Quel che resta del giorno

 

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No.

Non sono in grado di affrontarlo, questo.

Perdonami, ti prego, non sono abbastanza forte per perderti. Se succede ti perderò. Ho perso tutto ciò che ho amato.

Ma tu non sei come tutto il resto.

 

Non so come rinunciare, e mi fa paura. Sei troppo vicino, troppo già mio perché possa ignorarti. Non devo ascoltare la tua voce, non voglio avvertire la stretta soffocante dell’emozione che il tuo corpo imprime nell’aria che mi sfiora. Non posso tremare avvertendo il tepore della giacca che ti sei tolto per impugnare la spada, per incrociarla con me. E che mi hai lasciato accanto, su quest’erba dove sono seduta, andando ai cavalli per prendere da bere.

Hai uno sguardo senza più domande mentre torni indietro. Lo osservo dal basso, stagliarsi sul cielo bruno di questa ennesima sera, e non ti accorgi che mi ha bruciato.

“È tardi”, dici, e ho voglia di gridare.

 

Non riesco ad afferrare quando è successo: dovrei dire da poco, eppure sento che non è vero. Che significa “da poco”? È un’espressione che non ha niente a che fare con te.

La mia paura nasce da questa certezza, implacabile: tu solo sei ciò che conta. Nulla ha senso, e non ho più me stessa se non ho te. Quel poco che resta di me, affidato ai tuoi sguardi. Ma i tuoi occhi è da tanto tempo che hanno rinunciato a sorridermi.

Perdonami, perché non ho più forze per chiamarti amore.

 

E nemmeno tu.

 

Perché? Spiegami perché, allora, rimani qui. Cosa vuoi? Qual è il motivo per cui non mi lasci? A volte ti osservo e mi sembra di vedere nella tua vita la forma della mia. Che tu non te ne vada perché sei in trappola, come me. E che sia così calmo perché sai già, per averlo provato, che questi lacci non si sciolgono, non si strappano. Che se li tiri stringono solo di più.

 

Eppure mi trovo, non so nemmeno da quando, a indugiare senza costrutto negli stessi luoghi dove tu sei, a ritrarre sguardi assorti e tardivi dalla linea delle tue spalle. Da un particolare del tuo braccio, delle tue labbra, dei pantaloni che ti avvolgono i fianchi. Come adesso, che hai preso i cavalli per le redini, per andare, e il vento scolpisce tra le pieghe incuranti della camicia che indossi i contorni precisi della tua schiena.

 

Prendo la tua giacca e mi alzo, vengo verso di te. Te la porgo con un sorriso che sento affiorare timido sulle labbra. Ma non te ne accorgi, mi dici grazie. E il tuo, di sorriso, si spegne quasi subito nell’espressione tirata del volto. Forse hai smesso di farti illusioni per queste cose. Forse nemmeno t’interessano più. Non t’interesso più io.

 

Un giorno mi gettasti sul letto e dicesti che mi amavi. E continuasti ad amarmi anche se ti cacciavo.

Mi ha sempre stupito l’ostinazione muta con cui decidesti di restare con me, senza chiedere niente. Mi spaventavi, mi irritavi all’inizio.

Poi iniziasti a sconvolgermi.

Quando restavo da sola, al riparo, non riuscivo a non ammirare quella tenacia. La tua tenacia che non ripagavo in alcun modo mi consolava delle mie paure.

 

Ma adesso no.

 

Qualcosa è cambiato, lo so. Non sei più tu a propormi di uscire per primo. Ti incontro sempre meno, sebbene viviamo nelle stesse stanze, casa e caserma, che poi è lo stesso, lo è sempre stato. Anche questo allenamento con la spada te l’ho chiesto io, e tu hai esitato, prima di dire sì. Sei meno attento, meno rapido nel parare: ho trovato la tua guardia scoperta due volte, stasera, e non te ne sei neanche accorto. Non ti concentri più, quando sei con me? Non t’importa più?

Hai voluto smettere, all’improvviso, e dopo aver riposto le spade, voltandoti, mi hai guardato come se non volessi vedermi. Come se cercassi una risposta nell’orizzonte. Non hai detto nulla. Quando sei venuto vicino, un attimo fa, mi hai sfiorato per caso e ti sei ritratto, come se avermi toccato ti dispiacesse.

 

Non t’importa più.

 

Ma allora perché resti con me ancora? Perché non mi hai lasciato? Perché mi sento in trappola io, adesso, e ho paura di muovere il più piccolo passo, vicino a te, perché non voglio infrangere questo precario equilibrio che è rimasto tra noi, memoria vacillante del legame fortissimo che avevamo un tempo, residuo prezioso di qualcosa che non ho mai voluto accogliere, quando potevo, e che adesso mi è così necessario per vivere che mi accontento di quel poco che me ne lasci… E ho paura di respirare troppo forte, di parlare in modo che ti ferisca, perché se parlo temo che le cose cambino in peggio, e di non aver più nemmeno i tuoi sguardi che mi ignorano, ma che almeno mi sfiorano, ancora…

 

È per questo che non posso. Non ho il coraggio di perderti. Non voglio correre nemmeno il rischio, e m’illudo di farmi bastare la tua amicizia di allora.

 

Ma con te è impensabile.

L’amicizia con te è non averti per sempre e desiderarti ogni giorno.

Ogni giorno di più, e non sono mai stata così sicura.

 

*

 

Non so quando ho iniziato ad amarti, non lo so davvero. Me lo sono chiesto tante volte e non sono riuscita a darmi una risposta. Da qualche mese, dovrei dire, se penso a ciò che provavo davanti al volto di Fersen, che ripeteva le mie parole su te, a Saint Antoine. Se penso alla tua mano che stringeva la mia, sul greto del fiume, mentre mi risvegliavo il mattino dopo quell’attentato, quell’esplosione, e tu eri svenuto ancora e c’era Alain a guardarci, e sorrideva stirandosi e diceva il nostro André ha difeso la sua donna.

 

Da allora?

 

No, eppure non da allora. Da prima.

Forse da quando potevo ancora sperare che fossi mio. Ed averti era così scontato, per me, che non gli davo importanza.

Quando penso questo mi assale una pena quasi compiaciuta, la soddisfazione amara di pagare.

Non c’è perdono, se non me lo insegni tu.

 

Ma sali a cavallo e aspetti fermo che ti preceda. Io vorrei rallentare e seguirti, invece, per rubare qualche minuto di te. Ti  passo a fianco, e prendo la tua andatura. Forse potremo parlare.

Dobbiamo parlare, perché non parlarti mi uccide.

 

***

 

È venerdì, e piove, e tra poco mi chiamerai. Ieri ti ho detto di passare dalla mia stanza.

Aspetto seduta sul letto il tuo bussare che conosco a memoria. Ma so che non entrerai, quando aprirò la porta.

 

Cos’è stato di te, André? Cos’è stato di noi? Dove sono quei giorni pieni di luce in cui i sorrisi che non facevo li leggevo sulle tue labbra? Quei pomeriggi che passavamo insieme e tu usavi per me le parole che non sapevo trovare?

Mi mancano i tuoi occhi di quando eri ragazzo, quelli che ho perso tanto tempo fa.

Quelli che mi guardavano con fiducia, che mi tenevano in equilibrio quando mi sforzavo di adeguarmi all’assurdo e di credermi ciò che non sarei stata mai.

A volte, suonando il piano, mi giravo verso di te e tu sorridevi, in un silenzio ovattato che solo l’armonia interrompeva, con passi struggenti nel pulviscolo luminoso della stanza.

Ora uno dei tuoi occhi non vede più, e quella ferita che hai ricevuto per salvarmi – che è come se ti avessi inferto io, da quel giorno – brucia sul mio cuore come la prova concreta della luce che ho sottratto al tuo sguardo, tanto tempo fa, molto prima che incontrassimo il cavaliere nero.

 

Eri tu a trovare le parole per me.

Ma è da tanto che non dici più niente, che non sei più lo stesso di allora.

Eppure io ti amo forse di più, per questi tuoi silenzi.

 

Riesco solo a pensarlo, ciò che provo. Mi fa paura il caos della mente, che si scatena nell’osservarti. Tu non mi parli, ora, perché il silenzio è la tua risposta al silenzio in cui ti ho rinchiuso. L’ho fatto per anni. A volte sembra una partita quasi conclusa, tra noi: una partita che dura da sempre, in cui non parlare è la strategia che hai usato per vincere.

Infatti adesso ho imparato a sentirlo, il tuo silenzio. Ad ascoltarlo piano e perfino ad amarlo come qualcosa che ti appartiene. E quando siamo insieme mi ci abbandono, come a una carezza dolente.

Ma dura sempre troppo poco. A un certo punto vai via senza quasi dire, e la paura dell’attimo in cui avverrà fa straziante e cara la vicinanza con te.

 

*

 

Ieri mi hai spaventato, perché non hai preso al volo quella bottiglia. Non m’importa cos’hanno pensato i soldati: la paura nella mia voce, spezzata come quei vetri vicino a te, non ero in grado di dominarla.

Ho paura.

“Se è uno scherzo posso anche ridere”. E hai riso, la sera, di fronte alla mia richiesta di giurare che vedevi bene. Ma non hai giurato. “Questo pugnale appartiene alla tua famiglia dal 1612”, hai detto invece, declinando con precisione date e genealogie.

Ti ho chiesto scusa. Ma tu non ridevi davvero, quando hai riso.

Avrei voluto fare altro che tornare indietro, con quel pugnale in mano. Tu guardavi verso di me ancora, e io stringevo quell’impugnatura e avevo bisogno di piangere, di voltarmi per non far finire quel momento così.

Poi sono iniziati i rintocchi per l’agonia del Delfino, e quel suono mi ha scavato dentro l’agonia del nostro amore mai nato. È stato questo il vero motivo per cui ho pianto, sentendo quelle campane, il motivo per cui mi è scivolato dalle mani il pugnale e lungo il viso le lacrime, e sopra il cuore l’amarezza di sapere che quel pianto disperato che non potevo fermare era insieme un pretesto, e una richiesta disperata di averti accanto. E che non ero capace di resistere al desiderio del tuo abbraccio fino al punto di usare la morte di un bambino per ottenerlo.

Quel bambino che amavo.

Ti ho sentito dietro le mie spalle, a un soffio da me, mi sono voltata a guardarti  e ho singhiozzato posando il capo colpevole sul tuo petto, mentre mi stringevi, senza riuscire a dirti perché.

Ma forse non serviva, forse tu hai capito, perché mi hai stretto senza chiedermi niente. E mi hai seguito fino a fuori quando sono uscita da sola, sotto la pioggia, per portare le condoglianze ai sovrani.

Se tu hai capito forse anche il mio pianto di ieri può ottenere perdono.

 

 

***

 

Ho imparato troppo dolore nei troppi anni che ho avuto senza saperli spiegare. Pesano dentro, oramai, ed è da tanto che ho smesso di credere alle storie che mi raccontavo.

Forse l’amore è una cosa che non mi riguarda. L’amore ricevuto e dato. Che non mi spetta, semplicemente. Forse ci sono persone cui nella vita non tocca, e io sono tra loro.

Ci sono arrivata col tempo. Mi sono dovuta abituare all’idea. In fondo credo di aver fatto di tutto per meritarlo.

A lungo, preso atto della realtà, sono riuscita a stare abbastanza calma, a condurre una vita tranquilla: libera, almeno, dalla speranza che conficca artigli teneri nel cuore che si fa uccidere.

È una conquista anche questa, in mancanza di meglio.

Ma ora ci sei tu, e non possiedo più nulla.

 

Era da tanto che avevo smesso di sperare.

Ma ora ci sei tu, e non posso farne a meno, e di nuovo spero.

 

E vorrei che mi amassi ancora come ti amo io. Vorrei trovare il coraggio per chiamarti amore, e confidare che tu voglia sentirlo, che ritorni la fiducia di allora, che la tua esistenza consumata accanto alla mia non sia l’espiazione ineluttabile di una condanna, ma un bisogno dell’anima, e una scelta della volontà.

 

Io saprei trovarlo straordinario.

 

Se la vita fosse una cosa sensata, e si potessero guarire le sue ferite, ti curerei senza pretendere di non sentire più male. Non ti chiederei di farmi felice per sempre. Rimarrei solo in silenzio, addosso a te, come ieri, tenendo gli occhi chiusi.

 

 

 

**************************************

 

 

 

Lasciami, ti prego. Abbandonami. Gridami forte in faccia che non mi ami. Prendi la mia spada e uccidimi. Gettami ancora su quel letto, ma con odio, e finisci di fare ciò che iniziasti allora.

Ma dimmi che non è vero… che non è vero… ti prego…

 

Il tuo sorriso triste dei nostri giorni sperperati, che lasciavo passare senza raccoglierlo, aveva dentro questo strazio sperduto? Il tuo non volermi guardare, parlare, il tuo evitare i pochi incontri con me, veniva da questo segreto che hai consumato da solo? Le tue mani che sfioravano incerte le cose, come se dovessero conoscerle per la prima volta, e che sfioravano anche me nello stesso modo, con quel tocco lievissimo e distratto, che mi sembrava freddo, indifferente… era questo? Era questo, André?

 

Quanti errori devo ancora commettere prima che il dolore mi annulli, e mi impedisca di farti male… quante volte devo scoprirmi incapace di comprendere l’essenziale? Quanto ho guardato me stessa, invece che guardare te?

 

E che importa, adesso, che importa della mia malattia… Non mi fa quasi più male nemmeno quando mi assale, da sola, nella notte disperata della mia stanza.

Amore, amore, perché non mi hai parlato di te, perché non mi hai detto della luce che non trovavi, dello sforzo di restarmi vicino senza cercarla, dell’angoscia mascherata sotto il conforto delle frasi consuete, e sotto il silenzio… il tuo silenzio, che hai sempre usato soltanto per non darmi dolore…

Perché?

 

Perché ho dovuto saperlo, così tardi, dal dottore da cui ero andata per curare me? E quanti altri lo sapevano, lo avevano capito, mentre io non capivo?

 

Lo sapeva tua nonna, che ti scopriva a contare i passi nel buio di corridoi divenuti ostili? Lo sapeva il tuo amico, che ti aiutava a nasconderlo perché nessuno lo dicesse a me? Lo sapevano gli altri, che incontravi nei giorni di licenza, quando andavi da solo a sentir parlare di libertà, e cercavi nel cielo gelido di neve poca aria da respirare per sentirti libero, anche tu, nonostante me?

 

E tu, lo sapevi, André? Da quanto lo sapevi? Da quanto, amore?

 

Il dottore me lo ha detto, da quanto. Ieri notte. Gliel’ho fatto ricordare con esattezza. E lui continuava a ripetere: “È mai possibile? È possibile che si sia tenuto tutto dentro, che non ve ne abbia parlato?”

Continuava a ripeterlo, come una litania.

In quei giorni lo hai saputo, amore… in quei giorni disperati in cui ti ho cacciato, mentre inseguivo la mia illusione e tormentavo ostinata la mia ferita… tu lo hai saputo allora… allora…

Quando Fersen è venuto per dirmi addio, quando sono fuggita da lui e da tutto il resto, per lui, mentre mi vedevi raccogliere a terra i frammenti di quel bicchiere e guardarli come se fossero pezzi del mio cuore, e dirti “no” senza aggiungere altro in risposta alla tua offerta d’aiuto… tu lo sapevi, lo sapevi già?

Lo sapevi mentre dicevi: “Posso fare qualcosa per te?”

E come hai potuto dirlo, se lo sapevi? Come?

 

Ecco perché uscivi da solo tutte le notti e poi tornavi pieno d’alcol e ti nascondevi al mio sguardo e io pensavo che il tuo passo incerto nel salire le scale fosse solo il passo di un ubriaco... Non comprendevo e mi sembravi distante, strano, e non mi chiedevo perché.

Perché non mi chiedevo niente di quelle notti disperate che cercavi da solo?

Perché non mi stupivo di vederti sparire, dopo avermi chiamato?

Perché non mi ha sconvolto vederti seduto a terra, la testa tra le mani, nella torre di casa mia, in un silenzio atroce interrotto solo da quel singhiozzo impercettibile, e mi è bastata la bugia che mi hai detto, quando hai sentito la mia voce stupita che chiedeva: “André…”, quando hai capito che ero salita a cercarti, proprio nella torre, e un sorriso pallido si è stirato sul tuo volto e hai risposto: “Andiamo, dai, ero un po’ stanco, soltanto…”

“André, ma…”

“È tutto a posto, andiamo”.

Perché ci ho creduto? Si vedeva che non era vero. Forse crederci mi creava meno problemi? Non mi costringeva a pensare?

Tu lo sapevi, lo sapevi già…

 

Sì lo sapevi, e lo sapevi quel giorno nella mia stanza, mentre ti mandavo via. Lo sapevi col mio schiaffo sul viso e il mio rifiuto nel cuore, e le mie labbra costrette contro le tue ed i miei polsi intrappolati nelle tue mani, e la violenza del tuo abbraccio e di quel dolore e il buio improvviso della mente che guidava i tuoi gesti e la luce straziata che li ha fermati, che ti ha fatto piangere, e andare via…

Tu sapevi, quel giorno, cosa sarebbe accaduto poi.

Sapevi che i tuoi occhi non avrebbero visto più.

Sapevi e avevi paura di perdermi, di venire cacciato, di non starmi vicino ancora…

E io ti ho cacciato, quel giorno.

 

 

***

 

 

Il tuo profilo, nel buio. Il tuo volto e la tua mano con la pistola. Davanti a mio padre.

“Che cosa? Tu vorresti scappare con Oscar?”

La tua conferma.

Una risata amara, cosciente: “E magari vorresti anche sposarla, non è vero?”

Hai detto sì. E perfino mio padre non si è stupito di udirlo.

 

A terra, davanti a me. Un uomo spezzato, ai miei piedi, ad affrontare la morte.

Senza aspettarti in cambio nemmeno una parola.

 

E io non ho detto niente, infatti.

“André, io…”

Poteva essere l’inizio di qualunque frase.

Non ho detto niente quando ti sei rialzato, senza guardare verso di me, mentre mio  padre era fuori.

E nemmeno quando fianco a fianco, in cima alle scale, lo guardavamo gioire per la mia salvezza.

Quale salvezza?

Non ti ho nemmeno sfiorato.

La tua mano tremava appena sul ferro della ringhiera.

Ti ho lasciato andar via, in silenzio, calmo e sfinito.

Poco tempo fa.

 

 

*

 

 

“Non vi pare che sia diventato un ottimo soldato della Guardia, comandante?”

Hai detto questo alla mia sedia vuota. E io ci avrei creduto, alla tua battuta.

Quante altre volte ho creduto al tuo inganno disperato.

Poi le tue parole da solo, invece, quando quella sedia vuota l’hai vista ma non hai visto me, appoggiata allo stesso muro.

“Un ottimo soldato, già…”

Lo sconforto del tuo sospiro, la tua mano passata lieve sulla fronte.

Avrei voluto darti tutta insieme la dolcezza che non ti ho dato in una vita.

 

Eppure non volevi venire a casa con me, quando, fuori, ti ho chiesto di farlo. Io ho preso la tua mano perché era l’unico modo per non piangere. Era calda e asciutta, e tu trasalivi.

Non mi hai mai detto di no.

 

 

***

 

 

È strana questa luce rosata che il tramonto riflette sul tuo viso. Ha dei bagliori arancioni, che inaspettati si accendono sulle labbra, sotto le ciglia. Ti volti verso quel quadro, e il tuo profilo non mi è mai sembrato così dolce.

“È bello al di là di ogni descrizione…”

La luce fa brillare di rosa il sentiero di una lacrima nata dall’occhio che non vede più.

No, non è più bello della tua descrizione, amore.

Parli di un sorriso che non ho, in quel ritratto che mi dipinge come sono, e che tu vedi nello stesso modo in cui hai sempre visto me.

Migliore di come sono.

 

“Vedo anche una rosa bianca… no, due… no… un’infinità di rose…”

“Sai cosa mi ricordano quelle rose? Arras, i luoghi in cui andavamo molto spesso da ragazzi. Non lo ricordano anche a te?”

 

C’è quasi un’eccitazione ansiosa in questa domanda, e per farla la tua voce è tornata indietro a quel tempo, lieta e malinconica insieme. C’era una sfumatura appena infantile nei tuoi toni, quando dicevi certe cose.

“Sì, ma io lo sapevo…”, ho risposto, cercando di ritrovare anch’io quegli stessi toni. Che conoscevo, allora.

Hai un sospiro breve, contento.

Adesso non riesco a non piangere, ma tu non devi sentire.

 

“Non dimenticherò mai la bellezza che emana da questo quadro”.

“Come non dimenticherò mai la tua vera bellezza, Oscar”.

 

Ti volti. Hai capito che c’era un gemito nel sospiro che ho soffocato.

“Oscar”.

Ti chini su di me, sei in ginocchio davanti a questa poltrona su cui sono seduta. Mi posi una mano sul braccio e lo senti tremare. La tua stretta affettuosa si blocca, per un istante. “Oscar…”

Non riesco a trovare la parola che incida questo silenzio.

Forse è il tuo nome.

“André…”

“Oscar, cos’hai…”

“André… perché puoi dirmi cose come queste… perché… Io non le ho mai meritate, André…”

Infelice e sollevata, avverto la tua mano tornare a stringersi, e l’altra cercarmi per posarsi sull’altro braccio. Non dici nulla e chini il capo, resti in silenzio così. Scivolo a terra, contro il tuo corpo.

“Oscar…”

Mi hai accolto in un moto arreso, pieno di tenerezza e dolore. Non parli e mi dai il conforto che ti chiedo. Non so quanto dura. Soffri, e la tua carezza è dolce soltanto per me.

 

Le parole mi chiamano. È la prima volta da allora che trovi di nuovo il coraggio.

“Oscar… noi… Cosa siamo noi, Oscar? Due amici che a volte si abbracciano? Cosa…”

Ma ti penti di averlo detto, mi lasci piano. Il tuo sospiro è disperato, e lo vuoi nascondere, e non vedi le mie braccia che si sono tese per fermarti, mentre il rosso di questo cielo mi fa ingoiare le ultime lacrime.

Ho saputo fare di te un uomo sempre più solo.

 

 

 

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“No… aspetta…amore…”

La tua voce non è mai stata così, come è adesso che sei dentro di me, e il tuo abbraccio trema mentre avverto il peso del tuo corpo nel mio, che mi spinge sopra l’erba tenera della notte. Non è mai stata così piena di gioia, la tua voce. Ed è come se ti scoprissi oggi.

“Amore…”

Me lo hai detto mille volte… all’inizio quasi con pudore, perché era come se non ci conoscessimo ancora, quando ho sentito il sapore della tua pelle. “Accarezzami”, ho mormorato, quasi stupita dalla parola.

“Amore”. Te l’ho detto anch’io mentre mi spogliavi, mentre lasciavo che le maniche scivolassero sulle braccia, mentre sollevavo le mani, per aiutarti a sfilare la camicia. Mentre chiudevo gli occhi, e in ginocchio, come te, su quest’erba, aspettavo il contatto delle tue labbra sul seno, trasalendo allo sfiorare inatteso della tua lingua.

Una vita ad aspettare, e stanotte ci siamo presi qui, all’improvviso, in un bosco pieno di lucciole, vicino a un fiume.

 

È la prima volta che ti vedo felice, ed è così bello che non posso smettere di abbracciarti, di tenerti a me. Un fremito, il tuo respiro sul viso, il tuo sguardo abbandonato, la fronte che si posa sulla mia spalla. Le mani tese e tremanti, sulle mie braccia.

È la prima volta che ti vedo felice, e sono felice.

 

“André… André…”

Quante volte ti ho implorato così, questa notte. Non conoscevo desiderio e piacere, prima di te. Non avevo mai fatto questo, prima.

Eppure mi sembra di morire, adesso.

 

In questa notte attesa da sempre e improvvisa, con intorno un mondo impazzito e  alle spalle una vita spesa a farci male, adesso siamo solo noi due, insieme, ci accarezziamo senza nient’altro che conti.

Adesso, per la prima volta, André.

 

Ci apparteniamo, solo pensarlo mi porta fuori da me, mentre ti stringo in questa sera di luglio che è l’inizio vero della vita per noi. Sotto il cielo la pelle nuda, siamo abbracciati. E sono baci lievissimi, tremanti, nell’incontro delle labbra che si cercano appena, nell’abbandono languido e completo  delle bocche che si confondono. Il tuo respiro è silenzioso e inquieto, le tue ciglia si sono chiuse quasi con timore mentre il tuo corpo si muove in fretta, sempre più in fretta, dentro di me. Quasi un sussulto, nella mia voce, e parole per pregarti in gola che si spengono nel tuo bacio. I battiti impazziti nel tuo petto. Ti guardo e provo tanta gioia che devo voltare il viso, perché due lacrime scendono dai miei occhi. Su un filo d’erba, vicino a me, una lucciola plana come in una danza. Il fiume mormora e dilaga nel cuore.

 

Amore, amore. È bellissimo essere tua, mio amore. Io non credevo, non speravo che tu potessi volermi ancora così, che potessi amarmi con questa intensità straziante. Ma è così, è come se tutto il dolore ci fosse scivolato sopra senza intridere l’anima, per lasciare che le tue mani potessero cercarmi con questa frenesia dolcissima, frementi dell’emozione che avresti avuto ragazzo, sicure nella forza sofferta del tuo amore di uomo.

 

Una notte per tutte le notti che non abbiamo avuto. La prima di tutte le notti che ci daremo, per dimenticare il niente. Questa notte.

 

L’hai sempre saputo che ti amavo. Mi hai detto questo. Ed è vero… non c’è dolore né pena dentro di noi. Mille volte ti ho chiesto perdono e mille volte mi hai baciato dicendo che non c’è niente, proprio niente da perdonare. In ogni istante, nei tuoi ti amo, il tuo corpo ha carezzato il mio. Sei spirito che si confonde nel mio pensiero, e mani che rapiscono i sensi.

Ho compreso che era da sempre che ti aspettavo. Che c’eri tu, e tu soltanto, per me.

 

Il mio André.

Ho capito cosa significa questa frase, che quando mi salì alle labbra non conoscevo.

L’ho capito perché stanotte ho scoperto la carezza dolce della tua pelle, il tremito travolgente e indifeso della tua voce. La voglia e il bisogno e di te, di unire il mio corpo al tuo, di tenerti in me per sempre, senza farti andar via mai più. Di affidarmi alle tue braccia dimenticando ogni cosa, dimenticando anche me, perché soltanto in questo abbandono, tra le tue braccia, io esisto.

Sei mio.

Ti amo, e stanotte sono viva, davvero. Da stanotte so chi sei, cosa siamo noi.

 

 

 

 

**************************************

 

 

 

Tre… quattro… cinque… le sto contando senza rendermi conto. Cento gocce d’umidità scivolano lungo la volta, cadono dentro questo fiume. Sotto un ponte, per non farci massacrare, per portare in salvo quel poco che è rimasto della compagnia.

Lassalle è morto. Si è lanciato al galoppo contro i fucili allineati per noi. Non mi ha ascoltato quando gli ho gridato “fermati”. È caduto sul selciato con una riga di sangue tra le labbra, sul viso.

Seduta su questi gradini, le ginocchia tra le braccia. Teniamo buoni i cavalli perché un nitrito non ci faccia scoprire. Eravamo esaltati, stamattina all’alba, montando in sella.

 

La battaglia per la libertà. È questa, nonostante la morte e il dolore. Dovevamo combatterla. Noi siamo dalla parte giusta, non siamo noi quelli che hanno tradito la Francia.

 

Siamo dalla parte giusta.

Ma ci stanno ammazzando, uno a uno.

 

“Comandante, cosa facciamo adesso?”

 

Comandante… comandante…

Sono qui.

Vi porterò al sicuro, darò gli ordini che servono.

È mio dovere, prima di tutto.

Di tutto…

 

Dobbiamo attraversare Parigi per unirci a Bernard e agli altri. È la sola speranza. Altrimenti ci uccideranno, e non servirà aver capito dopo tanto tempo, aver sofferto e deciso da che parte stare.

Questi sono i miei uomini, mi obbediscono perché credono in me, e non li ho mai delusi, perché credo in loro.

 

Non voglio che debba morirne nemmeno un altro di più.

 

Luce rosa riflessa sull’acqua che trema. È stato un giorno lungo, e sta per finire. Queste ore decideranno di noi. Fra poco è il tramonto, e non si torna indietro.

 

Anch’io non voglio morire.

Prima la morte non mi faceva paura. Non così. Per un soldato è buona compagna, la morte. Si impara a conviverci, perché fa parte del rischio.

In fondo è per questo che porti addosso un’uniforme e imbracci un fucile.

Una metafora della vita.

Un militare teme la morte mettendola in conto.

 

Anche ora è così. Ma non è più solo questo.

Per me.

 

“Io non voglio certo morire”. L’ho detto due notti fa, al dottore. Ho tante cose troppo importanti da fare.

Ed è vero. Tante, troppe cose per poter chiudere la partita adesso.

 

Le carezze di ieri notte.

 

Dove sei, amore.

 

Ti cerco con gli occhi. Mi sei distante, seduto sotto questo ponte con accanto Alain. Hai il viso rivolto nella mia direzione, ma non possiamo scambiarci neanche uno sguardo d’intesa, perché non mi vedi.

 

Vorrei venire a farmi stringere tra le braccia.

 

Ma non si può. Non in questo momento. Ai soldati serve un comandante, adesso, non una donna innamorata di te.

 

Un'altra colpa da espiare.

 

Ma tu sai, e non cerchi di chiamarmi lì. Hai sempre compreso e accettato la mia vita.

 

Solo per poco ancora, André.

Da stanotte cambierà tutto, te lo prometto. Ci riuniremo agli altri e poi andremo in qualche posto solo per noi, fino alla mattina. Stanotte sarò ancora tua, ed avrò ancora i tuoi baci e la tua voce così diversa e dolce, ed il tuo respiro.

Stanotte sarai mio, e le altre notti ancora, perché il bisogno delle tue braccia mi sta bruciando il cuore.

Avevo paura di amarti perché credevo che ti avrei perduto. Ma l’amore mi ha riportato il tuo sorriso, e mi ha donato il tuo volto intento, tenero e perduto sul mio. Ora ti amo, e non ho paura.

Abbiamo speso una vita intera a farci del male, ma abbiamo davanti un tempo per rimediare.

Ci è stata data un’occasione ancora.

E la useremo. Rimedieremo, André, perché vivere ha senso solo con te.

 

Dopo questo tramonto che sta per posarsi sulla città. Le ultime briciole del giorno.

 

Non essere triste, noi non dobbiamo soffrire più. Ci sono io, e tu non devi temere nulla. Nessuno ancora si metterà tra di noi… abbiamo superato tutto, tutto, e quello che avevamo è stato più forte di ogni colpo che ci ha dato la vita. Anche quando non sapevamo di averlo.

 

Guarirò da questo male, te lo prometto. Mi curerò e starò bene per te. E tu sarai felice. Staremo insieme per sempre, e sarà niente, allora, il tempo che siamo stati divisi.

 

Non importa se non vedi, amore, non devi piangere più come hai pianto ieri, posandoti sul mio seno, chiedendo solo di stringerti perché non bastavano le parole che avevi. Io ho capito, e per tutto il tempo della vita ti stringerò, perché tu non tremi, e ti dirò che ti amo china sul tuo volto.

 

Mi farò perdonare di tutto, te lo giuro, anche se non hai niente da perdonarmi. Mi amerai infinitamente, André.

 

Non importa se non mi vedi, io saprò amarti così tanto che non lo ricorderai più. Sarai felice con me, amore mio.

 

*

 

Adesso ho paura di morire perché non ho più paura di vivere.

 

*

 

Centouno, centodue…

Contare fa bene, in momenti come questi. Aiuta a mantenere la concentrazione. L’ho imparato alla scuola di guerra, tanto tempo fa.

Aiuta a trovare il momento giusto: anche il tempismo è una cosa che si impara. Dobbiamo scegliere il momento giusto per uscire da qui, dal buio di quest’arcata che ci nasconde. Dobbiamo uscire. C’è da attraversare mezza città, prima che venga sera.

 

Quanto è umida questa notte che sta arrivando. Sarà una notte di pioggia, non come la nostra notte di ieri.

Ma non importa, dimenticheremo la pioggia tenendoci stretti sotto le coperte. Senza dormire.

E ti dirò una cosa che ancora non ti ho detto.

Che ti ho sempre amato, André. Ho amato soltanto te. E nessun altro, mai.

 

 

*

 

Centotrenta.

Ecco, è il momento giusto.

Mi alzo per dare l’ordine con un gesto.

La pistola in mano, vado avanti io.

Con silenzio e rapidità.

Al mio segnale. Usciamo.

 

 

Fine

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