Un amore
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Nota dell’autrice: Questo racconto è nato dalla mia mente contorta. Non ci sono riscontri reali, e come potrebbero esserci? Si parla di creature delle tenebre, di visioni terrificanti... Ciò vuol dire che il Saint Just che ho delineato non c’entra nulla con il personaggio storico, è un parto malato della mia immaginazione altrettanto malata. E così anche la visione della Rivoluzione Francese. Il racconto ha varie fonti: primo fra tutti il maestro del genere, E. A. Poe (“Bon Bon”), poi H. P. Lovecraft (“Dagon”; “Il segugio”, “Dall’altrove”). Il nome della bottega, “Safarà”, nasce da una storpiatura di “Sarafà”, un personaggio di Dylan Dog. Diciamo, per quietare gli animi, che l’azione si svolge in uno dei tanti mondi possibili della fantasia…
Sono
un uomo astioso, un individuo abietto, subdolo, malvagio, perennemente in
battaglia con me stesso e con i miei simili. E me ne sono sempre compiaciuto.
Qualcuno potrebbe dire che traggo piacere dall’essere cattivo. Ebbene, ciò è
tristemente vero. Anche se da sempre mi accompagna il vago presentimento che
tutta la malvagità di cui sono capace non sia umana. Non ricordo un solo
istante in cui sia riuscito a provare pietà, sconforto o, addirittura, amore.
Sono stato amato, certo, da figure fugaci di cui non rammento neppure il volto,
che hanno costellato la mia esistenza come i tanti fatterelli che si perdono
nella trama delle umane vicende. L’unico sentimento che ho in cuore è la
rabbia, quella che corrode le ossa. Come il mare in tempesta che chiama a sé le
acque dai fondi sassosi, dalle melme oscure, dal respiro della spugna dormiente,
giù fin nei suoi visceri. Ed irrompe violento, schiumoso, vomitando sassi,
fanghiglia, pesci morti. Pesante come infiniti martelli, cieco urlando e cadendo
schiumoso sulla battigia. Così la furia monta in me, radunando al suo cospetto
le mie forze, abbattendosi su tutto ciò che mi si pone innanzi, lasciandomi
prosciugato.
Ho
tentato ripetutamente, senza convinzione, di calmare l’ira che ribolle nella
mia anima inquieta. Da sempre inganno me stesso addormentandomi con le finestre
aperte per far entrare la bellezza del mondo, invece mi sveglio con in bocca il
sapore dei giorni consueti. Così, me ne vado zitto col mio segreto tra gli
uomini ciechi per la menzogna quotidiana.
Sono
sempre stato protagonista della mia vita, nel bene e nel male, attimo per
attimo, infrangendo le regole, riuscendo a divincolarmi, ad uscirne a testa
alta, con successo, sfuggendo, impalpabile come il vento. Sono stato infimo, ho
imparato ad umiliare e a far soffrire. Ho provato gusto anche ad odiare. Ho
combattuto con sottile astuzia, volgendo la Fortuna dalla mia parte, spesso con
l’inganno. Con la lucida coscienza di quell’astio che mi si riversa nel
cuore, ho percorso una solitaria strada di lotta, di fatiche, senza battere
ciglio, senza un tentennamento. Ho bevuto fino all’eccesso, sono stato male,
mi sono messo nei guai, ho fatto a pugni, talvolta ho rotto qualche naso. E’
stato inebriante. Spesso sono arrivato a pensare di avere in odio il genere
umano. Non ho mai avuto paura di nulla, almeno fino ad ora. Un fatto, un fatto
ha segnato la mia vita, radicalmente. Si è intrufolato sottile nel cuore e mi
ha sconvolto come l’alba di un nuovo giorno. Un imprevisto sfuggito al duro
meccanismo della necessità, incalcolato, impensabile, dolorosamente odiato.
Eppure dolcissimo. Dopo questo, la mia anima ha cominciato a vacillare, ho
toccato la mia fragilità, ho veduto la mia condanna e il peso insopportabile di
tutto il mio limite.
Ricordo
i primi turbamenti popolari di Parigi, davanti a me gli occhi avviliti dei
contadini, i loro cenci, la loro rassegnazione, le loro mani sporche di terra.
Leggevo nei loro sguardi tristezza e miseria. Nei campi, li vedevo alzare le
braccia al cielo, imprecando contro
il sole e la terra arida, e piegare il capo alla fatica. Vagavano con volti
pallidi e preoccupati, bisbigliando avvenimenti o profezie che nessuno, poi,
osava ripetere consapevolmente o ammettere di avere udito. Certo il danno,
incerto il profitto1.
Era la fine del torpore. Le urla dei dormienti nella notte, non si erano mai
udite disperate come allora, i pianti sommessi erano diventati un fardello
troppo scomodo. Me ne compiacevo, sentivo la fragilità delle loro speranze
pulsare sulle mie dita. Si affidavano, chiedevano aiuto, mani mendiche si
aggrappavano alle mie vesti omaggiandomi con la loro povertà. Con invisibili
fili avrei tratto a me quell’esercito di fantasmi, li avrei gettati con tutta
la mia rabbia contro la famiglia reale. Ma lui, il mio nemico di sempre, colui
che ha sempre esercitato un potere su di me, colui che ho voluto seguire, me
l’avrebbe impedito.
Serata
da lupi. Il vento freddo respirava, bisbigliava nell’oscurità. Fendevo la
notte con i miei pensieri. Miasmi ammorbanti mi impedivano di camminare
liberamente. Mendicanti ai lati delle strade mostravano la loro oscenità: arti
amputati, occhi cavati, croste putride, ogni sorta di bruttura. Possibile che
Robespierre non si avvedesse di questa miseria? Il cambiamento doveva essere
radicale, doloroso e quella zucca bacata non lo capiva. La Francia era
sull’orlo del tracollo, piegata, umiliata dalla fame, dalla carestia e dai
raccolti rovinosi. Cosa stava aspettando? Al diavolo! Il sottile piacere che mi
provocava contraddirlo urlava una rivolta che investisse con tutta la sua forza
la nazione.
Eppure
qualcosa mi frenava. Un’attrazione intellettuale. Un turbamento ignoto.
Guardavo Maximilien parlare, ammaliato dai suoi gesti, dai suoi occhi limpidi
che brillavano di luce corrusca mentre alzava i pugni. Osservavo la bocca
sottile stringersi di risentimento contro i potenti. Così gracile
nell’aspetto, sembrava che si vestisse di fuoco e fiamme in mezzo alla folla.
Avevo cominciato a seguirlo, e stando coi suoi desideravo lui. Bevevo le sue
parole in silenzio, imitavo ogni sua movenza. Intuii la compassione, il sentire
insieme. Come corde di violino armonizzate all’unisono, i nostri cuori
ascoltavano il lento incresparsi della rabbia popolare.
Era
un’onda che non si sarebbe contenuta facilmente. Si stava facendo strada in me
un sentimento sconosciuto che mi coglieva di sorpresa. Senza lui mi sentivo
spogliato, inaridito, privo della vita.
Accorgersi
di amarlo fu facile e allo stesso tempo sorprendente. Desideravo che mi tenesse
con sé. La notte, nella mia solitudine, bramavo la sua bocca, il tocco delle
sue dita lungo la mia schiena. Stringerlo tra le braccia ed assaporare il suo
odore pieno. Avrei voluto appoggiare il mio capo sulla sua spalla ed essere
cullato, piangere, sciogliere la mia rabbia, stemperarla in un affetto che
avrebbe lenito il cuore. Non riuscii subito a capacitarmi della tempesta di
sentimenti che provavo per quell’uomo. Mi ripetevo continuamente nelle veglie
notturne che mai avevo nutrito qualcosa di simile per un essere umano, uomo o
donna che fosse. Ma l’apprestarsi dei giorni dava conferma al mio cuore. Lui,
forse allarmato dal mio temperamento impetuoso, si stava allontanando da me. Io
volevo che la rabbia della Francia ribollisse velocemente, qualche testa doveva
cadere, subito, all’istante!
Maximilien
no. Amava quella gente. La sua era un’autentica passione per l'umano, lo
vedevo da come guardava i popolani, da come tendeva loro la mano. Chiamava amico
il mendicante e, ne ero certo, nelle sue battaglie ricordava i volti sofferenti
dei poveri di Parigi. Per questo lo odiavo… e lo amavo.
Alla
fine di un’assemblea lo fermai, lo guardai fisso negli occhi, annegai nella
mia disperazione. Dio solo sa quanto lo desideravo! Mi avvicinai, mi squadrava
perplesso. Affondai la mano nei suoi capelli, mi guardava terrorizzato senza
avere il coraggio di muoversi. Mi chinai su di lui e lo baciai. Si staccò da me
con gli occhi gelidi, inorriditi, spaventati. Gli facevo schifo, tutto qui. Si
strofinò le labbra con ribrezzo e scappò via. Rimasi immobile mentre
l’illusione si frantumava in tanti invisibili cocci in cui mi specchiavo per
intero e la luce se ne andava via con Maximilien. Piansi, per la prima volta in
vita mia, piansi tutte le mie lacrime.
Vagando
senza meta mi ritrovai nella sterrata buia delle segherie. Niente la illuminava,
nessuno vi passeggiava, non riecheggiava il chiacchiericcio allegro della gente
come al mercato o nei giorni di festa. Soffrire in una strada come quella era
eroico. Solo col dolore che mi sferzava a metà e mi sezionava l’anima. Le mie
riflessioni mi portavano nel ventre di Parigi fatto di vicoli tortuosi, dedali
desolati.
I sensi
erano allertati da sottili presentimenti. Udivo nella notte lamenti di civetta.
Risa sguaiate di donna e fuggevoli rumori di topi. Vidi code di ratti attorcersi
nella fosca luce di qualche bettola. Brancolavo nell’oscurità, quegli occhi
duri come lance conficcati nella memoria, i miei unici compagni. Lui era
scappato da me, suo amico. Dovevamo condividere tutto e lui era fuggito.
All’improvviso mi si era levato un velo dagli occhi, mostrando tutto il
disinganno della vita: l’uomo tollerante, che diceva di combattere per
l’uguaglianza non era mai esistito. Mi aveva disprezzato in silenzio, guardato
come si guarda un pazzo lanciare una manciata di biglie in aria. Stranito,
freddo, compassionevole. Mi compativa! Sentivo di odiarlo, sempre di più. Mi
sentivo giudicato, penetrato da quegli occhi gelidi, da quell’espressione
disgustata. Lo odiavo, già e avrei venduto l’anima pur di conficcargli un
pugnale nel petto fino a spaccargli il cuore. Come lui aveva fatto col mio.
Strapparglielo e gettarlo via, come aveva appena fatto lui. A testa bassa,
appesantito di dolore, urlai. Principiò a piovere. Fitti spilli d’acqua mi
perforavano corpo e anima.
D’un
tratto, nella luce azzurrognola dei lampi mi parve di vedere un lume fioco,
all’angolo del vicolo dove sapevo benissimo non esserci mai stato nulla.
Pensai di essere pazzo. Mi stropicciai gli occhi ma la visione durava. La paura
lasciò subito spazio alla curiosità.
Mi
avvicinai incredulo. Era una bottega. Sulla vetrina si poteva leggere dipinto in
nero: “Safarà”. Mi fiondai all’interno senza sapere bene il perché.
“Buonasera,
desiderate?” chiese la voce del vecchio più ripugnante che avessi mai visto.
Piuttosto basso di statura, la sua figura era estremamente magra ed i suoi abiti
lisi erano tagliati alla moda di un secolo addietro. Aveva il cranio ricoperto
di bitorzoli e i suoi grandi occhi gialli mi scrutavano indagatori.
“Siete
fradicio. Mi state bagnando tutto il pavimento. Volete asciugarvi?” mi chiese
con uno stridulo bisbiglio.
Feci
cenno di no col capo. Il vecchio continuò con voce affettata.
“Vi
stavo aspettando. Qualcosa vi turba come mai in vita vostra.” Affermò con
alito di cancrena, lasciando intravedere i pochi denti rimasti, ormai cibo per
ogni forma di sporcizia. Ghignò mentre si strofinava impaziente le piccole
mani.
“Un
uomo, un sentimento nuovo che mi ha travolto. E poi…è fuggito da me.”
Risposi deglutendo. Avvertivo i muscoli stringersi, forse per il freddo, forse
per quello sguardo penetrante. Ed il ricordo dell’accaduto mi tagliava a metà.
“Ho
capito. Non credo di essere il più adatto per questo tipo di lavoro… comunque
si può fare”
Come i
sogni mattutini che svelano subito il loro carattere evanescente ed effimero,
tutto in quella bottega pareva un’illusione. Quando il lampo squarciava
l’oscurità ogni singolo oggetto pareva animarsi. Occhi di gufi impagliati
scintillavano nella notte, recipienti contenenti arti umani ribollivano
frementi, fruscii di cani alati si apprestavano, profanatori di tombe si
aggiravano per le nere rovina dei templi mentre ombre viscose si alzavano da una
vegetazione fungosa. Serrai gli occhi violentemente per non vedere le mostruosità
del buio mentre il vento fischiava in un cielo rosso di fulmini.
“E’
tutto vero, calmatevi, dunque! Allora, dicevamo?? Ah sì! Come intendete farlo
fuori??”
“Farlo
fuori??” allargai gli occhi.
“Sì,
fatemi capire…” si allungò amichevolmente sul bancone.
Indietreggiai.
Mi aveva letto il cuore. Ero fradicio e spaventato. Lo guardai, i suoi occhi
fissi nei miei attendevano una risposta, un cenno.
“Lo
odiate, vi ha umiliato, respinto il vostro amore come si respinge un calice di
veleno” Sorrise ammiccante.
“Ma
voi…come fate a…” Un tuono fece scuotere l’edificio. Ammutolii.
“Voci,
voci!! Andiamo! Non è una cosa tanto rara al giorno d’oggi eliminare
qualcuno. Pensate solo agli assassini, i ladri, e tra poco la Rivoluzione.”
Chiuse una mano a pugno me la mise di fronte soffiando piano sui miei occhi.
All’improvviso,
vidi con chiarezza il caos strisciante, fischi di lame, legioni di pipistrelli,
spari di fucili, grida strazianti, foreste di querce con radici serpentiformi
che succhiavano veleni, ombre viscose. Mi portai le mani alle tempie. Come
trascinato da una caleidoscopica mutazione mi accoccolai nel ventre della terra,
tra le radici serpentiformi, attendendo di essere preda del nibbio. All’erta
con l’antenna dello scarafaggio, con il terrore che pulsava nelle pareti del
cervello. Urlai con tutta la mia forza perché il tormento finisse. Avevo
acconsentito ad essere portatore di morte. La voce del vecchio mi riportò alla
realtà.
“Bando
ai moralismi e alle tartuferie di quest’epoca antiquata, buia e maledettamente
scomoda! Voi odiate quell’uomo che ha osato deridervi, prendersi gioco di un
sentimento puro come il vostro…E poi, non avete mai messo in discussione le
vostre decisioni, vero?”
“Dunque”,
proseguì, “Quale vendetta laverà il torto?”
Mio
Dio! Mi stava offrendo di uccidere Maximilien.
“Sto
lavorando per voi, amico mio. E’ tutto nel vostro interesse. Una coltellata?
Il veleno? Una morte lenta e agonizzante? La mia preferita. Un colpo di
fucile?”
Restai
impietrito balbettando qualche stupida scusa per uscire da quel posto maledetto.
“Sapete,
si potrebbe spedirlo in un’altra dimensione. Divinità terribili ne farebbero
un sol boccone. E con quale gioia! Il temibile Dagon2,
il dio pesce, vi sarebbe grato per un’anima di quel calibro.”
“Non
riuscirei mai ad ucciderlo…” Riuscii a mormorare con voce che non credevo mi
appartenesse.
Mi
guardò stupito allargando i suoi occhi gialli. Subito sorrise mostrando quei
pochi denti.
Lo vidi
trarre un libro polveroso da sotto al bancone. Lo aprì. Una nuvola di polvere
mi investì. Cominciai a tossire.
“Capisco.
Un grande amore. Peccato, avevi una certa stoffa. Noi, creature oscure contavamo
su di te. Morti, ci servono morti. Dovrò toglierti dal registro.”
Il
grande libro portava scritto a caratteri neri: “Registre des Condamnes”3
Non
capivo…
“Saint Just, Louis… Purtroppo il meccanismo si è innescato e non posso
far tornare tutto come prima. Il tuo improvviso cambiamento è per noi un
problema. Non l’avevamo previsto, tutto qui. A volte anche l’oscurità si
sorprende constatando che poco è nelle sue mani. Posso solo farti un dono. Ho
il potere di far giungere la fine per entrambi, nello stesso momento. Vi sarete
compagni nella morte. Abbi fiducia in me. Il tuo cuore si è spalancato,
trasformato come il campo arato, violato nella sua intimità di terra. Un cuore
un tempo anestetizzato. Ma ora la nebbia è dissipata. E il narcotico che
intorpidiva le tue emozioni ha esaurito il suo compito. Buona fortuna. Credimi,
oggi hai dato una lezione a tutti noi. E la vita di noi creature dell’ombra,
fantasmi che eternamente danzano nel fango della morte e della bruttura, non sarà
più la stessa. Possiamo dimenticare, far finta che nulla sia stato, certo, ma
ci hai dato prova di grande coraggio. Addio.”
Uscii
da quel negozio che le prime luci dell’alba spazzavano via le tenebre.
L’aria era gonfia di pioggia. Camminavo nelle pozzanghere fangose, senza mai
voltarmi. Avrei voluto che quello fosse solo un sogno, un delirio di un ubriaco.
A poco a poco ho dimenticato. Ma adesso che la Rivoluzione infuria, adesso che abbiamo seminato il terrore anche tra i nostri, tanto che dobbiamo guardarci le spalle dal nemico, sento che l’ora è tarda. Ciò che mi consola è morire accanto a Maximilien. Ho fiducia che sarà così, mi è stato promesso…
Fine.
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