Manoscritto di un vecchio sporcaccione

(Nonita)

 

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Nonita, fiore della mia adolescenza, quanto ti desiderai, quanto ti cercai quando ancora ero ignaro dei turbamenti d’amore. Perché tu, evanescente sogno proibito, eri solo una creatura agognata, frutto dei deliri di un ragazzetto dai precoci pruriti. Nonita, il solo nome mi provoca un brivido che sale dai visceri e si estende potente per tutto il corpo. Gioco col tuo nome per farlo mio: N-O-N-I-T-A. Dolce suono che mi provoca un fremito nell’anima. Ah! Nonita, nonita mia…Spasmo orgiastico, nettare divinamente inebriante…

Ho sempre avuto una certa predilezione per quelle che io chiamo vezzeggiativamente “parchette”. Rammento che fin da piccolo mi accoccolavo nel grembo della mia nonna. L’ava mi stringeva con amorevole cura al suo petto vetusto ed io mi perdevo in fantasie morbose. Poi sono cresciuto ed è cominciata la mia educazione sentimentale fatta di sospiri di servette acerbe e di donnette prezzolate. Ma i visi rotondi e coperti di efelidi non provocavano in me lo spasmo erotico. Ero bramoso di esperienza, di caldi abbracci intimi e profondi capaci di togliermi il respiro. Ricordo quando la vidi  in tutto il suo splendore. I capelli candidi come la neve mandavano riflessi lunari. Le luci offuscate da una potente miopia, velate dalle lenti spesse degli occhialini d’oro. Il suo aspetto corpulento mi infiammò e si insidiò nella memoria lasciva e corrotta. Escogitai vari stratagemmi per starle vicino: l’aiutavo a salire lo scalone di marmo reggendole la tremula mano e di tanto in tanto afferrando la sua vita. L’aiutavo a portare il pesante vassoio d’argento in modo da sfiorarle la mano fugacemente. Ricordo con spasmi di voluttà il giorno in cui cadde ed io la soccorsi prontamente. A causa della caduta la gamba si era svelata ai miei occhi, liberata dall’ingombro del panno pesante. L’arto così pallido, solcato dalla linea ondulata delle varici fece in me scoppiare il desiderio folle. Dovevo farla mia. L’aiutai ad alzarsi e la strinsi a me mentre la guardavo con occhi di bragia. Le accarezzai il volto segnato dal tempo. O troppo, troppo debole carne! Al contatto di quella che mi parve una prugna avvizzita la mia virilità si svegliò, fiera e possente. Cercava di divincolarsi, la pudica, ma non glielo permisi. Premetti le labbra sulle sue. E, O dei del cielo siate miei testimoni, la possedetti sul posto scoprendo con un po’ di tristezza ch’ella non era alla sua prima esperienza. Lei mi si donava con vetusta pudicizia. Io mi muovevo come un fuoco dentro lei, solleticando i deliziosi baffetti che le crescevano sugli angoli di quella bocca rosata e un poco crespa. La mia lingua vogliosa esplorava il suo palato, percorrendo voluttuosamente il contorno delle labbra, alzando e abbassando la protesi. Ero eccitato come non mai e anche lei danzava seguendo il ritmo del mio maschio desiderio. Alla fine dell’amore l’ammirai: mai si era vista in tutta la terra creatura più sublime. Scrutavo quel corpo cadente, quel grasso morbido e rugoso, la linea dei fianchi scendere mollemente, i seni cadere sotto il peso degli anni. Avevo fatto di lei nuovamente una donna. Cominciò così la nostra relazione segreta. Quando la notte scendeva furtiva come un ladro, io mi introducevo avvolto dal silenzio, nelle sue stanze. Le declamavo dolci versi amorosi e la possedevo. Avevo preso piacere a dipingere le sue grazie e così, dopo l’amplesso, la ritraevo mollemente adagiata sul letto, tra la morbidezza dei pizzi. La vezzosa appoggiava la mano sul pube dal vago crine ed io non resistevo, la possedevo febbrilmente, senza sosta: c'era l'osso nei miei 20 cm di asta! Nonita, nonita mia, se penso a te, nulla ha più significato, il tuo amore val più del mia stessa vita, del mio onore.

Più la guardavo, nascosto da occhi sospettosi, camuffando il mio amore per devozione filiale, più sentivo montare in me la gelosia. Nonita era così bella, così calda, così prepotentemente donna. Mi prese, perciò, la brama di possesso e cominciai a prenderla in diverse posizioni. Quando ero in cucina, con la scusa di un assaggio culinario, la possedevo di tergo, alzandole le pesanti sottane e omaggiandola della mia virilità eretta, lignea come un orno. Lei tratteneva sommessamente gli spasimi e mi implorava nel silenzio di non appoggiarmi troppo alla schiena cara che da tempo era piegata dalla sciatica. Nonita, come ti possedetti in quel tempo d’ubriacatura d’amore? Ricordi, mio unico amore, magnifico strumento di sensualità e appagamento? Mia moglie, la donna che dovetti sposare per interesse di casato, non sospettava nulla. La nostra attività coniugale si era conclusa da tempo, con la nascita di Oscar la nostra ultimogenita. Oscar, ragazza che mi aveva sempre dato dei grattacapi per quel carattere troppo ribelle, troppo problematico secondo i costumi dei giovani d’oggi, era diventata una balda giovinetta piuttosto belloccia. Ella rappresentava l’unico ostacolo che si poneva tra il coronamento del nostro sogno d’amore. Purtroppo la ragazza non ne voleva sapere di accasarsi. Con la testa piena di idee alquanto bislacche, aveva voluto rinunciare alla sua femminilità indossando un’uniforme solo per seguire le mode del tempo. Sarebbe stata anche più carina se avesse curato maggiormente la sua persona e non avesse avuto quei capelli ammatassati, poco inclini al pettine, che ripugnavano la mia sensibilità estetica di uomo di cipria e parrucca. Io ero tutto preso dall’ardore per la bella Nonita e volevo che l’impicciona figliastra levasse le tende dal borgo natio anche perché la tenera fanciulla aveva raggiunta l’età di 33 anni. Mi accordai con tale Girodel, giovane premuroso che mi avrebbe garantito una nobile discendenza. Lo supplicai di convolare a giuste nozze con mia figlia Oscar, mi prostrai ai suoi piedi con gli occhi bagnati di fruttifero pianto pensando alle mie notti d’amore con Nonita e alla voglia di dare stabilità al nostro rapporto, che ormai non era più solo  sesso e  amplessi infuocati ma reciproca stima e nobile amore. La peste rifiutò il pretendente e portò lo scompiglio nella mia dimora. Si arruolò nei soldati della guardia seguendo qual malsano capriccio. Io e Nonita seguitavamo ad incontrarci segretamente sempre temendo le visite improvvise di mia figlia. Non resistevo più. Gli amplessi con Nonita erano solo fugaci sveltine consumate nell’oscurità della notte e nella solitudine della cantina dove tenevo il vino novello che lei, splendida come sempre, andava a prendere per compiacermi. La rabbia a lungo repressa e la frustrazione per il mancato coronamento del mio sogno d’amore più grande mi portarono ad aizzare lo spirito libertino della mia figliola in modo che aderisse ai moti rivoluzionari che imperversavano in Francia. E, con sotterranee macchinazioni la condussi nelle braccia di André, il nipote di Nonita segretamente invaghito della fanciulla da immemore tempo. Volevamo toglierceli dagli augusti piedi. E così fu. Mia figlia mi fece recapitare un messaggio in cui mi ringraziava dell’amore e dell’affetto che avevo nutrito per lei e mi supplicava di perdonarla. Il mio cuore cominciò a sobbalzare, il mio sogno si stava avverando. Con le ali ai piedi corsi da Nonita per asciugarle le lacrime. La presi per mano e la condussi nei miei appartamenti. Finalmente eravamo liberi di amarci. Mi sentivo fiero come un animale predatore dopo il travaglio notturno. La preda era stata catturata. La baciai lascivamente sul collo. Lei si contorceva e il suo corpo era percorso da ondate di voluttà. Le tolsi il grembiule e la contemplai in tutta la sua bellezza. Potevo dedicare al vetusto corpo tutte le attenzioni amorevoli di cui aveva bisogno. Lei impiegava un po’ per riscaldarsi ma io, nel mio ardore le stuzzicai i seni, delicati boccioli di rosa un poco caduchi. La mia prepotente virilità urlava dal desiderio: ahi, qual era cosa aspra e dura, pareva lo stendardo spiegato per l’ardua battaglia. Mi tuffai su di lei e la feci nuovamente mia. Lei ansimava, implorava che rallentassi il ritmo per darle il piacere ma io, egoista maschio dominatore, accelerai i moti d’amore. Raggiungemmo la meta, io per primo, lei molto dopo. La guardai con le lacrime agli occhi: Nonita, finalmente insieme, io e te. Nonita, fiore della mia vita, focosa e parca amante. Nonita, bellissima ossessione. Nonita, Nonita, io e te insieme per sempre…

 

Generale de Jarjayes

Nota del curatore

Il manoscritto termina qui. Attraverso le cronache del tempo possiamo ricostruire con certezza le sorti del generale e della sua amante dopo il coronamento del loro sogno d’amore. Allo scoppio della Rivoluzione il generale ideò di mettersi in salvo con Nonita scappando dalla Francia. Prima di partire però, da nobile fedele della corona qual era, egli propose alla Regina un piano per facilitarne la fuga. La Regina rifiutò l’offerta coraggiosamente disposta ad andare incontro al proprio destino. Espresse solo la volontà di recapitare una sua ultima lettera d’amore al suo conte di Fersen. Accadde l’irreparabile. Durante l’incontro, Fersen rimase letteralmente stregato della bellezza e dalla grazia di Nonita. Fersen, provato dal fascino della “parchetta” si consumò di ardore e passione. Dichiarò il suo amore a Nonita con eterni giuri. Nonita, lusingata, accettò e ne divenne l’amante. I loro incontri si svolgevano all’oscuro dal generale. Nonita aveva tratto vantaggio da questa nuova relazione, si sentiva ringiovanita, una donna nuova, seducente e vitale. Decise, dunque, di migliorare il suo aspetto: impacchi alla camomilla, pomate per le varici, un mangiar più sano e ripetute tinture all’ennè per i capelli bianchi. Fersen le propose di fuggire lontano. E così fecero. A questo punto la storia si ingarbuglia e non ci consente di comprendere gli spostamenti di questo triangolo amoroso. Il manoscritto è stato divorato dai topi e alcune parti risultano di difficile comprensione. Possiamo solo intuire che il generale pazzo di gelosia si sia messo sulle loro tracce, fermamente intenzionato ad avere la sua donna. Nonita tentò un approccio col generale, provando a spiegare che il loro amore era finito, che lei stava vivendo una nuova giovinezza accanto ad Hans Axel. Il generale in un impeto di rabbia, furente per lo sfacelo della sua “parchetta” decise di togliersi la vita, non prima di aver ucciso il bel conte di Fersen. 

Imbracciò l’arma, sparò al conte freddandolo. Nonita, al culmine del dolore gli si gettò tra le braccia implorandolo di non commettere altre sciocchezze. Il generale non l’ascoltò e, rivoltole un ultimo sguardo compassionevole, quasi a contemplare quella maschera di belletto e tintura, premette il grilletto. Nonita restò tra lo stupito e il perplesso pensando che oramai la Francia era testimone dell’astro nascente di Napoleone Bonaparte. Alcuni studiosi affermano che Nonita non si diede per vinta e si mise alla volta di Parigi, forse in cuor sperando che il futuro imperatore avrebbe gradito le parchette. Si sa, morto un papa se ne fa un altro…

 

 

Mail to elisabetta.dragotto@comune.mantova.it

 

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