
“Oscar…”
Silenzio…
“Maledizione!
Oscar, farai tardi a Versailles!” Entrò all’improvviso nella stanza ormai
alterato.
“Strano,
non c’è nessuno.” Guardò con desolazione il letto vuoto e sfatto.
“A
meno che…” Fece a malapena in tempo ad alzare un braccio quando,
all’improvviso, lei spiccò un salto da dietro la porta e gli tirò una
cuscinata.
“Brutta
peste!” Rideva André, di cuore. Oscar aveva le lacrime agli occhi. Puntò
l’indice contro di lui e cominciò a saltellargli intorno cantilenando:
“Gonzo
gonzo! Ci sei cascato!!”
“In
guardia! Voglio la rivincita!”
André
era lieto di tutta quella gioia. Gli sembrava di essere tornato ai tempi della
loro infanzia. E tutto per uno spettacolo teatrale che li aveva distratti per un
attimo dai pensieri, dalle ossessioni di un imposizioni dispotiche e dai primi
turbamenti dell’amore6.
“Senti,
non sei molto attraente in camicia da notte, fila a cambiarti o vuoi dare ordini
ai tuoi soldatini in queste condizioni?!” Con una linguaccia Oscar obbedì.
La
giornata di Oscar era fatta di scintillii di lame, di damerini incipriati, di
parate sfarzose. André la osservava urlare ordini a delle marionette, con tutto
il suo vigore, contraendo il viso rabbiosamente. Spesso si estraniava e gli
sembrava davvero buffa, una ragazzetta in uniforme a dare ordini a una schiera
di soldati più grandi di lei. Quando non era richiesta la sua presenza, André
passeggiava nei giardini di Versailles aprendo le braccia al sole e respirando
nell’aria i profumi dell’erba novella. Quella sera avevano progettato una
scappata a quel teatro improvvisato. Aveva promesso alla sua amica una serata
all’insegna della fantasia, anche se l’evasione in un universo impalpabile
era una tristezza. Sua nonna, santa donna, tra una mestolata e l’altra, gli
aveva sempre insegnato a guardare il reale per quello che veramente è. Questo
atteggiamento era visibile in ogni suo approccio: Oscar era una donna, poteva
mettersi l’uniforme, sguainare la spada, parlare con freddezza maschile ma era
sempre una donna. La nonna non riusciva a chiudere gli occhi di fronte alla
realtà come il Generale che aveva finto sin dall’inizio di avere un figlio
maschio.
Il
sapore dolce della trasgressione faceva battere il cuore di André
all’impazzata. Sapeva bene di fare un dispetto al Generale, sua figlia stava
sorridendo, non era più una statuina da manipolare, una bellissima bambola
dalla volontà malleabile.
Oscar, tira fuori tutto il fuoco che c’è in
te, tutta la tua passione, il tuo stupore, il tuo entusiasmo. Dimostrami che non
sono morti, dimostrami che sei viva!!
Rincorreva
così i pensieri che il cuore gli dettava estraniandosi da tutto.
Al
tramonto tornarono a casa velocemente con gli occhi nel sole che lentamente
declinava all’orizzonte. Più tardi André , nella sua stanza, si osservava
davanti allo specchio. Si prese il mento con due dita e sollevandolo
ripetutamente osservava la sua barba ancora troppo corta per essere tagliata. La
morbidezza della pelle rivelava la giovane età. Si passò una mano nei capelli
aggiustandoli con cura. Indurì il volto e con le mani cariche d’acqua lavò
via la stanchezza e la frustrazione. Indossò la camicia inamidata che profumava
di bucato e abbottonò la giacca7.
Incontenibilmente emozionato, piroettò su se stesso e uscì.
Un
giovanotto stava cavalcando per le vie di Parigi dando mostra di tutta la sua
baldanza. Un ragazzo di una bellezza mai vista: sporgenti gli zigomi segno di
furbizia. L’occhio, di un blu intenso, aperto e intelligente, il viso
finemente disegnato, troppo alto di statura per un adolescente, troppo basso per
un uomo fatto. I capelli, raccolti nel nastro, gli scendevano mollemente lungo
la schiena. La spada appesa alla bandoliera di pelle sbatteva lungo i suoi
polpacci. Guardava Parigi stupito, soffermandosi ad osservare il brulicare
colorato della gente al mercato, i mendicanti, le carrozze che ondeggiavano
sulle strade sassose. Mostrava una meraviglia insolita per un ragazzo della sua
età. Al suo passaggio le ragazze si voltavano guardandolo sfrontatamente. Lui
reagiva calcandosi il cappello piumato sugli occhi. Vedendolo solo e così
inesperto qualcuno avrebbe potuto pensare che egli fosse il figlio di qualche
ricco mercante eppure la finezza dei lineamenti, quel modo così elegante di
tenere le briglie del cavallo imponendo la sua forza sull’animale, gli abiti
di ottima fattura ne rivelavano i nobili natali. Si trattava del giovane conte
Hans Axel di Fersen. Il padre aveva deciso, secondo la miglior tradizione, di
mandarlo all’estero per compiere gli studi degni di un gentiluomo. Hans aveva
studiato in Italia e, prima di recarsi in Germania, era stato preso da una gran
curiosità per la Francia che lo aveva indotto a deviare il suo viaggio, ben
sapendo che suo padre non avrebbe approvato. Parigi gli trasmetteva un fascino
vitale e si ripeteva che la decisione di fermarsi un po’ laggiù era stata più
che giusta. Una strana sensazione si insinuava nel suo cuore e gli faceva
intendere il suo destino come indissolubilmente legato a quella terra straniera.
Amava la vita, la mondanità e avrebbe desiderato riuscire ad entrare a corte ma
suo padre era all’oscuro di quella bravata e non voleva che qualcuno potesse
riferirglielo. Così, senza destare clamore, aveva preso alloggio in una locanda
del centro. Ripensava a quando era partito. Suo padre l’aveva guardato serio e
gli aveva fatto dono della spada che apparteneva da generazioni ai conti di
Fersen. Sua madre si era sciolta in lacrime e l’addio era stato più lungo e
tenero. Ella aveva pianto abbondantemente e, per quanti sforzi avesse fatto Hans
nell’intento di rimanere impassibile, come avrebbe dovuto esserlo un vero
uomo, la natura aveva avuto la meglio ed egli aveva versato molte lacrime benché
fosse riuscito a nasconderne, con grande contegno, la metà.
“E
bravo Hans!” pensava. “Mio padre non sa nulla, crede che sia in viaggio alla
volta della Germania.” Era un compiaciuto di se stesso, cominciava a sentirsi
adulto.
Aveva
sentito la padrona della locanda parlare entusiasta di uno spettacolo
improvvisato da saltimbanchi che avevano raccolto molti consensi col loro
teatrino improvvisato. Complice la curiosità tipica della giovinezza, aveva
deciso di andare a vedere.
Cavalcarono
in silenzio, un muto imbarazzo era calato tra loro. André la spiava di
sottecchi sperando di cogliere un gesto, un sorriso, un’espressione del volto.
Oscar dal canto suo teneva lo sguardo basso fisso al sentiero.
Arrivarono nel centro di Parigi ma con loro grande sorpresa non il palco improvvisato in mezzo alla piazza.
“ Niente recita oggi!” esclamò André “Strano, una compagnia si guadagna da vivere con gli spettacoli.”
In quel preciso istante Caterina uscì dal carrozzone e, vedendo i due giovani, indovinò dalle loro espressioni, la delusione del mancato spettacolo. Si avvicinò lentamente.
“Oggi non è previsto nessuno spettacolo. L’attrice principale è stata colta da malore improvviso e l’attore…beh, è impossibilitato a salire sul palco.” Parlava tenendo lo sguardo basso, arrossendo e torcendosi le mani.
“E domani?” chiese Oscar curiosa
“Purtroppo non so nulla, arrivederci signori” e scappò via col volto in fiamme. Non poteva dire che a causa della gravidanza di Delphine Sicognac passava tutte le giornate a zonzo dividendosi tra taverne e donnacce.
“Pezzo d’asino!” le sfuggì rabbiosamente con le lacrime che pungevano gli occhi orlati di rosso.
Delusi, montarono in sella quando una voce li chiamò:
“Hey voi! Mi hanno parlato di un teatro fatto da girovaghi ma qui non c’è nulla. Sapete qualcosa?”
Oscar si voltò e si trovò di fronte ai più begli occhi che avesse mai visto. Le ricordavano il cielo di Arras in primavera, quando lei e André correvano felici tra i papaveri che ondeggiavano nel vento.
“No, stasera niente spettacolo. Pare che ci siano dei problemi.” Rispose prontamente André allo sconosciuto.
“Peccato, ero proprio curioso, ne ho sentito parlare molto bene!” sospirò Fersen
“Ma voi chi siete?” chiese André incuriosito.
“Sono Hans Axel, conte di Fersen. Visto che anche voi siete qui, possiamo conoscerci meglio?” E sorrise alzandosi la falda del cappello. Tradito dalla sua vanagloria gli era sfuggito il nome e il titolo ma era certo che quei due non avrebbero fatto la spia. Forse degli amici gli avrebbero allietato il soggiorno e, una volta tornato ai suoi studi, avrebbe ricordato quei momenti con gioia associandoli a dei volti familiari.
Oscar annuì col capo ed esplose nel suo sorriso più dolce sentendosi turbata e allo stesso tempo felice.
“Potreste farci onore della vostra presenza stasera, conte” disse Oscar sperando che lui non la vedesse arrossire.
“Ne sarei onorato. Vogliate gentilmente farmi strada.”
Si
avviarono verso palazzo Jarjayes cavalcando velocemente.
Oscar discuteva amabilmente con Fersen chiedendosi tacitamente cosa le stesse succedendo, perché avvertiva una miriade di emozioni contrastanti.
André si sentiva come chi, emergendo da un incantesimo di fantasticherie, si trovasse di colpo su una nuova scena, intimamente colpito da ogni avvenimento o immagine e scoraggiato da amari pensieri.
Continua...
Mail to
1 La battuta è di Anna dai capelli rossi che mi piace tanto!
2 Ho attinto dal Miguel Mañara di O. V. Miloz
3 Ho preso il nome di questo tizio da uno dei diavoli dell’Inferno di Dante, mi piaceva tanto… Sfrutto le mie fonti…
4 ancora Miloz ^____^
5 Apprezzate lo sforzo immane che sto facendo, questo è il massimo del porno che posso darvi, non sono brava a descrivere queste cose…^_^!!!
6 L’Enrico V fa questo ed altro! Potere della catarsi!!
7 Anche se siamo nel ‘700 André è pur sempre un ragazzino di 16 anni e si fa bello per quello che considera un primo appuntamento