Nelle mani

parte III

 

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Quella notte non era riuscita a dormire e nemmeno la notte dopo. Era rientrata in casa, insieme ad André. Senza fuggire, stavolta. E nell’ingresso, dove non c’era nessuno che potesse scoprirli, lui l’aveva baciata ancora. Facendo un sacrificio immenso, poi, per lasciarla andare.

“Domani vengo con te”, le aveva detto staccandosi.

 

Ed era stato così: non aveva più cercato di impedirglielo, non l’aveva più sfuggito come i primi giorni. Le mancava, anzi, quando le sue mansioni di comandante le sottraevano la sua presenza al fianco. Quando andava a colloquio privato con la regina, quando doveva occuparsi di addestrare i soldati e organizzare le scorte per i sovrani.

Rispondeva al suo saluto silenzioso, ritrovandolo ad aspettarla, con un silenzio uguale e confidente, pieno di un’intensità che ora riconosceva. Erano degli sguardi soltanto loro, quelli che si scambiavano adesso, anche se c’erano altre persone: dialoghi senza parole, che nessuno poteva udire.

E André era stato all’altezza della situazione, da subito. Il fatto che l’avesse baciata e tenuta stretta non aveva cambiato il suo comportamento con lei, il riguardo e anche la stima che le aveva sempre dimostrato. Chissà per quale ragione aveva temuto che potesse accadere. Forse perché aveva sentito di non poterlo impedire, se lui avesse voluto imporsi, tentare di invadere i suoi spazi, se si fosse mostrato incapace di mantenere davvero quel segreto.

Ma non era stato così. Non poteva succedere, certo. André era ancora più discreto, adesso. Svolgeva tranquillamente i suoi compiti come aveva sempre fatto e aveva un atteggiamento più che naturale. Con gli altri, ma anche con lei. L’amore non si era sostituito, ma aggiunto all’amicizia. C’erano lo stesso affetto, la familiarità di prima, la capacità di sostenerla e ridere insieme che c’erano stati sempre. E manteneva la stessa considerazione per le sue qualità. Oscar sapeva che l’aveva sempre apprezzata, per quello che aveva dentro e per come sapeva essere fuori, per come era capace di far fronte ai suoi compiti, alle responsabilità del suo ruolo: e adesso non era cambiato, continuava a farglielo capire. In più era come se a quella stima si fosse unito una specie di orgoglio, che la riempiva di piacere. Come se fosse fiero di lei: e lo dimostrasse, però, con una discrezione silenziosa, fidata. Solo Oscar leggeva la tenerezza di quegli sguardi.

Si allenavano ancora insieme, con la spada, e André era quello di sempre: temibile, impegnativo, e attentissimo alla velocità dei suoi fendenti, degli assalti che lei sapeva portare così bene, elegantissima e pericolosa. Parava e rispondeva, con la stessa energia, con lo stesso piacere che mostrava sempre, quando si battevano. E anche lei si faceva prendere da quegli scambi, concentrata e agile. Si sorridevano, prendendo fiato, prima di incrociare ancora le lame.

 

No, nessuno lo avrebbe capito. Nessuno avrebbe mai potuto sospettare quello che accadeva tra loro, né in casa né fuori.

Si sentiva, anzi, come se quel pericolo potesse venire più da lei. Che non riusciva, a volte, a controllare le emozioni che l’assalivano.

Perché per lei non era più lo stesso. Si ritrovava tra le sue braccia tutte le volte che erano soli.

 

 

Com’era successo che si fosse abituata ai suoi baci al punto di averne bisogno ogni giorno non lo aveva ancora capito. Ma era successo, e non riusciva più a ricordare com’era prima.

Nella soffitta, l’altro giorno, quando erano saliti insieme a cercare la prima spada che avevano avuto bambini. Ne stavano parlando e avevano deciso di andare a vedere se c’era ancora. Ma non era il vero motivo, per nessuno dei due. Non avevano fatto in tempo ad aprire quel baule che le loro mani si erano cercate, e si erano abbracciati, sfiorati. Erano rimasti immobili, le bocche vicine, le labbra socchiuse, senza dir nulla. Poi si erano baciati all’improvviso, ed erano finiti a terra, a carezzarsi con gesti ansiosi, nel riquadro di luce disegnato sul pavimento dalla finestra sopra di loro.

Non si baciavano soltanto, adesso. Ogni volta era qualcosa di più, che succedeva perché era troppa la passione che avevano dentro, e sembrava che a quel tormento dolce non si potesse porre rimedio se non scoprendo nuovi modi per tormentarsi. Non avevano fatto l’amore, no, ma Oscar desiderava che accadesse, ormai, anche se ne aveva paura. E André lo voleva disperatamente, anche se cercava ogni volta con slancio la tortura di quell’attesa, e l’accettava senza forzarla mai.

Ormai conosceva il suo corpo. Lo aveva toccato, piena d’emozione e timore. Lo stesso timore e la stessa emozione che aveva lui, perché anche per lui era stata la prima volta. Era stato un momento dolcissimo e intenso, nella stanza di André, ed era stata lei a scendere con la mano sul suo petto, facendogli mancare il respiro, mentre scendeva ancora. L’aveva sfiorato con movimenti inesperti, senza guardarlo negli occhi, finché non aveva sentito la mano di lui sulla sua. Erano rimasti in silenzio, e lei quasi si vergognava, mentre gli rimaneva stesa vicino senza parlare. Ma non si erano lasciati, e André le aveva dato baci dolcissimi, dopo.

 

 

André, André, c’era soltanto André, adesso. Nei suoi pensieri, nei suoi giorni, al mattino, sapendo che lo avrebbe incontrato, e la sera, pensando che sarebbe stato bello averlo lì, insieme, a lei. Se non se ne fosse andato dalla sua stanza, dopo averla baciata senza insistere troppo, perché troppo non riusciva a resistere se andava oltre il bacio che le dava ogni notte, prima di lasciarla sola.

Ma non poteva andare avanti così, lei lo sapeva.

Non lo voleva, soprattutto.

 

Era impazzita, era impazzita davvero. In pochi giorni, da un momento all’altro. Perché?

E Fersen? Fersen era sparito, semplicemente scomparso dai suoi pensieri, come se non ci fosse mai stato. Era scomparso fin da quel primo bacio, vicino al fiume. Perché quel bacio era stato vero, era stato suo. E tutti gli altri baci con André erano stati veri, tutte le sue carezze. Le parole che le aveva detto erano vere, era vero che voleva fare l’amore con lei sopra ogni altra cosa. Ed era vero che l’avrebbe aspettata, perché soltanto una cosa era più importante di questa: che lei gli dicesse che lo amava. Era tutto vero, era vero André. Lo era sempre stato.

 

Lo amava? Sì, amava qualcosa, dentro di lui, che non sapeva dire. Ed era strano, perché non erano sguardi, parole, pensieri che aveva appena scoperto: era qualcosa che conosceva da sempre, invece. Che conosceva bene. Solo che adesso si poteva chiamare amore.

E come era accaduto che le venisse in mente di chiamarlo amore perché aveva sentito le sue labbra aprirsi mentre la sfiorava? Perché aveva accolto con gioia i suoi baci e le carezze delle sue mani, fin dalla prima volta, senza fuggire mai? Come poteva chiamare amore non i pallori, le timidezze, le ansie, non il bisogno di disegnare un’immagine, nel suo cuore, e crederci, non il pensiero dei suoi occhi e del dono di parole che non avrebbe mai detto, e di sguardi che aveva avuto, da interpretare piena d’incertezza, non riuscendo mai a convincersi del tutto di aver capito veramente cosa volevano dire? Non tutto questo, non quel timore, no. Non la tristezza, l’ansia, la gioia di pensarlo, la sofferenza di sentirsi ignorata, e le fantasie che avrebbe fatto per colmarla, e tutti i sogni imprudenti con cui mettere in gioco il cuore e perderlo ogni volta, fino a scoprire che non c’era più nulla da mettere in gioco, ma che il dolore rimaneva lì?

Non tutto questo, ma le sue mani, e lui.

 

Era questo che chiamava amore, con André. Che pensava amore. Le sue mani, le sue carezze, i suoi occhi come la guardavano quando la toccava, le sue labbra e il brivido che le dava pensarle addosso. Le sue braccia che sembravano fatte per abbracciare lei. Questo era il suo amore per lui.

 

Era giusto chiamarlo amore? Era giusto dirgli ti amo per i suoi baci?

Sì… forse sì, era giusto… forse era proprio questo l’amore vero. La verità concreta delle dita che s’intrecciavano al buio, dei respiri che si confondevano nel silenzio.

 

Ma c’era anche il suo corpo, quel corpo che era stata così attenta a educare senza concedergli nulla, perché potesse esserle strumento perfetto. E che era stato tanto solo, che aveva sofferto di rimpianto e di desiderio, per troppo tempo. Adesso le si ribellava, e non sentiva ragioni, quando c’era André. L’attrazione tra loro era una forza primaria, al di là di ogni controllo, argomentazione.

Quanto tempo aveva aspettato prima di sapere cosa significasse essere baciata? Prima di concedere alla sua pelle il conforto di un abbraccio? Lo aveva persino rifiutato, il suo corpo, per una vita. Aveva rifiutato di credere ai segnali che le mandava, ostinatamente. L’avevano costretta a farlo, sì: ma lei aveva cooperato, con tutte le forze, fino a rischiare di annullarsi. Anche al sentimento per Fersen aveva reagito negandolo, rinchiudendosi in una fortezza d’impassibilità.

Poi André l’aveva baciata, e lei aveva perso questa battaglia.

Per fortuna.

Era una donna, e voleva un uomo, tutto qui.

E adesso era arrivato André, che le dava ciò che il suo corpo chiedeva.

Non era detto che si potesse chiamare amore: forse era solo la risposta più ovvia, più immediata, a una domanda della sua natura.

 

Poteva essere questo. Soltanto questo.

 

Soltanto questo?

 

Non lo sapeva.

Non gli aveva ancora detto ti amo.

 

Lui non l’aveva forzata, non la stava forzando. Capiva il suo cuore più di lei stessa, forse. Ed erano in un mondo dove la sola idea di un rapporto del genere tra loro sarebbe parsa intollerabile, assurda. Lei nobile, lui borghese, lei ufficiale, prediletta della regina di Francia, lui suo attendente, suo scudiero. Lei padrona lui servo, alla fine: era così che a corte si misuravano quelle distanze. Era più facile per André dirle che l’amava, e lui lo sapeva. Sapeva che per lei invece significava andare contro tutta la sua storia, la sua educazione, la sua vita. Per un salto nel buio.

Per questo l’aveva aspettata, e l’aspettava ancora. Le aveva chiesto molto più che diventare suo amante.

 

*

 

Qualcuno alla porta della sua stanza. Era André, lo riconosceva dal modo di bussare, come se fosse un codice stabilito tra loro. Finalmente avevano qualche giorno di riposo, e il programma per quel pomeriggio era una cavalcata insieme. Da soli, soprattutto.

Non rispose, e andò ad aprire, rapidamente.

Gli sorrise. André entrò, e chiuse la porta alle sue spalle. Poi, come faceva sempre ogni volta che restava con lei, lontano da testimoni, l’abbracciò senza dire nulla. L’attirò a sé, appoggiandosi alla porta con la schiena, e le diede un bacio, un bacio lunghissimo.

Bastò a far passare a entrambi la voglia di andare a cavallo. Ma era giorno, troppa gente girava per la casa ed entrava nelle stanze. Dovevano stare attenti, lo sapevano. Non ci fu bisogno di dirlo.

“Andiamo Oscar… continuiamo dopo…”

“Sì… andiamo…”

 

L’aria sul viso e tra i capelli dava una sensazione di piacere. La fece pensare al respiro di lui sulla pelle, glielo fece desiderare. Non voglio starti lontano, pensò mentre cavalcavano al galoppo, correndo verso qualche luogo che fosse lontano dagli altri e senza divieti.

Lo pensava anche André, lo capì da come la guardava quando arrestò il cavallo. Si fermò anche lei.

Non disse una parola mentre le tendeva la mano, e lei smontava con un gesto agile, annodando le redini al fusto di un albero, poco più in là. Tornando a lui prese quella mano, e si fece sollevare. Avvertì il suo petto contro la schiena e le sue braccia che le stringevano la vita.

 

Cavalcarono così fino in cima alla collina, poi André tirò le redini, e mandò l’animale al passo. Lei chiuse gli occhi avvertendo l’abbraccio del suo corpo, e quelle mani che adesso si erano rilassate, nel mantenere l’andatura senza forzarla, e la sfioravano, come il suo respiro le sfiorava i capelli. Si fermarono, e al di là del poggio scoprirono campi mossi dal vento lieve, e le nuvole, lontano. Era quasi sera.

 

“Oscar…”

Sapeva cosa voleva fare, cosa voleva dirle.

Voltò il viso, a cercare il suo, con un sospiro ansioso. E trovò le sue labbra, che la sfiorarono piano, e poi il suo bacio, e le sue braccia che la stringevano, ora. La baciò chiudendo gli occhi e poi, quando lei si staccò respirando piano, e si girò appoggiando il capo sotto il suo viso, a guardare gli stessi campi, lo stesso cielo, le passò le labbra dolcemente sul collo, dietro la nuca, facendole venire brividi di piacere. E percorse il suo corpo con le mani, accarezzandolo sopra la camicia, cercò il suo seno e lo sfiorò dolcemente, a lungo, facendola appoggiare a sé e sospirando con emozione crescente. Oscar abbandonò il capo all’indietro, allora, sulla spalla di lui, e lo lasciò farle quelle carezze sempre più intense, più piene, e si morse appena il labbro, in un gemito trattenuto e languido, quando avvertì le sue dita insinuarsi a cercare la pelle nuda.

Iniziò a gemere, sempre più ansiosa, quasi impaziente, mentre la carezzava, e i suoi sospiri lo coinvolsero travolgendolo. Scesero da cavallo in fretta, allora, e lo lasciarono andare, guardandosi negli occhi, e appena a terra si ripresero, e si baciarono, e si sdraiarono insieme in mezzo all’erba, in cima alla collina, sotto il tramonto, carezzandosi con mani inquiete, baciandosi con baci affannati.

“André…”

“Oscar… Oscar…”.

Quel desiderio, e i loro corpi abbracciati, i respiri uniti che si cercavano ancora, e le labbra di André sui suoi vestiti, adesso, la sua camicia aperta, di nuovo, e le carezze della sua bocca su lei.

“André… voglio essere tua… tua…”

“Oscar…”

“Facciamo l’amore, André…”

“Oh… amore… amore…”

“Facciamolo, ti prego… ti prego…”

“Oh, sì, Oscar, sì… sì…”

La baciò ancora, in un impulso nuovo, e più travolgente, con la mano le cercò i pantaloni, per poterli aprire, in gesti febbrili fino a riuscirci, aiutato da lei, e le fu sopra pieno di emozione, di desiderio, continuando a baciarla mentre lei gemeva ed era pronta ad offrirsi, a diventare sua subito, in quel momento, in mezzo a quell’erba…

“Oscar…”

Lo guardò, come inebriata, e stordita, ansimando. Lo vide ansimare, stordito da lei. Il vento passò su loro, mentre si fissavano, in un brivido di sera che scende fredda sulla campagna.

“Oscar… ti voglio… ti desidero… Ma non qui… non qui…”

“André…”

“Andiamo a casa, Oscar… adesso… tra  poco è notte… andiamo a casa… nella tua stanza, stanotte… adesso…”

Lei gemette, mentre la baciava ancora, pieno d’ardore.

“La nostra prima volta, amore… Oscar… voglio che sia bellissima… che sia solo per noi… tutta la notte per noi…”

“Sì, André… stanotte… sì… Baciami ancora, André…”

Rimasero, abbracciati e fermi, stesi sull’erba, come incapaci di muoversi per andarsene via. Poi si alzarono, quasi all’improvviso, e andarono a casa insieme, al galoppo.

 

 

 

*

 

Il visitatore era arrivato a cavallo, e quando André riconobbe quel cavallo nelle scuderie chiuse gli occhi un istante e pregò di essersi sbagliato. Ma sapeva di no, e dopo la preghiera gli uscì un’imprecazione, invece, e non si stupì quando entrò in casa e trovò Oscar nel salone, che conversava affabilmente con Fersen.

Li guardò dall’ingresso, seduti a due poltrone vicine, i volti illuminati dalle candele, e avrebbe voluto andarsene e non doverli guardare, e non dover provare quella fitta atroce di dolore. E avrebbe voluto mettersi immediatamente in mezzo e prendere Oscar per mano e portarla in camera sua, dove l’avrebbe presa sul suo letto lasciando Fersen ad aspettarli e facendole dimenticare tutto il resto.

Ma non poteva fare nessuna delle due cose. Gli toccò farsi avanti, e salutare.

“Buona sera, conte”.

“Oh, buona sera André, mi ero quasi dimenticato di voi. Un grave errore, visto che siete inseparabile da madamigella Oscar…”

Lei sorrise per cortesia, e guardò di sottecchi André con un’espressione preoccupata.

Non disse nulla, e rimase in piedi, accanto a lei. Non gli era mai pesata come in quel momento la convenzione sociale che gli vietava di sedersi in poltrona accanto a dei nobili. Con Oscar non era così, ma quando c’erano ospiti doveva stare al suo posto, lo sapeva. Lo fece anche stavolta, per antico esercizio.

Fu lei ad aprirgli uno spiraglio: “Bevi qualcosa con noi, André”.

Si versò del cognac per tenere le mani impegnate e trovare un contegno adatto.

“A cosa dobbiamo la vostra visita, conte?”, chiese Oscar gentilmente.

“Ve l’avevo promesso, no?”, rispose Fersen con un sorriso ambiguo, che rievocava segrete intese. André lo fissò, e si accorse che nel dirlo non aveva guardato Oscar, ma lui.

“Altre volte avete fatto questa promessa – rispose Oscar allora, con un tono che le riuscì involontariamente mondano -, ma non mi pare che l’abbiate mantenuta spesso…”

André buttò giù un sorso di liquore, mentre il conte sorrideva di appagamento e raccoglieva il guanto: “Se avessi saputo di darvi un dispiacere, Oscar, sarei venuto a farvi visita molto prima. Spero non sia tardi per rimediare”.

Oscar non rispose, e guardò di nuovo verso André, che osservava con attenzione il contenuto del suo bicchiere. Le sue dita si erano serrate impercettibilmente sul gambo.

“Siamo sempre lieti di vedervi, Fersen, lo sapete”, mormorò allora, con un sorriso gentile che non arrivò a illuminare l’azzurro dei suoi occhi.

André sollevò il capo, e respirò.

“E io sono lieto di vedere voi – disse Hans rivolgendosi solo a Oscar -. Anche se a corte c’incontriamo quasi ogni giorno, è sempre difficile trovare l’opportunità di una vera conversazione. C’erano alcune cose di cui volevo parlarvi, ricordate?”

André sapeva che a questo punto avrebbe dovuto chiedere permesso e ritirarsi: era più che evidente la richiesta implicita nella frase di Fersen, e in tutto il suo atteggiamento, quella sera. Conosceva bene quel codice. Ma non si mosse.

Calò un silenzio imbarazzante, che i due uomini non fecero nulla per riempire e che pesò tutto sulle spalle di Oscar: donna, inaspettatamente contesa, e garante delle buone maniere della casa. Era irritata con Fersen, ma rivolse uno sguardo implorante ad André. Uno sguardo che chiedeva aiuto, facendo appello a un dovere d’amicizia, e che, insieme, voleva essere rassicurante.

Troppo per uno sguardo solo, in un momento come quello. André raccolse solo la richiesta di andarsene, e si allontanò terreo, senza dire una parola.

 

“Ho l’impressione che il vostro attendente se la sia presa”, commentò Fersen, notando il pallore sul viso di lei.

Oscar gli rivolse uno sguardo pieno di rimprovero, e di dolore. L’unica cosa che avrebbe voluto in quel momento era correre da André e chiedergli scusa.

Fersen vide quel dolore, e ricordò l’espressione malinconica di lei, qualche giorno prima. E, come qualche giorno prima, si pentì.

Portò la mano alla fronte: “Perdonatemi, Oscar, io non so niente di voi e mi permetto di venire qui, in casa vostra, comportandomi come mi comporterei in un salotto mondano. Perdonatemi, voi siete lontanissima dai cortigiani di Versailles, che devono dire malignità brillanti per riempire la propria vita”. Sospirò e bevve un sorso di cognac, con aria rassegnata: “Io invece no, purtroppo”, constatò desolato.

Oscar sospirò: come mai a Fersen i buoni proponimenti venivano sempre dopo?

“Non preoccupatevi, Hans. André e io siamo cresciuti insieme: non è una cosa come questa che può farci litigare”.

Fersen la fissò, con un’espressione consapevole e interrogativa insieme: “Litigare… Sapete, Oscar… ho spesso riflettuto sul vostro rapporto con André…”

Alzò il capo, sorpresa, e lui se ne accorse.

“Sì… quello che voglio dire… non fraintendetemi, vi prego. Vedete, André è il vostro attendente, un vostro servitore, ha un’estrazione sociale completamente diversa… Voi siete una persona molto in vista a corte, e appartenete alla migliore nobiltà… Eppure lo trattate da pari a pari, vi fate dare del tu con grande naturalezza. Siete cresciuti insieme, sì, l’avete detto voi… passate la maggior parte del vostro tempo con lui… E infatti André è molto più di un attendente: si nota chiaramente, vedendovi insieme”.

Oscar cercò di non impallidire.

“Ecco… è come un amico carissimo, un fratello… non certo un servitore, insomma. La familiarità con cui lo trattate induce anche gli altri a considerarlo in modo diverso”.

“André lo merita certamente – disse lei, con aria un po’ malinconica -. E sapete che a me non è mai importato molto di certe distinzioni sociali”.

“E’ un discorso lodevole, ma strano, in bocca al comandante della Guardia Reale – commentò Fersen con un sorriso scettico e triste -. Voi sapete bene almeno quanto me che certe cose contano fin troppo, nel nostro mondo. Ci sono confini che non si possono superare”.

Oscar lo fissò, e pensò a quanta sofferenza repressa c’era negli occhi di Fersen tutte le volte che veniva via dal Trianon. Anche se la regina lo amava.

 

Confini che non si possono superare, certo.

Sarebbe stato così anche tra lei e André?

 

Si sentì improvvisamente partecipe della stessa tristezza.

“Fersen…”

“Ditemi, Oscar”.

“Voi credete che valga la pena di superare quei confini, se si sente di volerlo fare con tutte le forze?”

Lui la fissò, con uno sguardo improvvisamente acceso, e sincero, che proveniva dalla contemplazione di un ricordo. Lo sguardo di chi ha capito bene la domanda.

“Sì”, disse in modo intenso, distogliendo gli occhi da lei, seguendo il gesto della propria mano che posava il calice sul tavolino.

Poi la guardò, invece, e lo ripeté, con la stessa fede.

“Sì, Oscar, vale la pena, sì”.

Lei pensò, in quel momento, che Fersen poteva essere veramente suo amico. L’unico che poteva capire davvero la sua situazione.

 

Cenarono insieme, da soli. Hans accettò l’invito, dopo qualche esitazione, e la pregò più volte di far chiamare anche André.

Ma Oscar sapeva che non sarebbe venuto, e rinunciò con un sorriso triste. Gli avrebbe parlato dopo. Da sola.

 

 

Però l’atmosfera si era fatta diversa, nel corso della cena, di confidenza nuova. Si erano detti tante cose, avevano riso con spontaneità.

“Mi fa bene stare con voi, Oscar – mormorò lui -. Tirate fuori il lato migliore di me”.

“Ho sempre pensato la stessa cosa di voi”, gli rispose, con un’improvvisa naturalezza.

Fersen la guardò colpito. Quasi grato, si sarebbe detto: “Allora sono molto più fortunato di quel che credessi”.

Fu come se in quel momento potessero dirsi qualsiasi cosa.

“Siete una donna straordinaria”, sussurrò lui, con un tono inatteso, alzandosi e prendendole delicatamente la mano.

Oscar trasalì. Non l’aveva mai sfiorata in quel modo, e non aveva mai detto: “Siete una donna”.

Si alzò, tremando, improvvisamente insicura: “Fersen…”

“Oscar… se io avessi capito prima che donna siete, forse allora…”

“Fersen, vi prego…”

Cosa voleva? Cosa voleva fare? Perché il suo cuore aveva iniziato a battere così?

Le si avvicinò ancora, poteva avvertire la sua voce bassissima come se le stesse parlando direttamente sul cuore. Le prese anche l’altra mano, e la portò a sé: “Siete meravigliosa, Oscar. E siete cambiata, sapete? Si è come accesa una luce, dentro di voi…”

 

Vide se stessa come dall’esterno, improvvisamente.

Chi era quell’uomo? Cosa voleva da lei? Perché stava per darle un bacio, adesso?

“No, Fersen, no”, disse come riscossa, lasciando le sue mani. Il tono risoluto che aveva usato lo fece desistere, e allontanarsi di un passo.

“Oscar…”

“No, Fersen”. Respirò, per ritrovare la calma. La confusione di quel momento si era dissolta, ormai, lasciando il posto a uno stupore quasi risentito. E a una consapevolezza nuova, improvvisa: André…

“Vi prego Fersen, non fate più una cosa come questa”.

“Perdonatemi…”

“Non fatelo più”.

Poi ebbe come voglia di gettarglielo in faccia, senza sapere perché: “È vero, Hans, è vero, sapete? Si è accesa una luce, dentro di me. È vero”.

“Oscar…”

“Ma non siete stato voi ad accenderla. Non siete stato voi”.

 

 

Pochi minuti dopo, quando il conte Hans Axel di Fersen uscì dalla sua casa, Oscar si trovò a vagare da sola nei corridoi bui della servitù, piena di paura e dolore, e voglia di spiegare. Si fermò, con l’affanno in cuore e nel respiro, quando trovò la stanza di André. E pianse in silenzio, davanti alla porta, prima di bussare.

 

 

Continua...

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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