Prima che ti chiami amore

 

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Tornò a casa che era notte inoltrata, l’uniforme che gli stringeva il cuore. L’aprì sul collo, con una mano, in un gesto quasi rabbioso. Gli uscì dalle labbra un sospiro senza conforto.

La stanza era completamente buia, e non trovò subito la candela da accendere. Imprecò, sbattendo contro una sedia. Alla fine fece luce, si mise a sedere sul letto.

Un cattivo sapore in bocca, troppo vino schifoso mescolato insieme, da una bettola all’altra. Per troppe notti di seguito. Un bel modo di godersi la licenza. Non aveva più un soldo.

Gli ultimi li aveva dati a quella puttana, in quella stanza pidocchiosa da cui era venuto via quasi con disgusto. Mai successo, così. Si era steso sul letto senza sollevare la coperta, con la bottiglia in una mano tenuta dal collo, a penzolare dal bordo. “Datti da fare, amore”, le aveva detto. Dopo, chissà perché, gli era venuto da vomitare.

Non era la prima volta che incontrava una prostituta, e questa non era neanche particolarmente simpatica. Ma a un certo punto aveva avuto compassione per lei. Per se stesso, anche. Le era venuto in bocca e poi si era quasi dispiaciuto. Quasi le chiedeva scusa. Aveva pagato ed era andato via in fretta, fuori da quella topaia.

Certo casa sua non era meglio. Da quando non c’era più nessuno, poi, aveva perso l’aspetto di una casa: sembrava una tana. Si guardò in giro: vestiti sparsi, bottiglie vuote. Le lenzuola prima o poi le avrebbe dovute cambiare. Quando c’erano sua madre e Diane quella povertà almeno aveva un aspetto umano. Ma ora.

E poi lui a casa non c’era mai, troppo occupato in caserma. Meglio così, pensò. Almeno lì non ho tempo per stare solo.

 

Solo che in caserma c’era lei. E starle accanto in quel modo era molto peggio che stare solo.

E  c’era André, in caserma. Era suo amico. E lei era la sua donna: non si tocca la donna di un amico. Maledetta, la vita.

 

Stavano insieme, ora lo sapeva. Era successo da poco, da pochissimo. Ma erano amanti, di nascosto da tutti. Li aveva visti.

Li aveva visti per sbaglio, e loro non se n’erano accorti. Ma lui conosceva la storia, e per loro fortuna era l’unico lì dentro che avrebbe potuto scoprirli senza pericolo. Lo sapeva che André amava Oscar da anni, e aveva capito che anche lei lo voleva. Fino a quel giorno era fuggita. Ma quel giorno no.

 

Erano nell’ufficio di lei, li aveva visti lì mentre andava a consegnare il rapporto dell’ultima    missione. Era sera tardi. La chiave era girata nella serratura, ma la porta non era stata accostata bene e così era rimasta aperta, il chiavistello serrato sul vuoto, la soglia socchiusa.

Non poté evitare di vedere i corpi dalla fessura, e solo per un istante non riuscì a staccarsi, attonito. André le era sopra, l’aveva sdraiata sulla scrivania, la prendeva in un abbraccio pieno di foga e passione. I capelli biondi di lei sparpagliati sui verbali, la divisa aperta sul petto candido. Gli cingeva il collo, con gli occhi chiusi. Gemeva, e gemendo gli diceva ti amo. Quante volte glielo diceva.

Si era ritratto, come se lo avesse investito un pugno.

E passava gente, nel corridoio.

Si era messo di guardia all’uscio, sull’attenti. “Il comandante non vuol essere disturbato”, aveva anche dovuto dire.

Poi gli era venuto da ridere. No, decisamente non vuol essere disturbato, in questo momento.

 

Chissà da quanto stavano insieme.

Un paio di settimane, forse. Era da un paio di settimane che André non toccava per terra, quando camminava.

 

E quando il suo amico era tornato nella camerata e si era sdraiato sulla branda, guardando la rete del letto sopra di lui come se fosse un cielo stellato, quando l’aveva visto sorridere e aveva sentito sfuggirgli quel sospiro, allora la scena che aveva visto si era arricchita di un significato molto più profondo. Perché sarebbe stato facile chiamarla sesso, ma non era quello, era molto di più.

 

L’aveva invidiato. Perché aveva lei e perché aveva il suo cuore.

E gli aveva voluto bene, perché era bello alla fine sapere che l’amore esiste davvero.

 

 

Già, l’amore.

Lo conosceva anche lui.

Non da molto, per la verità: ed era così poco abituato a pensare in questa prospettiva che aveva fatto fatica a capirlo, all’inizio.

Non che avesse avuto sempre relazioni leggere, questo no. E anche con donne di strada non ci andava quasi mai. Ma non si era mai preso troppo sul serio, in passato. Forse non aveva incontrato la persona giusta... forse era stato lui a non essere la persona giusta.

E la vita che faceva era dura, i problemi tanti: si era arruolato per risolverli, e per troppo tempo aveva dovuto pensare solo a quelli.

Prima era più scanzonato, sapeva buttarla a ridere e affrontare ogni cosa. Con disincanto, certo.

Poi la morte di Diane, e di sua madre.

Era rimasto solo, senza più nessuna voglia di scherzare.

 

Solo.

Beh, del tutto solo no.

C’era André, che in quei giorni gli era stato vicino da vero amico, nello stesso modo in cui lui l’aveva aiutato all’inizio, quando gli altri soldati sospettavano del suo arrivo, insieme a quella donna che avevano mandato a comandarli.

Era stato André a venire in casa sua e a portarlo via dal corpo di sua sorella, deposto sul letto, da cui non riusciva a staccarsi perché non poteva accettare che si fosse uccisa. Che non ci fosse più.

Per amore.

Lo aveva strappato a forza da lì, le mani sulle spalle. Poi l’aveva anche sbattuto contro il muro tenendolo per il bavero della giacca, coi pugni chiusi, perché lui si ribellava.

Finché non era tornato in sé.

Allora aveva lasciato che si appoggiasse alla sua spalla, per piangere.

Mentre Oscar, che si era portato dietro, li guardava impietrita senza sapere che fare.

Guardava André, soprattutto. Persino in quel momento lo aveva notato.

 

André gli aveva portato la paga, e poco tempo dopo l’aveva di nuovo aiutato, quando si era trattato di fare il funerale a sua madre.

 

Sì, era un amico, e gli voleva bene.

 

Ma lei, allora?

Come poteva provare questo per lei, se lei era la sua donna? Se erano una cosa sola?

E non da due settimane, no.

Da molto prima, era più che evidente. Oscar doveva soltanto accorgersene.

 

Forse era stato persino lui, Alain, a farglielo capire. Con quelle frasi pungenti che le rivolgeva sempre.

“Credo che vi ami, comandante”. Non le aveva detto questo, quando avevano pestato André e lei stava sull’uscio, davanti al suo corpo steso a terra, con le lacrime agli occhi?

“Bene, allora vi lascio soli, credo sia meglio che vi occupiate voi di lui”.

Era ironico, il tono che aveva usato.

“In ogni caso vi ama tanto da rischiare la sua vita per voi...”.

Questa gliel’aveva mormorata col viso a pochi centimetri dal suo viso, in un sorriso serio, passandola da parte a parte con lo sguardo. Ed era andato a segno, se n’era accorto.

 

Ma anche i suoi occhi azzurri erano andati a segno.

 

 

Comandante, comandante...

 

Scosse la testa che teneva tra le mani, seduto sul letto. Lo conosco anch’io, l’amore, comandante.

Tutta colpa tua.

Perché era bella. Ma no, non soltanto per quello.

Perché si sapeva battere con la spada: se è per questo lo aveva anche sconfitto, una volta. Più o meno.

Perché sapeva dare ordini e riportare a casa la truppa tutta intera, perché era eroica ma non chiedeva a nessuno eroismi inutili.

Perché era davvero un militare, e conosceva la vita. Rispettava la morte.

Perché entrava nelle camerate e camminava impassibile in mezzo a quella soldataglia sporca, sudata.

Ma nulla poteva sporcare lei. Sembrava ancora più donna, in mezzo a loro.

 

No, non aveva mai rifiutato davvero la propria femminilità: questo Alain l’aveva capito.

Viveva come un uomo, ma sapeva bene di non esserlo.

 

Mancava solo una cosa. Che l’avesse, un uomo.

Poteva scegliere, la desideravano in tanti. E non solo nobili.

 

Spesso sentiva i suoi compagni scherzare, mentre giocavano a carte. “Tu cosa le faresti, Alain?” Lui rispondeva con un mugugno, e metteva a tacere quei discorsi: ma lo faceva per evitare che dovesse farlo André, altrimenti il suo amico avrebbe dovuto battersi un giorno sì e un giorno no.

Quando André non c’era era meno in imbarazzo, e li lasciava dire. Ma non partecipava.

 

“Io le toglierei quella divisa per vedere cosa c’è sotto”, diceva uno.

“Da’ retta a me, quella ha un corpo da farti venire un infarto”.

“Ma sei proprio sicuro che non ci trovi la sorpresa, al dunque?”

“No, l’unica sorpresa è che se ti azzardi a toccarla ti ritrovi la spada infilata su per il culo”.

Risata generale, sguaiata.

Ma in fondo anche questo voleva dire che la rispettavano. Nessuno pensava sul serio a lei come a una donna che si potesse avere.

 

Nessuno tranne André, che non diceva mai niente, ma si comportava come se fosse sua.

 

Ed era sua, infatti. Aveva ragione. Ci aveva messo tanto ma l’aveva avuta.

Alain cercava di non pensarci, ma la scena gli tornò in mente di nuovo.

Cosa gli era saltato in mente, a quei due, di fare una cosa del genere in caserma? E con la porta aperta? Erano impazziti?

Erano pazzi, sì. Beati loro, erano pazzi.

Quanto doveva amarlo lei per farsi prendere in quel modo, nel suo ufficio, senza aspettare di tornare a casa, visto che abitavano anche insieme? Di correre quel rischio? Proprio lei, il severissimo comandante Oscar?

E senza nemmeno chiudere bene a chiave? Quanta fretta, avevano.

Certo di tempo ne avevano perso...

 

Quante volte gli diceva ti amo.

In realtà Alain non aveva mai visto niente di più romantico in vita sua.

Quei capelli sparsi sulla scrivania erano un bagliore accecante nell’oscurità. Quel seno bianchissimo, che più che vedere aveva intuito, in quegli istanti, era un mistero svelato, un tesoro prezioso e irraggiungibile. Le mani affusolate, le ciglia lunghissime chiuse. E André completamente perduto, che non chiudeva gli occhi, invece, e la guardava come se non ci credesse.

 

Certo, con tutto quello che aveva passato per lei...

 

Com’era possibile che fosse contento per André e che il desiderio di lei non lo facesse dormire...

Ma non era solo desiderio, era molto peggio.

Si passò una mano sulla fronte. Si rese conto con una chiarezza incredibile che ciò che avrebbe voluto era che lei lo guardasse nello stesso modo.

 

Se n’era reso conto da un po’.

Per questo aveva chiesto una licenza. Per allontanarsi da quei pensieri.

 

Erano sbagliati, e del tutto inutili, tra l’altro.

Non avrebbe mai preso la donna di André, nemmeno se fosse stata lei a entrare nel suo letto, e a pregarlo di farla sua.

 

Beh, in quel caso avrebbe resistito con grande difficoltà, ammise con una risata amara.

Oscar che entrava nel suo letto, che assurdità...

 

L’aveva sognata ancora, ieri notte. Ormai la sognava così spesso che a volte si chiedeva se non fosse sveglio, invece, e, se quelle non fossero fantasie che faceva a occhi aperti, dando poi loro il nome di sogni per tappare la bocca alla coscienza.

L’aveva sognata. E, in quelle immagini, la ricordava piena di desiderio.

 

Si ritrovava solo con lei in un castello abbandonato, mentre perlustravano le campagne, che li avvolgevano in un’esplosione di fiori. Come quel giorno della scorta al principe spagnolo. Ma era lei che lo cercava, non il contrario.

I suoi occhi azzurri, all’improvviso, nell’oscurità fresca di quella stanza trasformata in granaio. E la luce filtrata dalle fessure. Erano solo loro. Non esisteva nessun mondo intorno.

Gli prendeva le mani e gli sorrideva. Ed era strano, perché in quel momento a lui salivano lacrime agli occhi, e le lasciava uscire guardandola, mentre lo teneva così.

Poi però la baciava, e lei rispondeva a quel bacio.

 

Rispondeva, sì, e si abbandonava al suo abbraccio senza nessuna ritrosia, e Alain poteva finalmente conoscere sotto quella divisa le linee morbide del suo corpo di donna, che era proprio come lo immaginava sempre.

E voleva lui.

Si sdraiava sul grano e lo attirava a sé, tenendo gli occhi chiusi mentre le sbottonava l’uniforme, le passava le labbra sulla camicia leggera, la carezzava con gesti incerti, come se non avesse mai toccato una donna in vita sua.

Lei teneva le ciglia chiuse, vibrando d’emozione: ma all’improvviso, mentre si avvicinava per baciarla ancora, apriva gli occhi a guardarlo, a chiamarlo a sé. Ed in quegli occhi Alain non si trovava più.

Anche lui si spogliava, allora. No, era già nudo, come lei, adesso, e i loro corpi si sfioravano in un movimento lentissimo e dolce, lei gli passava le dita delicatamente su tutto il petto. E con le mani, poi, scendeva alla vita, e gli stringeva i fianchi con un fremito improvviso, e lo tirava a sé. Lui perdeva la testa, e le baciava il collo pieno d’ardore, le baciava la bocca senza farla staccare dalla sua bocca, e non  voleva altro che entrare nel suo corpo. E lo faceva, sì.

La prendeva, entrava in lei con dolcezza, con irruenza, con passione delicata e impetuosa, e quasi non riusciva a credere di essere in lei, non poteva credere al proprio corpo che si muoveva dentro il suo, alle proprie braccia che l’avvolgevano, tenendola stretta sotto di sé, per nasconderla a tutto il mondo mentre la sentiva sospirare di piacere e dirgli: ancora, ancora..., e i suoi occhi azzurri gli trapassavano il cuore.

L’amava disperato e felice, e la guardava ansimare e tremare perché lui la stava facendo godere, ed era bellissimo farla godere e guardarla, ed era bellissimo seguire quel ritmo e quel piacere, e capire che era anche il suo piacere, e abbandonarsi in un gemito tormentoso, completo, in lei.

 

Poi non voleva staccarsi dal suo corpo, dal suo profumo. Non voleva aprire gli occhi, non voleva muoversi. Non voleva ritrovarsi da solo, dove lei non era.

 

Si risvegliava, ma non era eccitato. Era pieno di dolore, solo dolore.

 

Resta con me, comandante.

Solo con me.

 

Ma erano parole del sogno. Soltanto quello.

 

 

Si tolse gli stivali, l’uniforme che gli era toccato portare anche quel giorno, perché era in licenza ma erano in stato di preallarme, al Corpo di Guardia, e potevano richiamarlo in qualsiasi momento. Ormai era un preallarme continuo, nell’esercito: la situazione a Parigi non prometteva niente di buono.

Proprio un bel momento per farsi venire certe idee, quando le cose potevano precipitare in un attimo, e magari domani si sarebbe beccato una pallottola venuta da chissà dove.

Magari domani sarebbe morto. Tutti i soldati correvano quel rischio, adesso, e lo sapevano.

Ecco cosa gli era saltato in mente, a quei due.

 

“E’ una donna da ammirare, non da amare”. Non era stato proprio lui a dire questo ad André, tanto tempo fa? “Dammi retta, dovresti smettere di pensare a lei”.

“Si finisce in un mare di guai per un amore impossibile”. Questo gli aveva detto.

Già... in un mare di guai.

Ottimi consigli, davvero. E pessimo esempio.

Alzò le spalle e rise, una smorfia sulle labbra chiuse.

Per fortuna André non se n’era accorto. Prima perché lui era stato attento a mascherarlo molto bene, da quando aveva capito cosa provava per il comandante: perché André quando Oscar non era ancora sua era capace di intuire una cosa come questa anche da mezza parola.

Poi perché André l’aveva avuta, e da quando l’aveva avuta era talmente certo di lei, talmente preso da lei, che non avrebbe capito neanche se lo avesse visto piangere sul suo ritratto.

 

Quanto doveva amarlo lei per renderlo così sicuro...

 

Finì di spogliarsi e rimase nudo, in mezzo alla stanza. Versò dell’acqua fredda nel catino, dalla brocca. Si lavò il viso, il collo, si diede una pulita.

Rifece il letto e ci buttò sopra un lenzuolo nuovo. Poi si sdraiò, così.

 

Chissà dove stavano, adesso, Oscar e André.

Probabilmente a casa anche loro, in attesa di ordini. Tutte le volte che ci era andato lui, a portare ordini al comandante, li aveva trovati insieme. Si esercitavano con le armi, bevevano il tè. Non si parlavano, per lo più, mentre c’era qualcuno: ma si avvertiva sempre un’intimità che lasciava fuori gli altri.

E c’era una cosa che l’aveva sempre colpito, quando andava in quella casa: vederli senza uniforme, in abiti civili, semplicemente una camicia e dei pantaloni, tutti e due. Perfettamente naturali.

Loro si conoscevano senza uniforme.

Forse stanotte stavano dormendo insieme.

Sì, era sicuramente così.

 

Certo dovevano stare attenti a non farsi scoprire.

Ma in fondo chi ci avrebbe pensato, dopo tanti anni? Forse anche entrare nella stanza di Oscar era normale, per André. Era senz’altro così.

 

André.

Certo, che l’amava... come avrebbe potuto evitare di amarla vivendo con lei una vita come quella? Era già tanto che non fosse impazzito, fino a quel momento.

 

Che storia incredibile... una donna educata come un uomo, con accanto un uomo che vede in lei soltanto la donna. E l’ama.

Come aveva fatto lui ad amarla in silenzio per tutto quel tempo? A resistere?

Possibile che non avesse mai perso la testa, neanche un momento?

Ma forse sì. Dovevano avere più di un segreto, in quel passato. Qualcosa che sapevano solo loro. Si intuiva chiaramente, che c’era qualcosa di privato. Anche prima che stessero insieme.

Altrimenti perché André si stava ubriacando, quella notte che l’aveva conosciuto? Perché l’unica frase che gli era sfuggita, in mezzo a tutto quell’alcol, era stata: “Non mandarmi via”?

E certo non diceva a lui: stava guardando un’immagine nella mente, un ricordo fresco.

 

Dormivano insieme, ora, e lei lo abbracciava. Non lo mandava via, facevano l’amore tutta la notte. Non perdevano più neanche un momento, di sicuro.

Lui, se fosse stato André, non l’avrebbe perso.

 

E sicuramente non lo faceva nemmeno André.

Gli somigliava in tante cose, anche se non sembrava affatto. Per questo era suo amico.

Certo, a guardarli insieme, si sarebbe detto che fossero due temperamenti opposti: e in parte era vero. Ma erano opposti solo per chi non li conosceva bene. Per chi non conosceva Alain.

“Cioè tutto il resto del mondo”, rise portando le braccia dietro la nuca, sul cuscino. Alla luce della candela studiò l’ombra del suo corpo proiettata sul muro, la curva del ginocchio sulla gamba che aveva piegato, la linea del polpaccio e la coscia che proseguivano il disegno dei fianchi. Era un corpo robusto, il suo, robusto e armonioso. Ne era contento.

Eppure qualche volta gli sembrava inadatto al suo cuore. In disaccordo, ecco.

Anche per questo era amico di André, forse. Perché anche André aveva un fisico forte e uno spirito attento: solo che lui sapeva equilibrarli meglio, in lui non si sentiva il contrasto.

Merito dell’educazione, probabilmente.

 

In fondo André era l’unico amico che avesse mai avuto. Lo aveva subito attratto quel suo modo silenzioso di stare insieme, che però non era sgarbato, cupo. André era una persona socievole, invece, di natura cordiale, se lo sapevi prendere. Poi quel suo non dire le cose dipendeva dalla vita che aveva avuto, da come vi si era conformato regolando le sue reazioni. Da lei.

Certo, da lei: lei era la visuale su cui si era abituato a orientare i suoi comportamenti.

 

Ma era un buon compagno e un amico fidato. Accettava da lui discorsi che non avrebbe accettato da nessun altro: lo lasciava fare quando gli faceva prediche su Oscar, e a volte rideva anche, sebbene non rispondesse mai. Ci bevevano sopra.

Ma era un sacco di tempo che di prediche su Oscar non gliene faceva più. Prima perché aveva capito che ormai era troppo tardi, poi perché si era accorto che non sarebbe stato più in buona fede.

Aveva lasciato perdere.

 

Avrebbe dato un braccio per André, ed era addolorato nel profondo per quello che gli stava accadendo.

Stava perdendo la vista. Per lei, ancora una volta. E con lei continuava a stare, senza dirle niente. Dio, ma come faceva Oscar a non rendersene conto? Bastava passarci mezza giornata per capire che non trovava più le misure, che gli riuscivano difficili le cose più semplici. Perdeva la vista e si era rassegnato a perderla donando a lei tutto quello che ne fosse rimasto, fino allo stremo. Senza alcuna speranza, senza alcun compenso. Quanto doveva amarla, maledizione, per decidere di fare una cosa come quella?

 

E lei non si accorgeva di niente. Forse non voleva accorgersene.

Già, doveva essere così. Aveva visto il terrore, dipinto sul suo viso, quel giorno che André aveva mancato la bottiglia vuota che stava in mezzo al passaggio dei deputati, e che gli aveva tirato perché la buttasse via. Era rimasta senza fiato. E André lì, a guardarsi la mano, così stupito da non riuscire a improvvisare una reazione credibile.

Era intervenuto lui, con una motivazione stupidissima che però era bastata a rassicurare entrambi.

No, non voleva crederci. E nemmeno André voleva.

Pazzi. Due pazzi disperati.

 

Per lo meno ora stavano insieme. Per lo meno si amavano. Per lo meno erano felici: se l’erano preso, finalmente, quel poco di felicità che restava.

Dio, quando pensava questo, avrebbe voluto che potesse durare in eterno, quella loro felicità.

Quando pensava questo pensava che sarebbe morto volentieri lui, se fosse servito a farli felici per sempre.

Davvero.

Era questo che provava, per loro.

 

“Tu hai un cuore troppo grande per questo mondo, Alain”.

Gliel’aveva detto Diane, un giorno, poco prima di uccidersi. E lui, che l’aveva sempre considerata la sorella bambina, aveva avuto i brividi cogliendo lo sguardo che le era passato negli occhi. Di una tristezza dolorosa, antica.

 

Gli faceva sempre male, pensare a Diane, ma gli metteva addosso anche tanta tenerezza: col tempo aveva imparato ad accettare che non ci fosse più, e nel ricordo di lei iniziava a trovare conforto.

 

Conforto.

Solo momenti brevi dura il conforto, per l’uomo.

Come il ricordo del sorriso di Diane, che risplendeva ancora, a volte, nel suo cuore. Come quell’amore tra Oscar e André, che adesso li consolava del male che si erano fatti tutta la vita.

Come il pensiero che così era giusto, che stanotte gli dava la forza di sopportare anche il suo, di dolore.

Momenti brevi. Quanto basta per addormentarsi, e smettere di pensare.

 

 

 

***

 

 

 

Dov’era? Maledizione, dov’era?

Possibile che fosse scomparsa così, nella notte, senza lasciare traccia?

Aveva perlustrato tutti i vicoli di Parigi, girato tutte le strade in cui poteva esser passata. E aveva anche trovato il suo cavallo morto, in una di quelle strade, abbattuto da una fucilata.

Gli si era stretto il cuore, in un respiro contratto, per il terrore di trovarla lì, accanto al cavallo. Morta anche lei.

Ma lei non c’era.

 

Non poteva essere andata lontano, a piedi. Doveva trovarla, l’avrebbe trovata.

Non avrebbe dovuto lasciarla sola, quella notte, davanti a quella chiesa. Avrebbe dovuto starle vicino, farla piangere e ascoltarla.

Ma lei era disperata. C’era una richiesta straziante di silenzio, nello sguardo che gli aveva rivolto. Di solitudine.

Per questo l’aveva lasciata sola, posandole il suo mantello sulle spalle, perché almeno non avesse freddo. Per discrezione. Per rispettare il suo dolore. Perché sapeva che niente di ciò che avrebbe potuto dire o fare le sarebbe stato di conforto.

 

“So che è doloroso perdere una persona appena si è scoperto di amarla”. Le aveva detto questo. Senza nemmeno guardarla negli occhi, per non ferirla. “Io so che il vostro dolore è molto profondo, comandante”.

No, non l’aveva guardata negli occhi, perché non vedesse le lacrime che gli stavano uscendo. Perché non vedesse il suo, di dolore, che non doveva vedere.

 

“Questo purtroppo non è il momento di piangere”. Così aveva cercato di farle forza.

 

Ma lei non poteva capire parole come quelle.

 

Dov’era? Cosa stava facendo? Come avrebbe potuto andare avanti, trovare un motivo per vivere, adesso?

Doveva trovarla.

E aiutarla.

E poi magari andarsene, se era la cosa giusta da fare.

Ma che adesso non rimanesse sola, no.

 

Era già stata troppo sola, in quelle ore, come mai le era successo prima.

Sola, a piangere sulla morte di André.

Sentì qualcosa che gli si strappava dentro, ancora una volta, al pensiero del suo amico steso su quel letto da campo, dei suoi ultimi momenti, così brevi e preziosi, prima che quella pallottola finisse di ucciderlo. Con lei vicino, che disperata gli sorrideva, per non disperarlo, e gli teneva le mani. E parlavano di matrimonio, di un futuro migliore, di luoghi del passato in cui sarebbero tornati insieme. A gioire di quel loro amore, per tutta la vita.

 

André. Non dovevi morire, André.

Non dovevi lasciarla sola.

 

Non dovevi lasciare me.

 

Resisti, gli aveva gridato, mentre tenendolo stretto lo portava al galoppo sul suo cavallo, già ferito, e lo sentiva tremare mentre al galoppo sfondavano le linee nemiche, coi suoi compagni intorno per proteggerlo, e Oscar che guidava la carica come una furia, davanti a tutti.

Resisti, André.

 

No, André, non dovevi morire.

 

Lo aveva detto anche lei, quando aveva compreso che era morto. Lo aveva gridato, straziata, con le braccia alzate sul viso, senza capire niente, più niente di quello che stava intorno. Non avresti dovuto lasciarmi sola, aveva implorato in quel grido. Non è giusto.

E poi era rimasta così, in ginocchio davanti a quel letto, a piangere senza controllo. Dimentica di tutto, di se stessa, dei suoi soldati che la guardavano, di tutti quelli che sapevano chi era. Aveva pianto con lacrime e grida che non finivano mai. E aveva scacciato con odio, con ferocia, chi si era avvicinato a portarla via. Era rimasta lì, davanti al corpo di André, da sola, finché la notte era scesa sulla piazza, ed erano comparse le stelle.

 

Poi c’era andato lui, a sollevarla da quel letto. Si era chinato sopra il corpo del suo amico, davanti a lei, e lo aveva guardato un’ultima volta. Gli aveva chiuso gli occhi.

Lei aveva alzato il capo verso il suo viso, allora, e aveva visto le sue lacrime. Gli si era gettata addosso, un fuscello tremante tra le sue braccia. E si era fatta portare via da lì, mormorando parole spezzate in un lamento flebile, continuo, mentre gli altri pensavano ad André.

 

Non doveva finire così, aveva detto.

 

No, non doveva finire così. Non sembrava che sarebbe finita in quel modo, quando li aveva visti arrivare in caserma, il 13 luglio, poche ore prima che sorgesse il sole.

Erano uniti, felici. Avevano fatto una scelta.

Erano entrati insieme nelle camerate dei soldati, dove tutti aspettavano svegli il comandante. Lei si era seduta a un tavolo, con loro, e non aveva parlato come un comandante, ma come una donna, un’amica.

“Vi dirò quello che farò io – aveva detto -. Ma è una scelta personale”. Poi si era girata verso André, e nel sorriso che ne aveva ricevuto aveva trovato il coraggio di continuare. “Ho deciso di lasciare l’uniforme, di non essere più il vostro comandante”.

Aveva abbassato gli occhi, e aveva proseguito con semplicità. Con modestia, ma senza imbarazzo: “E questo perché l’uomo che io amo, l’uomo della mia vita, forse mi chiederà di combattere con lui insieme al popolo in rivolta. E io lo farò”.

Io sono la compagna di André Grandier, aveva svelato. Con pudore, ma un accento pieno di gioia nella voce. Sono la sua compagna, e lo seguirò.

Lo aveva guardato di nuovo, e lui non sapeva più cosa dire.

 

Era stato allora che avevano deciso di unirsi ai ribelli. Tutti insieme, comandati ancora da lei.

 

E poi sembrava che tutto fosse tornato come prima, perché loro erano rimasti nelle camerate, ad aspettare l’alba e il momento della partenza, quando li avrebbe guidati a Parigi. E lei si era ritirata nelle sue stanze.

Solo, si era ritirata con André.

 

Lo aveva visto abbracciarla, nel corridoio scuro, quando erano usciti. E baciarla, di spalle a lui, facendola sparire in quell’abbraccio.

 

Non doveva finire così.

 

Invece André era morto, colpito da un proiettile al petto. E Oscar stava piangendo tra le sue braccia, quasi incapace di reggersi in piedi.

Non l’aveva mai tenuta tra le braccia. E si accorse che avrebbe preferito non farlo mai, piuttosto che farlo in mezzo a quel dolore.

 

L’aveva lasciata davanti a quella chiesa, e non l’aveva trovata più.

 

Dove poteva essere? Perché non la trovava?

Ormai non c’erano posti in cui cercarla ancora. La città era un intrico di vie, che presto si sarebbero riempite di una folla urlante, per un altro giorno di scontri. Quella notte, mentre lei non c’era, i capi del popolo avevano deciso di attaccare la Bastiglia.

 

Ma lei dov’era?

Continuava ad aggirarsi in quelle strade senza darsi per vinto, si affacciava in ogni vicolo, senza lasciarne uno, anche se ci era già passato. Oscar, dove sei, Oscar...

Fu così che la vide, e il cuore gli si riempì di pena.

 

Era in uno di quei vicoli sudici, a terra. Un fagotto blu senza forma buttato contro un muro. Tutta sporca, fradicia di pioggia. La pioggia che era caduta quella notte. I capelli incollati sul viso, gli occhi senza più luce.

Lo chiamò André, quando si accorse di lui.

Poi ritornò in sé, si rialzò nella sua statura. Trattenne un gemito e si tolse il mantello dalle spalle. Glielo restituì: “Questo è tuo, grazie”.

“Di niente”.

Né lui né lei parlarono, ancora.

Poi le disse della Bastiglia. Abbiamo bisogno di voi, le disse.

“Potrei... potrei piangere ancora un po’?”, chiese dopo alcuni istanti, quasi con timidezza.

“Certo, piangete quanto volete...”

Allora se la sentì di nuovo sul petto, si era gettata su di lui ritrovando all’improvviso tutto il suo dolore: aveva visto il suo volto riempirsi di pianto, e le aveva passato un braccio intorno alla vita. L’altro braccio, steso lungo il corpo, reggeva il mantello a fargli toccare terra. Chinò il viso su quel viso, e cercò di trattenere il suo pianto serrando forte le labbra.

Poi Oscar perse i sensi.

 

Per questo la prese in braccio, e la portò a casa sua, che era lì vicino.

 

Scottava, aveva la febbre. La posò sul letto piangendo, aprendole la giacca dell’uniforme. E quando fu solo, in quella stanza con lei, sentì il suo cuore traboccare per quell’amore che aveva tenuto a freno così tanto. Sentì il dolore straziarlo a fondo, perché lei era ridotta così, e non si sarebbe ripresa più, lo sapeva bene. Perché André era morto, e niente di ciò che poteva fare lui avrebbe mai potuto sollevarla ancora. Chinò il capo, accanto al suo corpo svenuto, e si lasciò andare ai singhiozzi, la testa tra le mani.

Pianse così, senza testimoni, per un tempo che gli parve lunghissimo.

 

Ma lei si riscosse, all’improvviso.

 

Aprì gli occhi, in uno sguardo vuoto, spaventato. Diede un colpo di tosse strano. Poi un altro. Si alzò a sedere quasi di scatto, mentre lui si avvicinava, e quella tosse l’assalì senza tregua, soffocando il suo respiro, impadronendosi del suo corpo, sconvolgendolo in sussulti atroci. Una tosse spietata, aggressiva: Alain capì ancora prima di vedere il sangue, che uscì dalle sue labbra inondandole il corpo, la camicia bianca, che sporcò anche i suoi vestiti, la sua camicia, mentre abbracciandola cercava di aiutarla, di fermare quei tremiti, gelato.

“Oscar!”

La guardò con occhi pieni di terrore, tenendo le sue braccia con le mani, in mezzo a tutto quel sangue, finché l’accesso finì, chiamandola, come per chiederle: “Oscar...”

Ma lei non gli spiegò, e stremata, guardandolo in un sorriso quasi folle, si passò sulla bocca una mano che le ricadde in grembo: “Lui non l’ha saputo – disse continuando a sorridere, come se trovasse un conforto inestimabile in quel pensiero -. Lui non l’ha saputo... è stato felice, perché non l’ha saputo... non gliel’ho detto...”

 

Poi nuovamente svenne, gli mancò tra le braccia, e Alain dovette deporla piano sul cuscino, mentre la guardava, guardava quel sangue, e risentiva le sue parole, e si mordeva il labbro, trattenendo il respiro per aspettare che il dolore colmasse la misura, e si rovesciasse in pianto. Ma il pianto non venne.

 

Rimase così, allora, impietrito, accanto a lei che moriva.

 

“Oscar, ma perché, perché...”

 

 

Trovò il coraggio, alla fine, doveva farlo. Doveva aiutarla lui, perché c’era solo lui, adesso. Doveva pulire quel sangue, doveva togliere quei vestiti bagnati, doveva aiutarla finché avesse potuto, finché ci fosse stato tempo che doveva vivere. Quanto tempo ancora, Oscar, quanto tempo hai?

Le tolse quei vestiti, e cercò di non guardarla mentre lo faceva, perché poter guardare il suo corpo era la cosa che più aveva desiderato, in quei mesi, quando sognava di poterla amare, cacciando via quei pensieri. Perché in quei sogni guardare il suo corpo era un dono che riempiva di gioia, non qualcosa che uccideva di pena, di dolore.

Eppure dovette guardarla, mentre con un panno pulito le toglieva il sangue dal viso, dal petto, mentre prendeva quell’uniforme bagnata per stenderla ad asciugare. Mentre le sfilava la camicia, e gliene metteva una delle sue.

Era bella, era bellissima. Ed era straziante avere davanti quel corpo, quel viso che adesso aveva ritrovato la quiete, e vederla dormire così, nel suo letto, e sapere che stava per morire. E pensare che sarebbe morta. Sarebbe morta.

Non riusciva ad accettarlo. Non ci riusciva.

 

André era morto, e si era portato via anche lei. Lei era felice di seguirlo. Lo aveva detto che lo avrebbe seguito, quella notte in caserma, davanti ai soldati.

Era morto, e morendo aveva scavato una profondità incolmabile tra lei e la vita. Non era mai stata così lontana come quando lui non c’era stato più.

Ma questo Alain l’aveva sempre saputo. L’aveva sempre saputo.

 

Amore mio, amore mio, perché dovevi essere tu, perché dovevo amarti così e intrecciare la mia vita al tuo amore... Perché dovevo guardarti senza poterti nemmeno dire cosa provavo per te, perché doveva succedere che solo dirtelo ti avrebbe ferito? Allora e ora, molto di più, anche se stai per morire, e vorrei tanto che lo sapessi, prima di morire...

Amore mio, perché, amore mio, perché dovevi essere l’amore del mio amico, perché non poteva essere che esistesse una te per me senza dovermi spaccare il cuore per lui, per voi... perché siete stati felici per così poco, perché non sei stata felice una vita, e avete sofferto così, invece...  e adesso morirete, e vi perderò... A cosa è servito sacrificare il mio amore se voi morite, se vi perderò tutti e due?

Perché?

Perché...

Perché dovevo vedervi morire tutti e due?

 

 

Rimase così, a vegliarla, disperato, seduto accanto al letto, senza chiudere gli occhi per non perdere un solo istante di ciò che restava della sua vita.

 

 

*

 

Passò un po’ di tempo prima che lei si riavesse. Ma alla fine aprì gli occhi. E si guardò intorno. Sembrava stesse bene, adesso. Era un po’ spaesata, ma quando lo vide gli sorrise.

Poi ricordò, e divenne seria di nuovo.

“Alain...”

“Sì, comandante...”

“Dove siamo, dove mi hai portato...”

“A casa mia, comandante. Eravate svenuta...”

“Ah, sì... ero svenuta...”

Fece per alzarsi, ma le forze le mancarono, e si poggiò su un gomito. Si guardò addosso. Guardò lui.

“Dove sono i miei vestiti...”

“Ho dovuto... toglierli io, comandante... Erano bagnati... erano fradici... Non potevate rimanere così... scusate... ho dovuto...”

Trovò un sorriso: “Hai fatto bene, Alain”.

Poi si mise a sedere sul letto: “Ma ora ridammeli, dobbiamo andare”.

“Dove? Dove volete andare, comandante?”

“Alla Bastiglia. L’hai detto tu, mi ricordo...”

“No, no, voi dovete restare qui, riposarvi... dovete...”

“Cosa, Alain? Curarmi?”

Gli rivolse un sorriso così tranquillo e determinato che il respiro gli si gelò.

“Andiamo, Alain. Dammi l’uniforme, per favore”.

“Comandante...”

“Ti prego”.

Non poté fare a meno di ubbidire. La prese dalla sedia, fuori, dove l’aveva stesa ad asciugare al sole.

“Adesso voltati, per favore, Alain”.

“...Sì, certo... certo...”

 

Aspettò che fosse pronta, e quando gli disse di girarsi la vide in piedi, davanti a sé, come l’aveva sempre vista quando li guidava. In uniforme blu. I capelli biondi, che sembravano quelli di allora. Aveva la sua camicia, sotto l’uniforme.

Sì, sembrava quella di allora, non la donna straziata che aveva preso tra le braccia, in quel vicolo, poche ore fa, per portarla a casa sua.

“Andiamo, Alain. Ci stanno aspettando”.

 

 

*

 

Quanto tempo era passato da quel momento? Da quando l’aveva fatta uscire da casa sua, per portarla alla Bastiglia?

Un’ora, forse.

E adesso era lì, stesa davanti a lui, stava per morire.

Colpita da chissà quanti proiettili, mentre comandava l’attacco.

Si era messa proprio davanti, bene in vista. Dava gli ordini per far sparare i cannoni.

Lo aveva capito troppo tardi che si era messa apposta lì, bene in vista.

E quando era stata scaraventata a terra dalle pallottole non aveva potuto fare niente per salvarla.

Si era precipitato da lei, a farle scudo col suo corpo. Si era preso anche una fucilata, per proteggerla. Al braccio.

Ma non lo sentiva. Non sentiva niente. Soltanto lei.

“Oscar! Comandante Oscar! Abbiamo bisogno di voi, Oscar!”

Aveva aperto gli occhi, allora.

“Non c’è bisogno che urli così. Ti sento benissimo, Alain”.

“Oscar...”

 

L’avevano portata via, a braccia, in una strada dove gli spari non arrivavano. Poi lei aveva chiesto di metterla giù, di fermarsi. “Sono stanca, io sono tanto stanca”, aveva detto.

Stavano intorno a lei, ma lui era il più vicino, le teneva la mano.

“Qualcuno le pulisca quel sangue che ha sul viso”, aveva detto il dottore.

Allora Alain l’aveva guardato, un’espressione di terrore negli occhi.

 

Stava morendo. Adesso stava morendo.

 

No, Oscar, non devi morire, ti prego. Non devo vederti morire. Non permettere che ti veda morire, ti prego comandante, ti prego...

 

Eppure lei sorrideva. Gli sorrise senza dire nulla.

Moriva.

E mentre moriva, mentre capiva che l’avrebbe perduta per sempre, che non avrebbe più visto i suoi occhi, il suo sorriso, che non avrebbe più potuto nemmeno amarla in silenzio, nemmeno sperare che fosse felice lei; mentre sentiva la sua mano farsi sempre più debole, il suo respiro tremare e quel sorriso spegnersi piano sul suo viso, nel suo cuore, allora Alain capì che non avrebbe mai più provato quello che provava per lei, per nessun’altra donna, e che lei morendo si sarebbe portata via tutto di lui, tutto quello che gli restava da sperare, per sempre.

Allora soffocò un gemito nel dolore, e continuando a tenere quella mano nelle sue mani mormorò piano: “Ti amo, Oscar”. Ma stando bene attento che non potesse più udirlo, ormai, perché quelle parole non dovessero essere le ultime che sentiva, prima di morire.

 

 

 

FINE

 

 

Nota.

Piccoli debiti da saldare, di cui rendo conto qui.

Con Laura, perché la frase: L’aveva sognata. E, in quelle immagini, la ricordava piena di desiderio” era un suo messaggio, in cui trovò le parole che volevo usare prima che le formulassi nella mia mente, e mi colpì al cuore a tal punto che quel messaggio lo incollai nel mio testo, così com’era.

Con Elisa, perché il ritornello “Amore mio, amore mio” mi viene dal suo “Ultimo amore”, che non mi abbandona più da quando l’ho letto, come una specie di canto intimo che non mi dà pace finché non lo esprimo. Soprattutto adesso che ho letto il suo “Alain” e nei suoi cambi di registro meravigliosi ho ritrovato i personaggi miei, pur così diversi.

Con Fiammetta, perché la sua “Farsa” mi piacque molto, e credo infine che la scena della scrivania mi sia venuta anche da lì, presentandosi alla mente piena d’immagini di cose lette, viste, ricomposte dal cuore. Sebbene lo abbia capito dopo, non mentre lo scrivevo.

 

 

Fine

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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