Preludio

 

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Dal giorno del fattaccio André aveva iniziato ad odiare il momento in cui, arrivati a casa, Oscar smontava, lo salutava rapidamente e altrettanto rapidamente fuggiva nei suoi appartamenti; e a lui toccava restare a sistemare i cavalli da solo. Una volta non era così: era sempre stato l'ultimo momento per loro di chiacchiere e scherzi, discorsi e domande, ma anche, semplicemente e più spesso, l'ultimo, riposante, silenzio insieme; il confine tra la libertà della strada e i doveri dei palazzi, diceva lui, l'ultimo cucchiaino di cioccolata quando la panna e lo zucchero si sono ben mischiati, diceva lei. Poi tutto era cambiato e a lui non era rimasto che accudire i cavalli e ci rivediamo un'altra volta. Quando si sentiva giù ci metteva una cura quasi maniacale nel farlo e si dava ripetutamente dell'imbecille, constatando quanto fosse ridotto male a fare delle carezze a delle bestie piuttosto che a qualcuno di più... più... sì, insomma, più. Con tutto il rispetto per i nobili equini.

Quella sera a sorpresa Oscar rimase con lui e in un calmo silenzio estivo sistemarono insieme i cavalli. André assaporò ogni istante: lei si muoveva rilassata e vigile, calma e silenziosa presenza al suo fianco, pronta a dargli una mano, come compagna fidata, complice discreta. In quel momento gli parve di non poter chiedere di più, come se la sua sola vicinanza potesse bastare a placare la sua febbre.

-André, perché non entriamo dalla porta posteriore? Così ci evitiamo la carica di nonne, paggi, domestici, cameriere e quant'altro. -

Il sussurro carezzevole della voce di lei scivolò sulla sua pelle come lenzuola di seta. No, constatò, la sua sola vicinanza non gli era sufficiente, la sua febbre esigeva di più, molto di più: l'esigeva interamente. A dar retta ad Alain adesso sarebbe stato facile avvicinarsi a lei, sempre di più, lentamente accarezzarla, e infine baciarla, piano, gustandola; facile, indubbiamente, come facile prevedere che, ora, molto probabilmente lei non si sarebbe tirata indietro. Ma non era questo quello che lui voleva, non un bacio regalato ad un vecchio amico d'infanzia abbastanza piacente, non un bacio "perché così mi girava", ne' tantomeno un bacio d'abbandono incosciente: lui voleva la sua resa totale e incondizionata, una capitolazione ponderata e anelata, il completo donarsi di lei con la stessa intensità di cui lui si sapeva capace. Nulla di più, nulla di meno. Hai detto niente. Alla faccia di quelli che gli ripetevano in continuazione che era troppo buono: lui non si sentiva esattamente tale, anzi, più invecchiava più si sentiva egoista specie nei confronti di Oscar. Strinse i denti e fece un cenno d'assenso; la precedette senza dubbio, ascoltando i passi di lei sul ghiaino che lo seguivano. Magari, se mi faccio desiderare... Sorrise sognante. Due voci si intrecciarono nella sua testa, una indistinta e suadente, l'altra tanto simile a quella di Alain: coraggio baciala coraggio baciala coraggio baciala... imbecille imbecille imbecille... Le scacciò infastidito mentre la sicurezza della sua risoluzione iniziava alquanto a vacillare.

 

Le aspettative di pace, solitudine e intimità di Oscar svanirono davanti alla cauta frenesia che sembrava essersi impossessata della casa e dei suoi abitanti che si agitavano divertiti come in prossimità di una festa a sorpresa. Discorsi apparentemente molto interessanti venivano sospesi all'apparire innocente dei due e risolini di cameriere si accendevano dopo il loro passaggio sempre più allibito e imbarazzato man mano che entravano in casa.

Oscar chiese di nascosto:

-Visto che sai sempre tante cose, non è che sai anche quello che sta succedendo in tutta la baracca? -

André si guardava attorno perplesso come se volesse assicurarsi di essere entrato nella casa giusta:

-Oscar, negli ultimi tempi sono stato dove sei stata anche tu. -

Lei gli sibilò:

-Simpatico come al solito, vero, André? -

-Ma che ho detto di male? -

Lei non ascoltò la risposta stupita di uno stupitissimo André: quell'atmosfera domestica la stava preoccupando non poco. Odiava le cospirazioni familiari: fin dalla primissima infanzia aveva imparato che a lei, che di solito ne era la vittima predestinata, non portavano mai nulla di buono. Avrebbe preferito mille volte trovarsi di pattuglia notturna a Parigi, piuttosto; o meglio ancora a fare bisboccia con quel simpaticone di André, piuttosto; piuttosto tutto, piuttosto che trovarsi "all'improvviso" ad osservare per un paio di minuti buoni la nonna che misurava a grandi falcate la larghezza dello scalone di casa imprecando in tutti i termini consentiti a una generalessa della sua generazione:

-Buono a nulla! - questo poteva essere per André.

-Incapace! - questo anche.

-Criminale! - questo no.

-Imbecille! - questo forse.

Ad ogni insulto cambiava direzione di marcia.

-Irresponsabile! - sillabò con l'indice al cielo e le spalle ai nipoti. Poi si voltò urlando verso il piano superiore:

-Padre snaturato! - e terminò con un calcione alla ringhiera dello scalone. Finalmente li vide:

-Bambina mia! - e scoppiò a piangere non si sa bene se per il calcio o per la bambina, con una mano sul volto e sbranando il fido fazzoletto di batista.

“Ecco, sono fritta!" concluse Oscar immaginandosi sotto il fuoco incrociato di padre, nonna, domestici, forse-amico e affini; senza considerare i suoi personali grattacapi.

I lamenti funebri della nonna che pareva piangere la dipartita della sua cara nipotina diventavano sempre più stridenti. André si slanciò ad abbracciarla cercando di consolarla:

-Nonna, nonnina mia, che ti è successo? -

Solito, melenso d'un André. E poi è inutile che mi guardi con quella faccia, tanto non lo so che è successo!

Arrivò una cameriera con un'espressione così divertita che sembrava stesse assistendo ad un'esibizione di pagliacci acrobati:

-Monsieur Oscar, vostro padre vi aspetta col suo ospite nello studio. -

Ospite? Anche l'ospite ci mancava.

-Arrivo. - Oscar annuì e si apprestò a salire le scale con la maggior nobiltà e fierezza le che riuscì a recuperare sul momento. Quando passò davanti alla nonna si sentì dire:

-Madamigella Oscar, sappiate che io sono contraria. -

-Questo si era capito. -

E via su per le scale arrovellandosi su quale potesse essere l'ultima trovata del suo "padre snaturato": se la nonna l'aveva apostrofato così l'ultima trovata doveva riguardare specificatamente lei e il suo nome da uomo con tutto quello che ne era venuto dietro, e se la servitù se la rideva... se c'era un ospite... Occielo!

Sentì dabbasso un urlo isterico di André:

-Vuole farle fare... che cosa?! - e iniziò davvero a preoccuparsi.

 

Entrò furibonda nella sua stanza strappandosi quasi di dosso giacca, cravatta e stivali nella smaniosa necessità di liberarsi dei pesi superflui, gettò tutto per terra allontanandolo dalla sua vista con una serie rabbiosa di calci d'odio. Poi scoperchiò il pianoforte cercando di diffondere chiaramente a tutta la casa la notizia che in quel momento stava proprio scoperchiando il pianoforte e si mise a picchiare a caso violenti accordi su tutta la tastiera per controllare che fosse ancora accordato.

Se anche fosse accordato, in questo modo non ci resterà a lungo, considerò. Si placò pensando alla perdita di tempo che sarebbe derivata dal farlo riaccordare: per come lo suonava lei, poi, non ne valeva proprio la pena. Si sedette e le sue dita iniziarono automaticamente a muoversi sul suo "Preludio scacciapensieri": era un pezzo di un autore tedesco di una generazione prima, roba vecchia quindi, il cui unico merito sembrava l'aver contribuito a mettere al mondo il Grande Bach, e che lei aveva scoperto perché suo cognato le aveva fatto copiare una sua raccolta durante un viaggio in Sassonia. Delle sue conoscenze nessuno apprezzava questo Johann Sebastian Bach,[i] padre di del più famoso Carl Philip Emanuel, a parte André: troppo difficile da seguire rispetto alla robina sentimentale con cui il suo figliuolo addormentava le già pigre orecchie dei suoi contemporanei, ma a lei invece piaceva molto: la sua musica era forte e intensa senza essere aspra, difficilissima da capire nel suo sviluppo eppure stranamente coinvolgente, la rilassava così tanto che delle volte si scopriva a muovere le dita per suonare quel preludio  anche sui bordi dei tavoli o, in mancanza di meglio, sulle cosce e persino sull'aria; e André le diceva che era proprio matta. Lo suonava senza neanche guardare i tasti, tanto conosceva bene quel pezzo e così poteva permettersi il lusso di pensare senza rimanere inattiva.

Era entrata nello studio di suo padre: erano accese solo due candele e la finestra sul balconcino era aperta a far entrare quel po' di fresco che la sera regalava, l'ospite non si vedeva, forse era fuori. Aveva visto il Generale seduto dietro la sua scrivania, in silenzio come se non ci fosse nessun altro nella stanza:

-Oscar, cara, siediti pure. -

Cara?! Se era entrata preoccupata quel preambolo l'aveva a dir poco allarmata.

-Grazie, preferisco stare in piedi. - si fa prima a scappare.

-E comunque vi pregherei di fare in fretta: sono appena tornata e sono decisamente molto stanca. - era riuscita a rispondere.

Che sia una cosa veloce, per pietà, pietà di me, avrebbe voluto implorare.

-Vedi, Oscar, avrei pensato che, per una serie di ragioni, sia ormai giunto il momento di farti sposare. -

Sposare... sposare... sposare... Quella parola le aveva viaggiato nella testa per un po' prima che si fosse resa davvero conto di quello che voleva dire e soprattutto che era rivolta alla sua propria persona. Vuole farmi sposare... me... sposare...

"Lo sapevo io che si stava preparando la cazzata del secolo!" le era venuto in mente di urlare ma, più veloce di questo pensiero, l'abitudine a non contrariare suo padre non le aveva consentito nulla più di uno stupido:

-Ah! -

Si sarebbe data delle martellate sui genitali, se solo avesse avuto quelli adatti a tali pratiche.

-Vedi, figlia mia, sei sempre tutta sola... -

Figlia? E poi: sola? Sola lei? Ma magari! E poi André chi era, l'uomo invisibile, il cavaliere inesistente? Che glielo aveva dato a fare? Glielo aveva assegnato da bambina perché fosse il suo compagno, o no? E a quel pensiero, ora, in camera sua, si sentì terribilmente imbarazzata e colpevole.

-Senza considerare, poi, che a quasi trentatré anni stai invecchiando... -

Invecchiando?! Invecchiando, io?! Io faccio mangiare la polvere a tutti gli sbarbatelli della caserma, se la notizia non fosse ancora giunta da queste parti. Sono in perfetta forma e al massimo delle mie potenzialità; se solo riuscissi a riposarmi una volta ogni tanto.

-Per poter dare alla luce un erede sano e senza rischi per la tua salute. -

Ah, beh, certo, questo è tutto un altro aspetto della questione. Le dita sudate le scivolarono sulla tastiera e ci mise un po' a riprendere il filo delle varie voci.

Era scattata inviperita:

-Ma dico, vi si è per caso annacquato il cervello con della birra avariata? - aveva urlato, sbattendo i pugni sul tavolo con tale forza da far rovesciare il calamaio. Il Generale non si era scomposto e si era limitato a voltarsi in direzione del balcone.

-Oscar, ti prego di considerare bene e con calma la situazione. -

Quella voce! Di tutte le voci che si sarebbe potuta aspettare quella era decisamente l'ultima che avrebbe voluto sentire, in vita sua e soprattutto in un frangente come quello.

Fersen.

Doveva essersi nascosto fuori in balcone in modo da lasciare a suo padre l'incombenza della prima comunicazione. Buono solo a evitare la prima linea e ogni impegno concretamente realizzabile pensò mentre suonava. E anche se lo faceva di solito per dei validissimi motivi a lei... con lei... Con gli altri, le altre, anzi, facesse un po' come meglio credeva, ma con lei, proprio lei...  Perché? Dopo tutto quello che... Sospirò. Erano stati molto amici in fondo una volta, e allora perché? Perché adesso? Perché proprio lei? Suonò più forte per scacciare il rumore degli unici, fino a quella sera, pessimi ricordi di lui.

Non sapeva come avesse fatto ad immagazzinare così velocemente la sorpresa ma si era istintivamente impegnata con tutte le forze per non rivolgergli neanche uno sguardo, per negare la sua stessa presenza in quel luogo e con quelle premesse. E adesso che era in camera sua con le mani sulla testiera le venne da tristemente ridere per il vuoto assoluto con cui i suoi pensieri all'inizio lo avevano accolto.

-E questo, padre, sarebbe il marito che avete scelto per me? - gli aveva quasi ringhiato distruggendo degli innocenti fogli di carta finiti sotto i suoi pugni.

-Oscar, lascia che ti spieghi io, per favore. -

Con quel tono di supplica nella voce non aveva più potuto evitare di guardarlo e lo aveva fatto. La luce era scarsa ma non ne era necessaria poi molta per concludere che in quel paio d'anni che si erano al massimo intravisti non era cambiato poi molto: il solito belloccio, biondino, aria tormentata... scialbo. Se c'era una cosa che aveva capito con certezza in quel periodo era che preferiva gli uomini con i capelli scuri; magari con gli occhi chiari, per amor di contrasto. Le era venuto improvvisamente da ridere: come si cambia.

Si era raddrizzata e lo aveva guardato dritto negli occhi con un sorriso sarcastico e rassegnato:

-Avanti, spiegatevi: vi ascolterò. Ma vi prego di essere sintetico e conciso perché sono davvero stanca morta. E vi dico fin d'ora che, qualunque siano i presupposti della vostra proposta, la mia risposta è irremovibilmente no, mai, neanche morta. E ora coraggio, sbrigatevi: non ho tempo da perdere. -

Aveva sentito il padre esclamare:

-Ma se tutti mi hanno confermato che hai nutrito per lui una certa simpatia! -

E ci mancava pure il padre a fare il pettegolo: non bastavano André, la nonna, Alain e tutta la caserma per tacer la corte, anche il padre, adesso, ci si metteva!

-Voi impicciatevi degli affaracci vostri. -gli aveva risposto incredibilmente; e non si era affatto pentita, anzi, l'avrebbe quasi voluto rifare tanto si era divertita a lasciare per una volta il Generale Jarjayes senza ordini né rimproveri. Ritornate nei ranghi, Generale, e zitto, è il vostro Comandante che ve lo ordina! Sublime. Si ripromise che avrebbe ritentato il gioco alla prima occasione.

-E voi, Conte, sbrigatevi. - Magari poi si fosse sbrigato!

Fersen le si era avvicinato:

-Come mai, Oscar, ora mi dai del voi? -

-Vi siete fatto una domanda ora datevi anche una risposta. -

Lo aveva visto piuttosto interdetto a quella sua reazione strafottente, anzi, decisamente dispiaciuto; se ne era dispiaciuta anche a lei: in fondo quello che era successo non era colpa di nessuno. Le era venuta in mente un frase che André le aveva detto un giorno tanto lontano ché non ricordava più quando, che lei aveva archiviato nel cassetto "Sciocchezze di André", e che diceva così: "Accadono cose che sono come domande: passa un minuto oppure anni e poi la vita risponde". Chissà, aveva pensato, chissà se André aveva ragione anche in questo, chissà che quello che stava vivendo non fosse già una risposta, chissà se era la volta buona. Aveva deciso di tentare: aveva voltato verso il Conte la sedia che era davanti alla scrivania di suo padre e vi si era seduta con le gambe accavallate guardandosi in silenzio le mani giunte in grembo. Se solo riuscissi almeno ad avere una risposta, aveva pensato, altrimenti, anche questo, tutto questo, a cosa servirebbe? Lei, di risposte dalla vita, ancora non ne aveva sentita una. Se solo...

Si era messa in ascolto senza giudicare così come adesso giudicava senza ascoltare. Quale assurda follia. Che spreco di forze, quanto indaffararsi; per cosa, poi? Perché? Di risposte, come da copione, non ne aveva avute; domande in più, tante, troppe per lei che per non perdersi cercava invece una luce certa, anche timida, da seguire. Le sciocchezze di André, archiviate con sempre il dubbio che proprio del tutto tali non siano.

Ebbe finalmente la sensazione del costante ripetersi del suo preludio nell'aria. Lo interruppe per qualche istante, apprezzando la liscia sensazione dell'avorio sulle dita. Le piaceva il suo pianoforte, con quel suono così energico e virile e quando André le diceva che suonava bene perché era molto espressiva. Un'altra delle tante sciocchezze di André. Una delle tante che non reggeva il confronto con quella di amarla come la amava lui. Riprese a suonare.

Aveva ascoltato Fersen che le aveva parlato a lungo; lo aveva ascoltato attentamente, molto attentamente, immobile. Era stato lui a proporsi come pretendente e per una volta il premio per l'idea più stupida su di lei non era andato a suo padre; il quale padre, però, l'aveva accolta con gioia, forse perché ci stava già pensando da solo ad accasarla. In ogni caso, avevano tutti e due delle splendide motivazioni per decidere della sua vita; come chiunque ritiene di poter fare delle scelte per qualcun'altro, considerò.

Fersen le voleva bene e almeno questo Oscar si decise a passarglielo senza ulteriori commenti. Una sciocca cosa sensata in mezzo a quel mare di desideri folli e di insulsi progetti. Le aveva detto che l'apprezzava anche come donna, con l'implicito che come uomo era meglio ma nessuno è perfetto. Le aveva detto anche che la trovava bella, molto bella. Era stata la prima volta che se lo era sentito dire sul serio, con la voce scevra di complimenti di circostanza o di scherzi più o meno sottili. E stupita si ritrovò a considerare che quasi quasi preferiva gli sguardi compiaciuti e scherzosamente irriverenti di Alain a quell'algida compostezza e a quel vocabolario variato di sinonimi: almeno quelli la coinvolgevano nello scherzo o nell'irritazione, non le scivolavano addosso senza lasciare tracce. Quanto ad André, poi, se lui le avesse detto una cosa del genere... Ci pensò in un attimo allegro: e se davvero André un giorno le dicesse che la trovava bella? Ma sul serio, non tanto per dire o perché si era addobbata per mettersi in vetrina. Stando così le cose ebbe il forte sospetto che se gli fosse venuta in mente un'assurdità del genere lei gli sarebbe cascata addosso come un sacco di patate; e le venne da ridere. Perché amare l'amava, va bene, ma chissà se la trovava anche bella, se gli piaceva quanto lui piaceva a lei, se lo sconvolgeva come si sconvolgeva lei quando gli era vicina; magari l'amava spiritualmente, in modo assolutamente platonico. Chissà se pensava a lei in... Guardò il suo letto; rise di cuore: ma che vado a pensare! Guardò ancora il suo letto e ricordò: no, non mi ama in modo assolutamente platonico. Aveva smesso di suonare e ricominciò.

Dopo tutto delle premesse per un'unione con Fersen duratura e quantomeno serena c'erano: gli piaccio e mi vuole bene. Ma erano amore quelle due sole cose? No, lo sapeva, non aveva dubbi; troppo poco, troppo limitato, ma queste cose le sapeva già e si chiese cosa ci stesse ancora tanto a rimuginare sopra. Lei per sé voleva un amore assoluto ed esclusivo, illimitato: se doveva scegliere di unirsi ad un uomo come sua donna non lo avrebbe fatto di certo per un banale "mi piaci e ti voglio bene".

Le si imbrogliarono le dita sulla tastiera e i pensieri nel cuore: André! André era quello che lei voleva? Lei aveva avuto paura... Di cosa? Dei suoi stessi desideri? Possibile? Paura di quello che ora sapeva di desiderare dalla vita? No, non poteva essere. Non poteva proprio... I suoi pensieri si ritrovarono senza musica vuoti e spaesati. E a lei André piaceva, gli voleva bene, questo l'aveva capito. Tutto qui? Solo un altro, banale, mi piaci e ti voglio bene? Semplicemente un'altra attrazione da nulla? Solo? Si sentì perduta e terrorizzata nel vuoto che le si era creato attorno all'apparire di un'enorme domanda che si stagliò irta di fronte a lei come una montagna inviolabile in mezzo al deserto: io amo André? Lo amo? Amo lui, proprio lui, il mio André? Amo il mio André?

Il rombante silenzio di quella domanda la stordì. Ricominciò ancora a suonare, furiosamente stavolta, senza alcun rispetto per il tempo, l'espressione, la diteggiatura, sbagliando qualunque cosa, cercando di pensare all'onore della regina che si poteva difendere con questo matrimonio, ai vantaggi economici e politici, all'erede che poteva nascere e ai cognomi uniti, al casato da tramandare tanto Fersen ha un altro fratello, ai desideri dei due padri, alla stabilità, alla sicurezza, alle felicità di donna, ma ovunque si insinuava quella domanda: io amo André? Cercò di meditare la sua reazione alle parole dei due pazzi, al suo volersene andare via senza ulteriori commenti, al tentativo di trattenerla per un braccio di Fersen, al suo scattare arrabbiato e quasi isterico a quel contatto non voluto, al suo rinfacciargli le promesse non mantenute, i propositi non realizzati, il suo assurdo fuggire, all'ira disperata e furente che le era esplosa senza più controlli e al suo scappare in camera sua, ma ovunque c'era André, la sua presenza dappertutto, in ogni sua reazione, in ogni sua azione, pensiero, sentimento, modo di guardare, di muoversi, pensare, sentire. Ovunque lui e quella domanda che ora accompagnava la sua immagine: lo amo?

Del suo preludio non era rimasto più nulla, solo note scomposte senza tempo. Sentì bussare alla porta.

-Avanti. -sussurrò: fa' che non sia lui, fa' che non sia lui, si ripeté a ritornello, non sapendo però a quale lui si stesse riferendo.

Si affacciò André con l'evidente intenzione di giocare ancora alla Sfinge:

-Senti un po', se proprio devi ammorbarci per mezz'ora con sempre lo stesso pezzo ripetuto fino allo sfinimento è chiedere troppo l'eseguirlo almeno in maniera ascoltabile? -

Lei si confuse e farfugliò un incerto:

-Sì, hai ragione, scusa. -

Lui le buttò lì un ruvido grazie e chiuse la porta.

Oscar ormai aveva capito che il gioco della Sfinge voleva dire "peggio di così non può andare" e lo richiamò a gran voce.

Lui si riaffacciò:

-Hai bisogno di qualche cosa? -

-Di te. - Glaciale silenzio.

Alé, l'ho fatto ancora: gli ho parlato senza pensare. Se va avanti di questo passo finirà che mi getterò ai suoi piedi strappandomi i capelli e aggrappandomi alle sue gambe semidiscinta supplicandolo: per pietà, André, non farmi morire vergine e zitella, non mi abbandonare, freddo e superbo, sordo alle suppliche e alle mie dubbie grazie, non lasciarmi da sola a maledire e rimpiangere il tempo felice che fugge e le occasioni perdute. André! André!

Non poté impedire ad una smorfia dolente di arricciarle le labbra: poco ci mancava per arrivare in quello stato. Sospirò: si sentì assolutamente fuori luogo.

Lo guardò: la sua maschera si era incrinata lievemente senza però rovinare l'immobilità del tutto.

-In veste di zerbino, stalliere, soldato, attendente, amico o amante? -

Già, poco ci mancava. Per la prima volta comprese davvero che la sua presenza costante accanto a lei non era qualcosa di immutabile o dovuto e venne presa dal panico di una sua possibile assenza. Non mi lasciare, pensò in un lampo:

-Vorrei solo che tu stessi un po' qui, vicino a me. Non m'importa come. - riuscì a sussurrare.

Lo sentì addolcirsi.

-Vuoi, André? - Non ebbe il coraggio di guardarlo ancora temendo sia un'altra crisi d'Arianna abbandonata a Nasso, sia, peggio, un suo rifiuto. Ma sentì chiudere la porta e i suoi passi verso di lei; si spostò di lato sullo sgabello per fargli posto e quando lo sentì seduto accanto a lei, con le loro braccia che si toccavano, osò sbirciare nella sua direzione: per fortuna la maschera da Sfinge si era sciolta come cera.

Erano rimasti così in silenzio, vicini, a capo chino; Oscar con l'indice destro premeva piano dei tasti a caso. Fu André a rompere il ghiaccio:

-Allora? - ansia nella sua voce.

Lei sorrise:

-Quanto sei sciocco! Non è che le mie idee al riguardo siano cambiate da quella sera. -

Respirò liberamente, André, e si permise uno scherzo con voce soffusa:

-Ehi, sciocco a chi? -

-A te. -

Si guardarono sorridenti a capo chino tra una ciocca di capelli e l'altra. Lei gli sistemò un ricciolo dietro l'orecchio:

-Sai, io passerei tutta la vita con te. -

In un attimo André spostò il braccio dietro di lei appoggiandosi sul bordo dello sgabello, Oscar vide il suo sguardo farsi più intenso e il suo viso farsi man mano più vicino... Troppo vicino, troppo! Le labbra le tremarono mentre balbettò disperata:

-Però... però io non lo so se ti amo. -

Qualcosa cadde tra di loro col rumore di cocci infranti; André ritornò alla posizione di partenza con la stessa velocità con cui si era scomposto. E adesso, adesso che danno ho combinato? Che ho detto di male? Eh? Cosa ho sbagliato questa volta? Oscar iniziò a macerarsi senza sapere più come prenderlo: e poi si diceva delle donne, che sono complicate! Attese torcendosi le mani che a lui passasse la crisi da Sfinge.

Fece abbastanza in fretta, questa volta, perché poco dopo sentì il suo braccio poggiarsi cameratescamente sulle spalle mentre, con la mano che le stringeva la spalla opposta, la scuoteva vigorosamente:

-Eh, mia cara Oscar, non si può certo dire che una logica aristotelica sovrintenda tutti i tuoi pensieri, no? -

Lo guardo per bene in faccia e in quel sorriso sornione riconobbe la sua sconfitta: tanto, qualunque altra cosa avesse potuto dire sarebbe stata usata contro di lei. Sospirò con aria pateticamente rassegnata e mise il broncio sperando almeno in qualche scherzo rasserenante, che ne so, qualche scossone da fratello maggiore, una battuta consolatoria, cose così, insomma. Invece sentì uno schiocco veloce di labbra sulle sue e, prima ancora che lei avesse il tempo di assimilare l'avvenimento, le mani di André che le arruffavano i capelli sulla nuca.

E mentre lei rimase immobile a guardarlo con aria interrogativa André si alzò velocemente e uscì dalla stanza:

-Buonanotte Oscar! - le disse con voce divertita mentre le faceva ciao ciao con la mano. Chiuse delicatamente la porta dietro di sé: buonanotte Oscar.

Lei rimase immobile a guardare la porta  ancora per qualche istante, poi si portò una mano alle labbra: che imbecille, pensò, mi sono fatta fregare per la seconda volta. Ah, ma André Grandier, non sperare di farla franca questa volta! Puoi contarci o io non mi chiamo più Oscar!

Si avviò verso il letto pregustando sulle labbra il sapore della sua prossima rivincita.

 

 

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[i] Per una prima informazione sulla fortuna, o meglio sfortuna di Johann Sebastian Bach durante la sua vita fino al 1821 si veda Albero Basso, L'età di Bach e di Haendel, Torino, EDT, 2° ed 1991 pag 161-165