Ortiche e tele di ragno
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La
luna rischiarava con la sua pallida luce le odorose campagne francesi che
parevano oramai addormentate mentre un sottile vento freddo faceva fremere le
chiome degli alberi cullando i sogni degli uomini, donando loro placida quiete
dopo una giornata di sacrifici e fatiche. In lontananza i gufi si scambiavano
richiami d’amore come lunghi singhiozzi che rompevano ritmicamente il lento
fluire della notte. Tutto era sentore di quella corrispondenza naturale che
sovrasta gli umani pensieri.
“Ah!
Potessi aver qui una Musa di fuoco per ascendere al più luminoso cielo della
fantasia; un regno che mi facesse da palcoscenico, dei principi che fungessero
da attori e dei monarchi da spettatori di questa grandiosa scena1!!”
Mormorava Caterina distesa nella sua branda mentre il carrozzone della
compagnia, oscillando, la stava portando lentamente a Parigi. Fantasticava sulla
commedia del signor d’Inghilterra2,
sulle sensazioni forti che le riempivano il cuore quando saliva sul palco e
recitava con tutta la sua passione. Viveva per il teatro e, benché la vita del
saltimbanco non fosse delle più semplici, quando recitava in mezzo alle piazze,
sentiva una tale gioia scoppiarle nell’anima che null’altro al mondo le
sembrava più bello.
“Domani
saremo finalmente a Parigi. La città di Monsieur Doumberle. Molti della
compagnia sono francesi e potranno rivedere la loro patria. Immagino la loro
felicità!…Parigi!” Sussurrò a Pietro il fedele gatto nero, suo compagno di
letto. Chiuse gli occhi accarezzando il gatto e, sospirando, scivolò
nell’incoscienza.
Alla
mattina il carrozzone giunse finalmente a Parigi e agli occhi degli attori si
aprì lo spettacolo della vita cittadina, era divertente osservare l’intorno
dall’alto del carro. Le strade erano un flusso continuo di gente. Si vedevano
cappelli, un mare di cappelli di feltro. La maggior parte erano neri e duri.
Ogni tanto se ne vedeva uno che s’involava lasciando scoperto il luccichio di
un cranio, poi, dopo qualche istante si posava. Le bancarelle, come chiazze di
colore, riempivano i vicoli offrendo i tessuti pregiati delle Fiandre, i frutti
della terra, i vini aspri Guascogna, e il pesce appena pescato. Il
chiacchiericcio si diffondeva per le vie. Tutto era così incredibilmente
frenetico … tutto era così terribilmente…vivo!
“Siamo
a Parigi Sicognac! Che tu possa crederci o no!” Urlò aprendo le braccia alla
piazza Lampourde
“La
nostra amata Parigi! Quanto tempo! Sicognac cosa ne dici?” Un sorriso
compiaciuto si dipinse sul volto del capocomico Doumberle e gli occhi gli si
velarono di pianto alla vista della città in cui era nato e cresciuto ma da cui
aveva dovuto allontanarsi per salire sui palchi del mondo.
Sicognac
esplose in una fragorosa risata, era lieto di essere ritornato a casa, mancava
da tempo, non ricordava neppure quanto. Anche se, a ben pensare, non trovò
neppure una ragione che lo avrebbe potuto persuadere a rimanere a lungo. Dopo
tutto aveva scelto di non avere un tetto stabile sopra la testa, di cambiare
posto, di vivere le emozioni, le gioie, le paure, i dolori di qualcun altro,
principi, re, folletti, innamorati. In questo modo la sua vita era un incessante
cambiamento. Anche il suo cuore si era scaltrito e non aveva un punto fermo, un
centro di affezione e giudizio. La sua parte istintiva aveva preso il
sopravvento e conosceva tutte le astuzie per occultarsi e mutare secondo le
circostanze. Così si era creato il vuoto intorno ma la notte, quando
sopraggiungeva lo sconforto, restava solo con la sua tristezza e sentiva la vita
scivolargli tra le dita.
“Forza,
mettiamoci al lavoro” La voce di Doumberle lo scosse da quei pensieri
malinconici
“Manca
qualcuno!” osservò Lampourde
“Caterina!
Caterina! Diamine svegliati! Siamo in città e dobbiamo montare il palco, fare
la spesa e presentare lo spettacolo! Vestiti e vieni subito ad aiutarci!” Urlò
Sicognac con voce imperiosa che richiamò Caterina dalla terra confusa dei
sogni. Si alzò di scatto facendo rotolare Pietro ai suoi piedi. Si vestì con
tutta la fretta per aiutare i suoi compagni a montare il palco sul quale
avrebbero recitato. Il lavoro era duro ma lei lo faceva volentieri. Ormai
considerava quella compagnia come la sua famiglia adottiva. Parecchi anni prima,
infatti, era scappata dall’orfanotrofio nel quale aveva trascorso tutta la sua
infanzia ed era stata raccolta da Sicognac che l’aveva subito aiutata e
adottata come membro effettivo di quella combriccola di matti. Voleva bene a
tutti. Il capocomico Doumberle era come un padre per lei, l’aveva accettata
subito senza problemi e le aveva accordato il permesso di recitare, di entrare
in quel mondo di fantasia. Il caro buon vecchio Lampourde, le era sempre
accanto; quando era triste si metteva la biacca sul viso, si dipingeva il naso
di rosso e le portava un fiore per farla ridere, non riusciva a ricordare
neppure un momento in cui non fosse presente accanto a lei, per sostenerla o per
asciugarle le lacrime. Delphine era una sorella maggiore, le aveva insegnato a
recitare, a trovare il coraggio di salire su un palco e mostrare tutto
l’impeto di cui era capace il grande animo di Caterina. Isabelle, invece le
usava indifferenza, non le aveva mai fatto dono di una parola gentile, un gesto
affettuoso! Insomma, non c’era di che annoiarsi! E poi c’era Sicognac…
Caterina ne era follemente innamorata benché avesse un’indole forte,
battagliera, egli era sempre pronto alla rissa e alle avventure d’amore. Con
tutte le donne che gli ronzavano attorno sembrava non accorgersi di lei che si
portava dentro quel segreto da molto tempo. Forse da quando era ancora una
bimba, da quando lui l’aveva salvata dalla strada e le aveva dato una
possibilità di vita.
“Venite
signore e signori al nostro spettacolo che, per dirla senza falsa modestia, è
il più bello di tutta la Francia! Accorrete ad assistere alle commedie
dell’insigne signor d’Inghilterra che narra degli sfortunati amanti, le cui
vicende si chiudon tragicamente con la morte. Per non tacer delle battaglie e
degli amori di Enrico che combatté contro il re Carlo e conquistò il cuore
della bella Caterina! Venite prestamente” Urlava Sicognac a squarciagola sul
quel tavolato di legno improvvisato nella piazza. La gente del popolo arrestava
il suo frenetico via vai incuriosita e si avvicinava facendo capannello intorno
al carrozzone della compagnia.
D’un
tratto la tenda turchina si aprì in un nugolo di polvere. Sicognac saltò al
centro del palco con un maestoso inchino, era buffo quando piegava le sue gambe
lunghissime, sembrava un ragno! Aprì le mani sul viso e cominciò a declamare
in tono crescente guardando il pubblico stranito:
“
Possono stare in questa O di legno le dolci colline di Francia, i suoi
sterminati campi che furono luogo di scontro e aspre battaglie? Perdonate questi
poveri diavoli che osarono portare su quest’asse la terribile battaglia di
Agincourt. Immaginate allora le alte torri dei castelli ergersi minacciose,
araldi, principi perfidi, cortigiani e buffoni. Create, dunque, con il fuoco dei
vostri pensieri lo scintillio delle lame, la robustezza delle aste. Cavalieri e
cavalli divideteli a metà per aumentarne il numero. Impugnate l’elsa e
correte alla volta della battaglia e che Dio metta voi le ali ai piedi.”
Sicognac
era in preda ad una frenesia febbrile, quasi stesse davvero al campo di
Agincourt nel giorno di S.Crispino, chiamava i suoi guerrieri a gran voce e
invocava la gloria di Dio.
“Non
nobis Domine sed nomini tuo da gloriam”3
Entusiasmante!
Il pubblico sembrava rapito dalla sua persona, dai suoi scatti veloci, dalla sua
voce imperiosa. Caterina non aveva occhi per lui. Lo trovava affascinante,
misterioso. E bello, bello come una nottata di temporale, come il lampo che
squarcia il cielo, come il ruggito del tuono, come la tempesta che spezza il
tronco della quercia e sradica gli arbusti. Forte, forte come il vento che si
agita forsennato, piangente e rabbioso contro le case. In quegli occhi neri come
brace vi si leggeva tutto l’impeto di un animo burrascoso e i capelli ricci
che si perdevano sulle spalle in volute lunghissime gli davano un fascino da
maledetto che piaceva tanto al gentil sesso. Caterina provava sempre un brivido
in fondo al suo cuore quando lui le sorrideva. Recitava quasi mettendo a nudo la
rabbia che gli urlava dentro, il suo personaggio gli rubava l’anima, non era
più lui… Poi tornava il Sicognac di sempre, menefreghista, donnaiolo e
cieco… E non la considerava neppure una donna. Infatti, per il suo fisico
asciutto e scattante, il capocomico Doumberle l’aveva subito ingaggiata come
interprete maschile. Questo era l’unico cruccio di Caterina.
“E poi, a causa dei pidocchi, mi hanno rasato tutti i capelli. Accidenti! E accidentaccio anche a te Sicognac che non ti accorgi di me!!!” Urlò scaraventando il cappello di scena addosso al povero Pietro che inarcò la schiena e scappò miagolando disperato.
“Forza Pietro! Devo assolutamente andare in scena. Enrico aspetta il suo Fluellen4. Ci vediamo dopo mio piccolo amico peloso” E fuggì veloce stropicciandosi i fianchi per assestarsi la veste.
Il
vento portava con sé l’odore bruciato delle campagne e i suoi turbini ancora
gelidi non avevano scoraggiato le prime rondinelle che garrivano in un cielo
puro come il cristallo. Dall’altra parte della città, due giovani
passeggiavano a cavallo. Un’ombra pareva intromettersi tra loro. Lei teneva lo
sguardo duro sul sentiero senza proferir parola. Lui la osservava con la morte
in cuore. Non aveva ancora accettato che non fosse più la sua amata compagna di
giochi. L’estate sembrava un ricordo, poco era passato da un tempo felice
prima che un avvenimento si fosse posto come rottura e avesse segnato il rapido
passaggio dalla fanciullezza ad un mondo di disincanto. Suo padre l’aveva
educata come un uomo e ora le aveva chiesto di indossare l’uniforme di
comandante delle guardie reali. Qualcosa era cambiato in lei, non aveva più
quella risata innocente né quello sguardo canzonatorio e spensierato. Aveva
deciso di sottomettersi ai desideri del Generale rinunciando a tutta la sua
luminosità, e ora non osservava più le cose con lo sguardo innocente di un
bimbo. Stava scivolando nella tristezza del mondo e indossava quotidianamente
una maschera dura e inespressiva, impermeabile alle emozioni e alle passioni.
Non voleva. Per Dio! Cosa le avevano fatto!
Si
udivano lo scalpitio dei cavalli e il fischio del vento…né una parola né un
sorriso. Lei aveva lo sguardo velato di pianto, lui frustò il cavallo per
fuggire da quel dolore. Non aveva nessun potere per fronteggiare quella volontà
cieca…Quante volte avevano gareggiato a chi arrivava prima alle scuderie e
lei, ridendo, lo aveva canzonato per la sua lentezza. Lui, a sua insaputa,
tirava le briglie del cavallo per farla passare e osservare i suoi capelli
danzare nell’aria e i suoi occhi socchiudersi in mille stelle quando gli
sorrideva. Ultimamente, invece, vi scorgeva solo lacrime e sentiva i singhiozzi
provenire dalle sue stanze. Credeva che non se ne accorgesse? Quando lo
congedava con quel suo tono secco era perché stava per scoppiare in un pianto
rabbioso. E questo per lui era peggio di una ferita perché era impotente, non
doveva, non POTEVA intromettersi nella sua vita. Anche se… quando lei piangeva
una lama gli trapassava il cuore. Anche se…di lei gli importava più della sua
stessa vita. Anche se…a lei non importava nulla di quello che provava lui.
Perché stava innamorandosi di un altro. Sentiva che era così.
“Oscar!
Facciamo ancora una cavalcata prima che diventi buio” mormorò lui con un
sorriso forzato.
Oscar
si destò dal suo torpore riemergendo a fatica dai sentimenti rabbiosi che le
rullavano nel cuore.
“Buona
idea André, vediamo chi arriva prima al centro di Parigi!!” i suoi occhi si
spalancarono e gli sorrise stupita
“Sei
sempre una ragazzina e la tua
spontaneità ostinata e ribelle, emerge quando meno te l’aspetti”5.
Cavalcarono
senza sosta finché giunsero nella piazza della città. La loro attenzione fu
calamitata dallo scroscio di applausi.
“Guarda
laggiù André!! Uno spettacolo teatrale!” gridava Oscar tutta eccitata. Oscar
era curiosa per natura e si avvicinò se non altro per fugare paure e
dispiaceri, per un breve attimo di pace. André ogni tanto si voltava a
guardarla: il suo viso si era disteso, gli occhi spalancati e rapiti al
susseguirsi delle scene. Quella piccola bocca aperta per la meraviglia…
Sicognac
era fiero, il suo petto si gonfiava di orgoglio quando il pubblico applaudiva e
i due grandi occhi neri ardevano sotto i capelli appiccicati alla fronte sudata.
Si piegò nell’inchino con quelle gambe lunghissime, orgoglioso di essere
stato ancora un Enrico V battagliero, irruente. Guardava il pubblico e sorrideva
di compiacimento, aveva ancora in sé l’animo del grande re. Delphine,
nell'abito di perle e merletti cucito appositamente per lei, appariva
stranamente pallida e frastornata, tanto che Caterina notò il suo repentino
ritiro dalle scene, senza inchini
al pubblico per ricevere le ovazioni.
Oscar
applaudiva, André era lieto di vedere un’ombra fugace di gioia sul suo viso
sempre contratto in una smorfia di rabbia dolorosa.
Nel
tragitto di ritorno, Oscar era eccitata e ciarliera. Parlava dello spettacolo,
di come lei era riuscita ad immaginare la battaglia di Agincourt in quel
teatrino sgangherato.
André
sentiva solo il suo cuore battergli forte forte. Ormai si era accorto di volerle
bene in un modo diverso e i suoi sospiri erano solo per lei, ogni attimo della
sua vita pareva benedetto da quella presenza costante. Si era sentito impotente
quando il Generale le aveva chiesto di diventare un soldato, calpestando il suo
essere donna. E lui, nella sua piccolezza, aveva votato la sua vita a farla
felice, a stare con lei per sempre e farle vedere la bellezza che c’è in
tutto. Il sole stava calando e una mano invisibile dipingeva l’orizzonte a
sprazzi. Fili di nuvola color perla si perdevano nell’immensità di un cielo
morbido e freddo. Presto sarebbe calata la notte portando promesse e presagi.
“ E
cerco di esprimere a parole ciò che non si può…” mormorò lei
improvvisamente assorta
“Scusa?”
“No…niente,
scusami André, sono stanca. Buona notte.” Sorrise malinconica.
“Buona
notte, Oscar”
Con lo
sguardo basso, André si diresse nelle sue stanze.
Continua...
Mail to
1 Questo è l’inizio del coro dell’Enrico V (atto primo, scena prima) delle più belle opere di W. Shakespeare (almeno secondo me).
2 Parlerò spesso di questo fantomatico “Signor d’Inghilterra”, mi riferisco al mio benamato Shakespeare. Suppongo che la protagonista, Caterina, non possieda la cultura per capirne l’importanza.
3 “Non a noi Signore ma al nome tuo da' gloria” è un salmo che Shakespeare fa ripetere spesso a Enrico V
4 Uno dei personaggi dell’Enrico V
5 Ho messo il corsivo perché André sta pensando.