Il compleanno
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Da quel colle, situato nel grande parco della famiglia Jarjayes si prendeva l’intorno: campi, casupole, piante, cielo. André amava rifugiarsi lì, dal suo masso sentiva le liti tra il vento e il sole, vedeva i braccianti indefessi alzare gli occhi al cielo asciugandosi la fronte, leggeva sui loro volti interrogativi senza risposta. Stava in silenzio senza muoversi per ascoltare l’intrecciarsi di suoni che quel luogo gli proponeva: i pigolii, le voci dei contadini che si chiamavano, il frinire delle cicale. Da qualche tempo trascorreva così le ore nei caldi pomeriggi d’estate, con lo sguardo perso nell’orizzonte a rincorrere pensieri. Non lo attiravano più i giochi, e neppure Oscar, il suo migliore amico pareva destare la sua attenzione. Ma qual pomeriggio era diverso, sentiva che qualcosa stava cambiando, i suoi pensieri seguivano linee più contorte e, non sapendo perché, spesso si trovava a piangere.
«Che fai André, distilli pensieri??!!» urlò una vocina alle sue spalle. Era Oscar, il suo compagno di giochi, o meglio la sua compagna di giochi, visto che il Generale suo padre aveva deciso di educarla come un uomo e lui doveva starle vicino per mostrarle come un vero uomo si comporta. I suoi capelli biondi scintillavano sotto il sole ed il suo sorriso era radioso, lo sguardo canzonatorio come sempre, un vero monello di tredici anni. Ella si sedette vicino a lui. Vedendo il suo amico insolitamente taciturno si rattristò senza una ragione precisa. Stettero per interminabili momenti in silenzio, alla fine ella, come un fiume in piena, distesa sull’erba ad occhi chiusi prese a dire:
«Se chiudo gli occhi rivedo paesaggi da sogno, il lento curvarsi delle colline cosparse di fiori, gli alberi di ulivo con le foglie come lance di bronzo, la mimosa giocare saltellando al vento e sento i profumi di un tempo passato, e un bimbo, tu, fare capolino col musetto tra i ranuncoli tenerelli che piegano il loro capo e sento ululati di cani da caccia. Ad ogni angolo vedo fontane con acqua fresca di chiare sorgenti, segreti bui anfratti che, come porte magiche, collegano le parti del paese di Arras, case di pietra barcollanti ergersi precarie, sprazzi di cielo rubati alle volte, muli che passano con fare lento, le ore scandite dal campanile. Storie da bimbi come quella dell’uccello-gatto che si credeva abitasse sul tetto della chiesa rossa. Tanti nasini all’insù e gli occhioni persi in leggende inventate da voci cristalline. Ricordi? Anche io e te eravamo là sotto, con il viso alzato in attesa di vedere quell’animale prodigioso che riecheggiava nella mia mente e si ingrandiva diventando ad ogni racconto più terribile. Tra un coro di “Oh! Ah! Uh!” mi cadde un uovo in testa. Che urla, la maledizione, si diceva, dell’uccello-gatto…Un semplice barbagianni che alla fine si era spaventato e credo si fosse stufato di essere osservato. Ti ricordi vero André? Le nostre estati in Normandia? Tra la gente del popolo. Io e te a rincorrerci in quel fiumiciattolo malsano pieno di zanzare ma così bello. Quanta strada per arrivare a valle laggiù. E che risate, quando ti spinsi e cadesti in acqua! Eri bagnato come un pulcino e non potei fare a meno di ridere. E i giochi, le corse, le tirate di scherma, le gare a chi si arrampicava più in alto? C’era una pineta dove andavamo sempre quando mi sentivo triste, così bella e intricata, filtravano pochi raggi di sole, il profumo della resina si univa alle nostre epifanie infantili in un fiume di pensieri, umori, sensazioni, di teorie di come funziona il mondo. Filosofie infantili. Ti ricordi quando nella pineta ci colse quel temporale, eravamo zuppi fino alle ossa ed io, coi capelli appiccicati ti guardai chiedendoti: “André André, perché piove?” Tu mi fissavi con quei grandi occhi verdi, e dicesti, con la maturità di un anno di più: “Per dare l’acqua alle rose” Ed in questo modo rimasi a bocca aperta a contemplare il miracolo con stupore traboccante di bambino che vede tutto come nuovo e si avvicina titubante ai segreti della natura. Nella mia ingenua fanciullezza intuivo la necessità dei fiori visto che li avevo sotto gli occhi, lì sul ciglio del sentiero. Quante ne abbiamo passate insieme! » E dicendo questo si circondò le ginocchia con le braccia.
Sorridendo e fissando lo sguardo nel vuoto, pensando a quando erano bambini tutto sembrava più dolce, a quel tempo lui non si era accorto della differenza di classe che sembrava dividerli e neppure dell’affetto che gli maturava in cuore ogni giorno di più vedendola, parlandole o semplicemente standole accanto, silenziosa e discreta presenza.
«Certo che lo ricordo Oscar, ma più che mai è vivido quel cielo di marzo che ci vide fuggitivi verso Parigi. Tutto nell’aria tremava di freddo ma un sole distante splendeva nel cielo di vetro e gli alberi alzavano lunghe trame aprendo le loro dita mendiche all’infinito. Scappammo come forsennati a cavallo con mia nonna che ci correva dietro per poi fermarsi, stremata, pochi metri più avanti. La giornata certamente più affascinante che abbia mai passato, correvi e non ti fermavi per i viottoli di Parigi, ti insinuavi ovunque con quell’ansia di bimba assetata di vita. Camminavi al mio fianco, stringevi la manica della mia blusa per non perderti e poi, all’improvviso non ti ho visto più. Sei sempre stata così: quando qualcosa colpisce la tua attenzione, nulla ti tiene, avverti subito l’urto e ti prende una curiosità frenetica tanto che muta l’espressione del tuo viso, gli occhi si spalancano e saltelli ovunque cercando di capire. Per fortuna ti ho trovata, ti eri intrufolata in quella stradina sassosa che porta alla Senna. Di là incantata guardavi il ponte e le case rosse, e i panni stesi dalle finestre e le popolane grasse lavare il bucato con le sottane gonfie raccolte sopra le ginocchia. E tu ti sporgevi a salutare tutta agitata e a chiamare quelle donne. Poi siamo tornati a casa a sera, tenendoci per mano, con un segreto in più. La nonna ci ha coperto e il Generale tuo padre non ha mai sospettato nulla anche se certamente si chiedeva il perché dei nostri sorrisi complici e degli sguardi di sottecchi. Siamo sempre stati insieme, ho imparato a capirti, a leggerti dentro, a comprendere tutto l’entusiasmo e la passione che hai dentro. Il tempo e le stagioni si sono avvicendate e siamo cresciuti eppure…» Oscar lo guardava perplessa, corrucciando il visetto come era solita a fare quando non capiva le cose che le dicevano.
André pensava che lui l’aveva seguita per anni, accettandola interamente senza pretendere nulla in cambio ma avvertiva che stava mutando il tempo come l’estate che cede il passo all’autunno. Il Generale di lì a poco avrebbe voluto che lei indossasse l’uniforme, sacrificando tutto ciò che lei era per un suo capriccio, questo pensiero lo feriva enormemente. Non solo, quando la guardava sentiva che avrebbe voluto proteggerla e starle vicino sempre di più. I suoi pensieri si ingarbugliavano e lui rimaneva come uno di quei giocattoli a molla dopo che saltano fuori dalla scatola, a dondolare inutilmente con la stessa stupida espressione dipinta sul volto.
Oscar si alzò di scatto e voltandosi verso di lui, allargò le braccia: «Oggi è il 26 di agosto!! Il tuo compleanno, pensavi che me ne fossi dimenticata?! Dimmi che cosa vorresti di regalo da parte mia!»
André la guardò stupito, non se lo ricordava neppure più, compiva quindici anni. Pensò un attimo e poi si rivolse a lei con un meraviglioso sorriso: « Vorrei che giocassimo come quando eravamo piccoli, solo per oggi, ti prego Oscar.» Lei scoppiò a ridere e annui col capo.
« Preparati a scappare che sto per prenderti!! »
Oscar emise un grido divertito e ridendo, cominciò a correre veloce ed agile, sfiorando appena l’erba.
André si fermò a guardarla: «Riempie la mia vita la tua visione, il ricordo te che scappi da me ridendo. La tua risata cristallina, i tuoi capelli così morbidi, i tuoi occhi azzurrissimi mi piacciono tantissimo. Corri Oscar corri, potresti scappare fino agli estremi orizzonti del cielo, io ti raggiungerei anche laggiù.»
Fine.
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