Ortiche e tele di ragno

 

Parte II

 

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Nota dell’autrice: In questo racconto Oscar ha circa 15 anni. Siamo perciò intorno al 1770. Nell’anime e nel manga Fersen giunge in Francia solo nel 1774. Pare che negli anni precedenti abbia viaggiato, per studio, in Italia ed in Germania. In questa storia si suppone che il conte nei suoi viaggi culturali abbia lasciato l’Italia e abbia voluto visitare la Francia prima di partire alla volta della Germania. Ho creato, dunque, un primissimo incontro tra Oscar, André e Fersen.

Delphine si era ritirata nel suo carro scappando dalle scene appena terminata la rappresentazione. Da tempo Caterina si era accorta di quell’insolito colorito giallastro, delle palpebre violacee, delle guance stanche e del cerchio scuro sotto gli occhi che conferivano al suo volto un’espressione sofferente. Ella fuggiva sempre appena finite le prove, non si soffermava a scambiare scherzi e facezie con gli altri. E ciò appariva alquanto inusuale per il carattere aperto e cordiale della donna.

Sicognac, con passo sicuro, andò diritto nelle stanze di Delphine, sperando di alleviare il malessere che l’aveva colta. Bussò con decisione ma non ebbe risposta. Pensò allora di entrare di forza. La vide riversa sul tappeto vicino al letto.

“Un dottore, per Dio!” Urlava come un indiavolato. Caterina corse a caracollo per le vie di Parigi bussando di porta in porta, non riuscendo a trovare nessuno. La sua disperazione, l’apprensione crescevano: Delphine aveva più che mai bisogno di aiuto. Un’ora più tardi stanca, con i piedi che le doloravano, aveva quasi perso ogni speranza. Guardò Pietro, suo fedele compagno e bussò all’ultima porta.

Venne ad aprire una donna corpulenta che l’invitò ad entrare. Suo marito era un medico, del popolo certo ma andava bene, l’importante era che Delphine potesse tornare in salute al più presto.

“Fammi strada ragazzino” La incitò il medico chiudendo la borsa dopo aver radunato tutti gli strumenti.

Humf!! Ancora veniva cambiata per un monello. Si guardò, in fondo con quei calzoni attillati di scena, quella casacca larga e quel cappello con pennacchio rosso, sembrava davvero un maschiaccio. E i capelli, i suoi bei capelli rossi per cui Sicognac la derideva, erano ridotti a una peluria cortissima.

"Pel di carota!" l'apostrofaca spesso Sicognac.

“Ignorante! Le carote non hanno peli!!”1 Rispondeva secca.

A questo pensiero sorrise.

L’attesa si rivelò snervante. Sicognac era apparentemente calmo, non gli interessava più di tanto perdere una potenziale amante, tutte gli cadevano ai piedi. Era abituato a ricevere i sospiri delle fanciulle da quando era poco più che un ragazzino. E Delphine non l’aveva mai degnato di uno sguardo. Si era impegnato con tutta la sua arte amatoria ma la buona ragazza aveva sempre respinto con motti arguti la sua ossessiva presenza. In fondo le donne gli facevano dono dei loro sospiri, dei moti del loro cuore e di ogni pensiero. Il suo fare istrionico aveva qualcosa di magico, una specie di alone misterioso. Neppure le nobildonne gli resistevano. Quante volte Caterina gli aveva fatto recapitare speciali biglietti profumati. Lui spariva per tutta la notte e si rifaceva vivo la sera seguente giusto in tempo per andare in scena. Del resto Sicognac sapeva di avere fascino, era alto, ben proporzionato, con un corpo elastico. Quel filo di barba, che ogni sua amante adorava solleticare dopo l’amore, lo rendeva irresistibile. D’altro canto lui ben sapeva come conquistare una donna, come camuffarsi per rendersi amabile. E se Delphine non accettava il suo amore, non era caso di prendersela tanto a cuore. Anche se… Qualcosa nel suo animo lo faceva scattare, una punta di orgoglio inferocito per l’allontanarsi della preda… Pensieri inutili! Inutili, certo, e poco appropriati. Un oscuro male si stava impossessando di Delphine. Sicognac si sentiva chiamato a starle vicino se non altro per mostrarsi amante apprensivo e nobile di cuore.

Tutta la compagnia era davanti al carrozzone di Delphine ad aspettare il verdetto del medico. Quando uscì gli si avvicinarono stretti stretti.

“Gravidanza a rischio, deve stare a riposo per tutti i nove mesi se non vuole perdere il bambino” Affermò grave il dottore stropicciandosi la barba.

Sul volto di Sicognac si dipinse una smorfia quasi buffa. Delphine incinta e di chi? Chi aveva avuto l’ardire di possederla prima di lui??!! Caterina sapeva dell’amore della bella attrice per un poeta che aveva incontrato in Guascogna. Un giovane squattrinato morto prematuramente di polmonite nella rigidità della sua amena abitazione. Eppure Delphine aveva deciso di mettere al mondo il frutto del suo amore. Ed ora, prostrata da quella nuova vita, non avrebbe potuto recitare nelle commedie che la compagnia si era prefissa. Infatti Monsieur Doumberle aveva predisposto di mettere in scena la più grande rappresentazione del Signor d’Inghilterra: Romeo e Giulietta. A chi, dunque, Sicognac, baldo e ardente Romeo, avrebbe sussurrato parole d’amore con quel fare ammiccante e seduttivo? Aveva studiato tutto per far cadere ai suoi piedi Delphine invece questo bambino gli scombinava i piani. Maledizione! Chi avrebbe rimpiazzato Delphine? Non certo Caterina, era troppo secca e sgraziata. E poi doveva recitare la parte di quel tal Mercuzio, matto come un cavallo. Caterina doveva solo correre su e giù per il palco urlando stramberie. La nuova Giulietta doveva per forza solleticare la curiosità di Sicognac, altrimenti lui non si sarebbe neppure presentato alle prove. Questo Doumberle lo sapeva bene ma aveva sempre accettato i suoi capricci per la sua bravura. Nessuna compagnia poteva vantare un fascino magnetico come quello di Sicognac.

“Maledizione, maledizione!! Delphine incinta di un altro!” Urlava Sicognac accelerando il passo per scappare dagli altri.

Ferito nel suo orgoglio di Don Giovanni decise di trovare conforto nell’alcool in qualche bettolaccia. La rabbia gli stava montando nell’animo, non riusciva a credere che Delphine l’avesse rifiutato per un’avventuretta con un poeta da strapazzo.

“Fragilità, il tuo nome è donna!” Sibilò a denti stretti quella frase che aveva ripetuto migliaia di volte sul palco.

 

André non riusciva a credere che Oscar si fosse svagata così tanto. Rifletteva sugli ultimi avvenimenti che gli avevano sconvolto l’esistenza. La loro amicizia si era trasformata. Non giocavano più, lei non gli raccontava più nulla, non gli confidava pensieri, paure, dilemmi, cose ridicole solo per il gusto di farlo ridere a crepapelle. Stavano crescendo. Eppure lei era sempre così strana. E lui si sentiva morire. In più sentiva crescergli dentro un sentimento fortissimo. La sera, nella sua stanza disadorna, si stendeva sul letto, chiudeva gli occhi e iniziava a sognare un universo parallelo. Le tristezze gli sembravano essere lenite dall’evasione fantastica. Avrebbe voluto essere importante solo per lei, gli bastava. Non resisteva più, gli sembrava di reprimere in cuore quel sentimento da troppo tempo e non riusciva a liberarsene, ormai era diventato parte di lui. D’altro canto tutto sembrava una tenera poesia per lei, tutto. Dalle stelle chiare che esplodevano in un’alchimia di colori alla luna di marmo, dalla magnolia del giardino che regalava quei candidi fiori carnicini ai cipressi sulla via del cimitero che infondevano quella quiete serena, dal canto dei passerotti che si perdeva in un cielo zuccheroso come quello d’estate ai tramonti che si smorzavano in un sussurro di quercia. Nel cuore sentiva esplodergli spari di fucile ed ogni volta che la rivedeva tutto si fermava a contemplarla con lui. Non trovava parole per descrivere quello che provava. Aveva cercato di mettere per iscritto i suoi sentimenti su un piccolo taccuino di cuoio rosso. Voleva trovare le parole più belle per rivelarle il suo amore perciò aveva scritto i suoi pensieri fluenti come un torrente in piena, tutto quello che gli evocava starle vicino, cercare il suo profumo sparso nell’aria. Si era scoperto ad annusare il cuscino del suo letto, ne riconosceva subito il profumo fresco e stava con il viso premuto sul piumino, chiudendo gli occhi immaginando di stringerla a sé. Erano cresciuti insieme e lui la conosceva meglio di se stesso, gli era entrata dentro, nel sangue che gli scorreva nelle vene, era maledettamente indispensabile, come l’aria che respirava, come la gioia, come il sole che vedeva alto nel cielo, come…non sapeva dire…non era un poeta, non sapeva trovare parole per esprimere quell’ondata di emozioni che gli tempestavano nel cuore, i colori, i profumi speziati, i sapori dolci che lei gli evocava. Si addormentò pensando a lei.

 

Quella locanda era luogo d’incontro di malviventi, bontemponi, puttane e poveracci desiderosi di far riposare al caldo le loro ossa. Sicognac in piedi su un tavolo, decisamente ubriaco, levava il calice ai nuovi compagni di sbornia.

“Lode a Sicognac! Nel più profondo degli inferi!!2” Urlava la combriccola alticcia. E prorompeva in risa sguaiate.

“Sì! Giù giù all’Inferno!!” urlava tra un colpo di tosse e l’altro Calcabrina3. Il vino gli era andato di traverso era si era messo a singhiozzare.

“Sicognac! Quante donne hai sedotto?” incitava la folla.

“Francamente, amici miei ho perso il conto.” Bevve un altro sorso. L’allegra brigata irruppe in risa fragorose.

“Silenzio, per Diana! Sicognac ha qualcosa da dirci!” Sbraitò un vecchio ubriaco con il grasso che gli colava dalla bocca e che si impastava con la barba. E suggellò il suo intervento con un rutto.

“E le duchesse? Quante duchesse?”

“Oh, almeno una cinquantina”

“Marchese?”

“quelle poi saranno una ventina”

“E popolane?”

“Un centinaio. Se non erro, ma a volte la memoria mi inganna! E’ più forte di me, quando vedo una donna penso a quella meraviglia, a quel travaglio che si chiama amore, e la voglio, la desidero, devo assolutamente farla mia. Se non cede, io mi scaltrisco e divento quello che piace a lei. So essere tenero, burrascoso, poeta. A una ragazza graziosa dico che è carina, se ha grande il naso, dico che è importante, se è grassa, diventa ai miei occhi sana e in carne. Pallida, assume il colore della luna, scura come la terra arsa dal sole, è del color delle terre d’Oriente. Io sono fatto di sogno, muto come loro mi vogliono e mai mostro la mia vera natura. E poi…”

Sicognac osservava il fondo vuoto del bicchiere. La sua voce era malinconica, nel suo delirio alcolico stava fluendo la parte nascosta di se.

“E poi mi la noia mi assale. L’entusiasmo passa, la donna per cui ho lottato, che ho voluto, che ho dovuto fare mia, cade nell’ombra ed io resto con una manciata di mosche in mano e stringere i pugni rabbioso, avvinto dal tedio che mi opprime il cuore. Ora se incontrassi Venere le torcerei il collo sbadigliando4 e me la porterei con me dritta negli Inferi.”

La combriccola non capiva, era presa dai lazzi e dalle risa, dal vino frizzante che scorreva a fiumi. Le donne ridevano e sedevano alzando vistosamente le sottane mentre Sicognac restava solo tra tutti a soffocare la sua disperazione più profonda in un altro boccale di vino.

Riuscì a trascinarsi fuori dalla taverna solo all’alba e raggiunse i carrozzoni fermandosi al carro di Isabelle. Lei lo fece entrare con un misto di gioia e sorpresa. Gli tolse i vestiti sudici. Lui le cadde addosso e tutti i fumi dell’alcol, la sua frustrazione della perdita dell’oggetto d’amore si riversarono su Isabelle che non aspettava altro. Era stata la sua amante qualche anno prima ma lui si era lasciato trascinare dalla foga per un nuovo amore. Le era rimasto il rimpianto per quella storia finita. Lo accolse nel suo letto. Sicognac, stordito dall’alcol, si lamentava come un predatore deluso. Sentiva l’oscura presenza di Isabelle muoversi con lui nel buio, una presenza sottile e mormorante come un ruscello. Le sue mani stringevano quella sbiadita forma ed egli digrignava i denti nello sforzo immane della penetrazione5.

 

Caterina aveva passato il resto della nottata al capezzale di Delphine, bagnandole il volto con una pezza intrisa di acqua fredda. Consolava l’amica, le ripeteva giuramenti di amicizia, le confermava la sua presenza in qualsiasi caso. La mente correva a Sicognac, dov’era andato a cacciarsi quel buono a nulla? Lo scorno era stato troppo grande. Lo conosceva fin troppo bene. Perché aveva quell’ossessione delle donne? Era un giovane così affascinante, metteva l’anima in ciò che credeva. Aveva solo quella brama di possesso che lo prendeva al cospetto di qualcosa da cui era attratto e quando riusciva ad ottenere tutto, imponendo la sua stessa misura sulle cose, la realtà si ribellava, ed egli affondava in un’apatia che raggiungeva livelli cosmici. Il capocomico Doumberle ripeteva che sarebbe finito male. Se solo si fosse accorto di lei! Ma non aveva speranze, grazie al carattere burrascoso che si ritrovava era sempre in lite con Sicognac tanto che finiva per mandarlo al diavolo. E lui cosa credeva? Che lei dovesse gestire i suoi rapporti con le amanti? Tutte quelle smorfiose le affidavano messaggi d’appuntamenti per lui che sfilavano dalle ampie e generose scollature. La stizza si impadronì di Caterina. Odiosamato Sicognac!

“Vai alla malora!” pensò chiudendo violentemente gli occhi come per dar forza e consistenza al pensiero.

 

L’alba faceva capolino tra campanili e cupole, correndo, appena spruzzata di pioggia, fresca sui cornicioni di marmo, facendo cadere ad uno ad uno i suoi veli ed insinuandosi nella camera di André, posandosi con tocco tiepido sul suo viso.

Si svegliò tutto avvolto nelle lenzuola. Si divincolò da quell’abbraccio di panno e si stropicciò gli occhi pieni di sonno.

“André, André, svegliati, devi portare la colazione a madamigella Oscar!!” Era la voce della nonna che lo chiamava e gli ricordava i suoi doveri di domestico.

Con un immenso sforzo si alzò e si preparò.

La nonna era furente, lo salutò con una mestolata sulla testa, tanto per imprimergli ben chiaro nella memoria che gli attendenti non hanno tempo per poltrire.

“Corri da madamigella Oscar, la cioccolata si sta freddando” sbraitava la nonna brandendo il mestolo.

André si catapultò al piano di sopra.

“Oscar, svegliati, ti ho portato la colazione!” Bussò dolcemente ma dall’altra parte non gli rispose nessuno.

“Oscar…” Silenzio…

“Maledizione! Oscar, farai tardi a Versailles!” Entrò all’improvviso nella stanza ormai alterato.

“Strano, non c’è nessuno.” Guardò con desolazione il letto vuoto e sfatto.

“A meno che…” Fece a malapena in tempo ad alzare un braccio quando, all’improvviso, lei spiccò un salto da dietro la porta e gli tirò una cuscinata.

“Brutta peste!” Rideva André, di cuore. Oscar aveva le lacrime agli occhi. Puntò l’indice contro di lui e cominciò a saltellargli intorno cantilenando:

“Gonzo gonzo! Ci sei cascato!!”

“In guardia! Voglio la rivincita!”

André era lieto di tutta quella gioia. Gli sembrava di essere tornato ai tempi della loro infanzia. E tutto per uno spettacolo teatrale che li aveva distratti per un attimo dai pensieri, dalle ossessioni di un imposizioni dispotiche e dai primi turbamenti dell’amore6.

“Senti, non sei molto attraente in camicia da notte, fila a cambiarti o vuoi dare ordini ai tuoi soldatini in queste condizioni?!” Con una linguaccia Oscar obbedì.

La giornata di Oscar era fatta di scintillii di lame, di damerini incipriati, di parate sfarzose. André la osservava urlare ordini a delle marionette, con tutto il suo vigore, contraendo il viso rabbiosamente. Spesso si estraniava e gli sembrava davvero buffa, una ragazzetta in uniforme a dare ordini a una schiera di soldati più grandi di lei. Quando non era richiesta la sua presenza, André passeggiava nei giardini di Versailles aprendo le braccia al sole e respirando nell’aria i profumi dell’erba novella. Quella sera avevano progettato una scappata a quel teatro improvvisato. Aveva promesso alla sua amica una serata all’insegna della fantasia, anche se l’evasione in un universo impalpabile era una tristezza. Sua nonna, santa donna, tra una mestolata e l’altra, gli aveva sempre insegnato a guardare il reale per quello che veramente è. Questo atteggiamento era visibile in ogni suo approccio: Oscar era una donna, poteva mettersi l’uniforme, sguainare la spada, parlare con freddezza maschile ma era sempre una donna. La nonna non riusciva a chiudere gli occhi di fronte alla realtà come il Generale che aveva finto sin dall’inizio di avere un figlio maschio.

Il sapore dolce della trasgressione faceva battere il cuore di André all’impazzata. Sapeva bene di fare un dispetto al Generale, sua figlia stava sorridendo, non era più una statuina da manipolare, una bellissima bambola dalla volontà malleabile.

Oscar, tira fuori tutto il fuoco che c’è in te, tutta la tua passione, il tuo stupore, il tuo entusiasmo. Dimostrami che non sono morti, dimostrami che sei viva!!

Rincorreva così i pensieri che il cuore gli dettava estraniandosi da tutto.

Al tramonto tornarono a casa velocemente con gli occhi nel sole che lentamente declinava all’orizzonte. Più tardi André , nella sua stanza, si osservava davanti allo specchio. Si prese il mento con due dita e sollevandolo ripetutamente osservava la sua barba ancora troppo corta per essere tagliata. La morbidezza della pelle rivelava la giovane età. Si passò una mano nei capelli aggiustandoli con cura. Indurì il volto e con le mani cariche d’acqua lavò via la stanchezza e la frustrazione. Indossò la camicia inamidata che profumava di bucato e abbottonò la giacca7. Incontenibilmente emozionato, piroettò su se stesso e uscì.

 

Un giovanotto stava cavalcando per le vie di Parigi dando mostra di tutta la sua baldanza. Un ragazzo di una bellezza mai vista: sporgenti gli zigomi segno di furbizia. L’occhio, di un blu intenso, aperto e intelligente, il viso finemente disegnato, troppo alto di statura per un adolescente, troppo basso per un uomo fatto. I capelli, raccolti nel nastro, gli scendevano mollemente lungo la schiena. La spada appesa alla bandoliera di pelle sbatteva lungo i suoi polpacci. Guardava Parigi stupito, soffermandosi ad osservare il brulicare colorato della gente al mercato, i mendicanti, le carrozze che ondeggiavano sulle strade sassose. Mostrava una meraviglia insolita per un ragazzo della sua età. Al suo passaggio le ragazze si voltavano guardandolo sfrontatamente. Lui reagiva calcandosi il cappello piumato sugli occhi. Vedendolo solo e così inesperto qualcuno avrebbe potuto pensare che egli fosse il figlio di qualche ricco mercante eppure la finezza dei lineamenti, quel modo così elegante di tenere le briglie del cavallo imponendo la sua forza sull’animale, gli abiti di ottima fattura ne rivelavano i nobili natali. Si trattava del giovane conte Hans Axel di Fersen. Il padre aveva deciso, secondo la miglior tradizione, di mandarlo all’estero per compiere gli studi degni di un gentiluomo. Hans aveva studiato in Italia e, prima di recarsi in Germania, era stato preso da una gran curiosità per la Francia che lo aveva indotto a deviare il suo viaggio, ben sapendo che suo padre non avrebbe approvato. Parigi gli trasmetteva un fascino vitale e si ripeteva che la decisione di fermarsi un po’ laggiù era stata più che giusta. Una strana sensazione si insinuava nel suo cuore e gli faceva intendere il suo destino come indissolubilmente legato a quella terra straniera. Amava la vita, la mondanità e avrebbe desiderato riuscire ad entrare a corte ma suo padre era all’oscuro di quella bravata e non voleva che qualcuno potesse riferirglielo. Così, senza destare clamore, aveva preso alloggio in una locanda del centro. Ripensava a quando era partito. Suo padre l’aveva guardato serio e gli aveva fatto dono della spada che apparteneva da generazioni ai conti di Fersen. Sua madre si era sciolta in lacrime e l’addio era stato più lungo e tenero. Ella aveva pianto abbondantemente e, per quanti sforzi avesse fatto Hans nell’intento di rimanere impassibile, come avrebbe dovuto esserlo un vero uomo, la natura aveva avuto la meglio ed egli aveva versato molte lacrime benché fosse riuscito a nasconderne, con grande contegno, la metà.

“E bravo Hans!” pensava. “Mio padre non sa nulla, crede che sia in viaggio alla volta della Germania.” Era un compiaciuto di se stesso, cominciava a sentirsi adulto.

Aveva sentito la padrona della locanda parlare entusiasta di uno spettacolo improvvisato da saltimbanchi che avevano raccolto molti consensi col loro teatrino improvvisato. Complice la curiosità tipica della giovinezza, aveva deciso di andare a vedere.

 

Cavalcarono in silenzio, un muto imbarazzo era calato tra loro. André la spiava di sottecchi sperando di cogliere un gesto, un sorriso, un’espressione del volto. Oscar dal canto suo teneva lo sguardo basso fisso al sentiero.

Arrivarono nel centro di Parigi ma con loro grande sorpresa non il palco improvvisato in mezzo alla piazza.

“ Niente recita oggi!” esclamò André “Strano, una compagnia si guadagna da vivere con gli spettacoli.”

In quel preciso istante Caterina uscì dal carrozzone e, vedendo i due giovani, indovinò dalle loro espressioni, la delusione del mancato spettacolo. Si avvicinò lentamente.

“Oggi non è previsto nessuno spettacolo. L’attrice principale è stata colta da malore improvviso e l’attore…beh, è impossibilitato a salire sul palco.” Parlava tenendo lo sguardo basso, arrossendo e torcendosi le mani.

“E domani?” chiese Oscar curiosa

“Purtroppo non so nulla, arrivederci signori” e scappò via col volto in fiamme. Non poteva dire che a causa della gravidanza di Delphine Sicognac passava tutte le giornate a zonzo dividendosi tra taverne e donnacce.

“Pezzo d’asino!” le sfuggì rabbiosamente con le lacrime che pungevano gli occhi orlati di rosso.

 

Delusi, montarono in sella quando una voce li chiamò:

“Hey voi! Mi hanno parlato di un teatro fatto da girovaghi ma qui non c’è nulla. Sapete qualcosa?” 

Oscar si voltò e si trovò di fronte ai più begli occhi che avesse mai visto. Le ricordavano il cielo di Arras in primavera, quando lei e André correvano felici tra i papaveri che ondeggiavano nel vento.

“No, stasera niente spettacolo. Pare che ci siano dei problemi.” Rispose prontamente André allo sconosciuto.

“Peccato, ero proprio curioso, ne ho sentito parlare molto bene!” sospirò Fersen

“Ma voi chi siete?” chiese André incuriosito.

“Sono Hans Axel, conte di Fersen. Visto che anche voi siete qui, possiamo conoscerci meglio?” E sorrise alzandosi la falda del cappello. Tradito dalla sua vanagloria gli era sfuggito il nome e il titolo ma era certo che quei due non avrebbero fatto la spia. Forse degli amici gli avrebbero allietato il soggiorno e, una volta tornato ai suoi studi, avrebbe ricordato quei momenti con gioia associandoli a dei volti familiari.

Oscar annuì col capo ed esplose nel suo sorriso più dolce sentendosi turbata e allo stesso tempo felice.

“Potreste farci onore della vostra presenza stasera, conte” disse Oscar sperando che lui non la vedesse arrossire.

“Ne sarei onorato. Vogliate gentilmente farmi strada.”

Si avviarono verso palazzo Jarjayes cavalcando velocemente.

Oscar discuteva amabilmente con Fersen chiedendosi tacitamente cosa le stesse succedendo, perché avvertiva una miriade di emozioni contrastanti.

André si sentiva come chi, emergendo da un incantesimo di fantasticherie, si trovasse di colpo su una nuova scena, intimamente colpito da ogni avvenimento o immagine e scoraggiato da amari pensieri.

 

 

Continua...

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1 La battuta è di Anna dai capelli rossi che mi piace tanto!

2 Ho attinto dal Miguel Mañara di O. V. Miloz

3 Ho preso il nome di questo tizio da uno dei diavoli dell’Inferno di Dante, mi piaceva tanto… Sfrutto le mie fonti…

4 ancora Miloz ^____^

5 Apprezzate lo sforzo immane che sto facendo, questo è il massimo del porno che posso darvi, non sono brava a descrivere queste cose…^_^!!!

6 L’Enrico V fa questo ed altro! Potere della catarsi!!

7 Anche se siamo nel ‘700 André è pur sempre un ragazzino di 16 anni e si fa bello per quello che considera un primo appuntamento