Nelle mani

parte XX

 

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Era di nuovo autunno, se ne avvertiva la tristezza nell’aria, nelle giornate che si facevano più corte. Quel giorno non si sentivano grida provenire dalla strada. Era da un po’ che si gridava di meno, a Parigi. Oscar alzò il viso dalle pagine che stava scrivendo e lasciò andare il capo indietro con un sospiro. No, non si gridava più: non c’era più tanto da gridare dopo che il furore aveva avuto le sue vittime, aveva distrutto tutto quello che incontrava sul suo cammino.

Non riusciva a capire come lei stessa potesse essere ancora viva, dopo tutto ciò che era successo.

Però era viva, ed era ancora lì, a Parigi.

Si alzò per guardare fuori dalla finestra: era l’imbrunire, e André sarebbe tornato di lì a poco. Le aveva promesso che avrebbero cenato insieme: erano giorni che non accadeva più.

Stasera gliel’avrebbe detto.

Le sfuggì un sorriso, e scosse il capo: non se l’aspettava di certo, dopo tutto quel tempo. Chissà come avrebbe reagito… sarebbe rimasto senza fiato, certo.

Lei ci aveva messo diversi giorni a rendersene conto davvero, ad accettare l’idea. Ma se l’era sentito subito, stranamente, anche prima di interpellare il dottore. Che aveva confermato, senza lasciare adito a dubbi.

Si strinse nelle spalle, in un tremito. Dopo più di sei anni. E all’età che aveva, poi… Sì, lei era una donna tutta particolare, ma… beh, non era certo un’adolescente…

Cercò d’immaginare la faccia di André alla notizia: questa era certo l’ultima cosa che si aspettava. E anche lei. Ormai si era convinta che non ne potessero avere, che fosse troppo tardi. E c’era stato anche un periodo in cui ne aveva sofferto. Molto. Ma li avevano travolti gli eventi, la Rivoluzione, la loro vita insieme. Non si erano più lasciati da quel giorno, e, fin dai tempi della Monarchia, avevano vissuto insieme apertamente, in quella casa, creando grande scandalo sia negli ambienti da cui lei proveniva sia negli altri. Avevano ignorato ogni cosa. E, appena le nuove leggi lo avevano permesso, si erano sposati.

Avevano scelto di aderire alla causa rivoluzionaria, in quel luglio dell’89. Non era stata una decisione facile, nonostante tutto: lei aveva ancora tanti legami con quel mondo. E Fersen, la regina, che le erano amici, col tempo li aveva persi, con sua grande pena.

Quel pensiero le diede una fitta al cuore. Fersen era partito e tornato più volte, in quegli anni, e sempre con in mente una sola cosa: portare via da lì la donna che amava. Non c’era riuscito, e non poteva darsi pace: era come impazzito dal dolore, e, l’ultima volta che l’aveva visto, Oscar aveva stentato a riconoscere in lui l’uomo che era stato un tempo.

La regina invece… Nonostante si fossero dette addio, nonostante lei con totale onestà le avesse palesato che non poteva più stare dalla sua parte, appoggiare il suo far politica contro la Francia, e l’avesse supplicata in ginocchio, fin dai tempi in cui ancora regnava, di cambiare atteggiamento, Maria Antonietta, irremovibile nelle sue posizioni, non l’aveva però mai biasimata né accusata. Aveva continuato a volerle bene anche quando aveva saputo che si era schierata coi rivoltosi.

 

Tra poco sarebbe stato un anno dalla sua morte. Com’era potuto succedere, come…

Eppure era successo, e nel modo più atroce. L’avevano ghigliottinata. E lei era lì, tra i soldati che scortavano quel carretto: era stata la regina stessa a volerlo. Gliel’aveva chiesto in uno dei suoi ultimi giorni. Oscar era sconvolta dalla piega che avevano preso le cose, dalle uccisioni indiscriminate, dal sangue versato per soddisfare la sete di vendetta, da quel mondo dove non esistevano più non solo l’amore, ma nemmeno la pietà, il rispetto… Non sapeva più dove fossero gli ideali per cui si era battuta: un mondo più giusto, più libero, dove vivere in pace… non era certo quello. E, quando Sua Maestà era stata condannata a morte, aveva esitato a lungo, chiedendosi tra mille dubbi e lacerazioni se fosse possibile, se dovesse, sottrarla alla ghigliottina organizzando un estremo piano per farla fuggire. L’affetto che le portava, lo strazio per le condizioni in cui la vedeva vivere e per l’abiezione dei suoi carcerieri le provocavano un orrore indicibile. Uno degli ultimi giorni, che era andata con la morte nel cuore a farle visita nel carcere della Conciergerie, aveva scacciato, fuori di sé, uno dei guardiani che aveva portato la sua amante a “vedere l’austriaca”, come un animale dietro le sbarre. Ed era rimasta in silenzio, dopo averlo sbattuto fuori facendolo cadere per le scale, con il viso terreo, le labbra frementi di rabbia e indignazione. Il suo sguardo addolorato e sconvolto aveva incontrato quello di Sua Maestà, e aveva pensato che doveva portarla via di lì. Maria Antonietta le aveva letto nel pensiero, incredibilmente, e aveva detto no con un solo gesto del capo: “No, Oscar, non potete fare niente, non voglio. Sono stanca, non ho più i miei figli, non ho più nulla”. Aveva sospirato e aveva guardato la finestra, verso il cielo. Senza piangere: non piangeva più, negli ultimi tempi. “Basta, accada quel che deve accadere, ormai”. Le aveva persino sorriso. Poi era diventata serissima e le aveva chiesto, però, di rimanere accanto a lei fino alla fine, come se averla con sé potesse darle coraggio nel momento estremo. Era stata Oscar a cedere alla commozione. Aveva promesso.

Il dolore che aveva provato quel giorno non lo avrebbe mai scordato. Era stato quello il momento in cui aveva deciso che non voleva più aver niente a che fare con quell’orrore. Aveva smesso di frequentare i circoli di patrioti, le riunioni dell’Assemblea dove, pure, si erano prese delle decisioni giuste, in passato. E si era limitata a fare il suo dovere in modo sempre meno attivo, più defilato.

La cosa aveva attirato non pochi sospetti su di lei.

 

Con André e gli articoli che scriveva, poi…

Dopo l’89 lui aveva lasciato la Guardia cittadina, e, insieme a un gruppo di intellettuali e studenti che aveva iniziato a frequentare tempo prima, si era dedicato alla redazione di un giornale che si ispirava ai principi illuministici secondo una linea moderata. Sforzandosi di capire, di indagare le cause, di distinguere senza cadere in facili generalizzazioni. Dicevano ciò che pensavano con coraggio, ed erano apprezzati per questo. Lo erano stati a lungo. Ma quando la situazione aveva iniziato a precipitare, anche a causa delle difficoltà del Paese in politica estera, allora quella posizione era diventata molto scomoda e pericolosa. Solo che André non si era tirato indietro, aveva continuato le sue battaglie dalle pagine di quel giornale correndo dei gravi rischi. C’era stato un periodo in cui Oscar aveva temuto seriamente che lo venissero a prendere nel cuore della notte, come era successo a molti, e mandassero alla ghigliottina anche lui. Solo quando Robespierre era caduto, un paio di mesi prima, lei aveva tirato un sospiro di sollievo.

Loro due erano stati fin dall’inizio una coppia fuori del comune, e non avevano fatto nulla per conformarsi al costume corrente. Oscar aveva continuato a comandare soldati, indossando l’uniforme e rimanendo nella Guardia per tutti quegli anni. Era una cosa che continuava a fare scalpore, Rivoluzione o no, ma le teorie sull’uguaglianza che il nuovo corso propagandava giustificavano la legittimità di quella scelta anche per una donna, e, nel fervore delle nuove rivendicazioni, nessuno si era mai sentito di contestare. Lei poi faceva il colonnello da prima, sotto l’ancien régime: non potevano certo rimandarla a casa proprio quelli che si erano presentati come innovatori, e che lei per giunta aveva sostenuto, con efficacia e coraggio, nella lotta.

Però, certo, non era stato facile. In un certo senso era stato come ricominciare da capo: dover dimostrare per l’ennesima volta a una frotta di maschi arroganti, diversi per idee politiche ma identici per preconcetti a quelli di prima, che una donna non valeva meno di loro. E che, anzi, a molti poteva dare lezioni. C’era riuscita, comunque, e in più di un’occasione il suo valore e la sua esperienza si erano dimostrati risolutivi.

Acqua passata. Ora nessuno si sognava di mettere in discussione il suo ruolo.

Lei, piuttosto, da un po’ di tempo se lo sentiva stretto.

Si accarezzò il ventre con una mano, e scosse il capo. Era un po’ inquieta, benché felice per quel bambino. Incredibile che fosse successo soltanto adesso, dopo che per tanto tempo si erano amati così, senza più prendere alcuna precauzione perché un figlio li avrebbe riempiti di gioia, anche se quelli non erano certo tempi tranquilli per metterne al mondo. Non era arrivato, però: il dottore aveva detto che forse prima il suo organismo era affaticato, sottoposto a troppa tensione.

Ora invece si sentiva serena, stava bene. Era così da un po’ di tempo, e si disse che in fondo non c’era ragione di preoccuparsi: era in grado di farcela. Chissà se André avrebbe saputo vederla come madre. Sperò di sì: come donna da amare la vedeva eccome, e dopo anni che stavano insieme, da quando si erano ritrovati, non c’era stato giorno che non avesse letto nei suoi occhi lo sguardo che gli vedeva da ragazzo.

Facevano l’amore con la stessa passione, ogni volta, e anche i momenti di tenerezza, d’intimità domestica, erano pieni di tepore. Erano nati per stare insieme, la vita lo aveva dimostrato. Lui non chiedeva altro che starle accanto, e anche per Oscar era lo stesso. Passavano le serate a parlare, a commentare gli ultimi eventi. A volte stavano semplicemente abbracciati davanti al fuoco senza dire nulla.

Avevano avuto anche momenti d’angoscia, con tutte le cose che erano accadute in Francia: ma dopo che si erano ritrovati non c’era stato più niente in grado di dividerli. Non avevano mai più dubitato l’uno dell’altra, per nessuna ragione, tanto che Oscar si era chiesta, a volte, se nel loro amore fosse più grande la passione o la fiducia reciproca. Entrambe, si era sempre risposta, e ne era stata felice.

 

Erano rimasti a Parigi. Dopo ciò che era accaduto, alle prime avvisaglie del cambiamento, entrambi avevano capito che era quello il loro posto, che non era il momento di andarsene. La Bretagna era rimasta un bel sogno tenuto in vita dalle loro fantasie ma accantonato con l’irrompere della storia. Avevano sentito come il dovere morale di vivere in prima persona quegli eventi che li riguardavano così da vicino, che chiamavano in causa le ragioni per cui avevano sofferto tanto. Avevano lottato contro quei principi ingiusti in nome dei quali erano stati divisi. Era Parigi, era certamente Parigi il loro posto.

Fino a quel momento, almeno.

Sospirò, e pensò all’espressione tirata che aveva visto passare sul viso di André la sera prima. Era stanco anche lui, lo sentiva… ormai lo conosceva troppo bene. La situazione era confusa, c’era qualcosa nell’aria ma non avrebbero saputo dire che cosa… e desideravano un po’ di pace, bisognava ammetterlo. Tutti e due. Pochi giorni prima gli aveva sentito dire che gli sarebbe piaciuto andarsene via con lei da qualche parte, lontano da tutto.

Sì… lo aveva detto in modo un po’ svagato, senza prendersi troppo sul serio, ma lei aveva colto l’intima esigenza da cui nasceva quella frase, forse perché era un’esigenza anche sua. 

E allora la Bretagna… chissà… poteva anche diventare davvero qualcosa più di un sogno.

 

Si passò le mani tra i capelli e, mentre guardava ancora attraverso il vetro, li raccolse sulla sommità del capo con un fermaglio. Sorrise e le tremò appena il cuore quando vide André sulla strada, approssimarsi a casa. Lui alzò gli occhi verso la finestra, come faceva da sempre, istintivamente, per cercarla, e i loro sguardi s’incontrarono silenziosi.

 

 

 

*

 

 

“Amore, aspetta… voglio sentire ancora il tuo profumo…”

La teneva tra le braccia e la baciava, respirando con gli occhi chiusi, stretto a lei contro la ringhiera della terrazza illuminata solo dalle stelle. Avevano cenato lì, e anche bevuto un po’, quella sera: Oscar aveva aperto una bottiglia che teneva in serbo da tanto, e aveva indossato un vestito femminile, leggero. Lo faceva, talvolta: e anche quella sera, come sempre in quei casi, era finita prima del dolce con le mani di André che la carezzavano, insinuandosi dappertutto sotto la veste. Le sfiorava i seni ansimando lievemente e sembrava che volesse prenderla così, senza nemmeno rientrare in casa.

“André… aspetta…”

“No… non muoverti… lasciami fare…”

“André… oh, André… sì…”

Quando lui faceva così le era impossibile resistere: le aveva sollevato appena il vestito e le carezzava delicatamente l’interno delle gambe, facendola fremere. Le sue dita s’insinuarono sotto gli indumenti, sfiorandola a lungo, mentre la baciava con sempre più passione e la sentiva gemere contro di sé. Poi si accostò ancora di più, quasi all’improvviso, come se non potesse più aspettare, e si spinse dolcemente col suo corpo contro di lei, in lei. La prese con un sussulto e rimasero un istante fermi, immobili, accesi di desiderio e di piacere. Cominciò a muoversi piano, a baciarla mentre con gesti delicati e ritmici assecondava i suoi sospiri in quel buio. Erano giorni che non lo facevano, e così era bellissimo.

Oscar si abbandonò a quelle sensazioni, si strinse a lui affidandosi totalmente, divenne tutt’uno coi suoi sospiri e coi fremiti del suo corpo. Presto avvertì onde di calore lambirla, e avvolgerla, mentre lo cingeva in un abbraccio tenero e ansioso e lasciava che la portasse a sé amandola con lentezza, senza fermarsi. E sentì che anche lui era al culmine, mentre perdeva la testa e soffocava i gemiti nel suo respiro sempre più affannoso, spingendolo a proseguire ancora mentre donava a lui tutto il piacere che la invadeva, ed accoglieva il suo.

 

Rimasero immobili, senza separarsi ancora. Con le labbra gli sfiorava l’orecchio, sentiva il suo respiro, più lento, sul collo, il suo volto chinato verso di lei.

“André…”

“Amore…”

“Devo dirti una cosa, André…”

“… Cosa…”

“Una cosa importante… importante…”

Un bacio, tenero. Le sue labbra morbide.

“Dimmela…”

“… Io…”

“Amore… dimmela…”

“… Io sono… oh, amore… se fai così…”

Smise quel bacio, con le labbra sfiorava la sua bocca.

“Dimmela, dai…”

“Aspetto un figlio, André…”

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Quello che ci accadde dopo fu la conseguenza della scelta fatta quella sera. Guardandomi indietro, e ripercorrendo con gli occhi queste pagine fitte di scrittura, mi accorgo che tutti gli eventi succedutisi nella nostra storia paiono intrecciati gli uni agli altri come se a determinarli fosse stato un disegno stabilito prima.

Ho una macchia d’inchiostro sulle dita, che ha una forma quasi regolare, e non saprei dire se quest’impressione d’equilibrio mentre la osservo – e mentre rileggo ciò che ho scritto - derivi dai fatti in sé o dal fatto che li abbia narrati, perché tutte le volte che si pretende di raccontare il passato lo si interpreta, in realtà, e non si può fare a meno di selezionare le vicende a seconda della spiegazione che se ne è data, di ordinarle secondo una prospettiva in cui acquistano un senso che non necessariamente, poi, è quello vero. Io so solo che quando le vivemmo sembravano spesso non averne alcuno, di senso, e che molti anni dovettero passare prima che riuscissimo a voltarci indietro col distacco sereno di chi non ha paura di ciò che è stato, perché lo ha compreso nel suo cuore e ne ha ormai un possesso solido e sicuro.

Quello che ci accadde dopo è la nostra storia di oggi, ed è una storia che non posso raccontare perché la scrivo vivendo giorno per giorno. La figlia che ho avuto, l’uomo che amo, la nostra casa e le ore che trascorriamo insieme, che cambiano una dopo l’altra, sempre diverse, così come cambiamo noi. La nostra pace, che abbiamo costruito in questo luogo nuovo, perché era ciò che desideravamo sopra ogni cosa. Che abbiamo inventato e difeso da tutto quello che poteva turbarla, nonostante molti e gravi fossero i pericoli che la minacciavano.

Ma anche un diario come questo non basta per spiegare. Troppe cose hanno fatto queste mani perché sia possibile comprenderle in uno sguardo d’insieme e riuscire davvero a dare un significato a tutto. Non è che di significati io non ne abbia cercati: li ho cercati a lungo, li abbiamo cercati in due. Ma non è mai caduta davanti ai nostri occhi la formula che desse conto di ogni particolare, che mettesse a posto ogni dolore sofferto, ogni affetto perduto, ogni capitolo chiuso, ogni ferita ricevuta e inferta che resta sulla pelle come una cicatrice da portare, fino alla fine. E non credo che alla fine, poi, tutto possa apparire più chiaro, come per rivelazione improvvisa, e che chiudendo gli occhi per sempre si riceva in dono un perché.

Credo che il perché sia quello che ci sforziamo di trovare giorno per giorno, e che non conti in fondo la risposta che abbiamo dato, ma il cammino che abbiamo fatto per cercarla. Forse l’unico fine credibile di tutta questa strada che percorriamo, facendo male e bene a ogni passo, non è la meta del viaggio ma la strada e basta.

Di risposte me ne sono date, certo, e alcune mi soddisfano più di altre. Ci sono valori e idee in cui continuo a credere nonostante tutto, anche se ho smesso di credere che possano farmi comprendere ogni cosa. Il mondo che mi ha generato è crollato mentre io ero viva e in condizioni di vederlo perire, il mondo che mi ha sorretto è quello che avevo costruito in me, per spiegarmi l’altro. Ciò che non mi ha abbandonato – o mi ha lasciato solo per poco tempo ma poi è tornato a confortarmi sempre – è l’amore che abita la mia vita anche adesso. E la speranza, la fede, che l’amore fosse una ragione bastante.

Di più non avrei il coraggio di dire.

 

Ma forse basta, basta veramente, se è per amore che ho sentito il bisogno di sedermi a questo scrittoio e raccontare ciò che è accaduto a me, ricordare il sorriso e il pianto che si è posato sul mio viso e sul suo, sentire ancora, a ogni parola versata sul foglio con lo stilo appuntito, la dolcezza struggente di ciò che ho provato e che provo. Se in tanto tempo che ho impiegato a vergare queste pagine dense e piene, mentre all’orecchio mi arrivava la voce di coloro che con la loro esistenza danno un senso alla mia, mai un istante il sentimento di gratitudine, di gioia per ciò che ho avuto ha abbandonato il mio cuore ormai esperto, eppure sempre così fragile, di fronte alla vita.

Io l’amore l’ho conosciuto dalle mani di André, che era cresciuto nella mia casa ed era stato destinato a farmi da servo, e che per tanti anni mi era stato accanto nel modo che altri avevano deciso per noi, prima che con grande sofferenza e fatica riuscissimo a capire le parole che il nostro cuore ci diceva, e a trovare il coraggio di ascoltarle. Per seguire quella voce abbiamo dovuto affrontare prove terribili imposte con crudeltà da persone che non avevano ragione di odiarci eppure non hanno esitato ad adoperarsi per la nostra rovina, da persone che forse a modo loro ci amavano ma, nella convinzione di fare bene dettata dall’assurda pretesa di sapere ciò che era giusto per noi, ci hanno arrecato dolori ancora maggiori e più temibili, perché nascosti dietro l’immagine dell’affetto.

Ma le prove più grandi, che ci sono costate di più e di fronte alle quali abbiamo davvero rischiato di cadere, sono state quelle che noi stessi ci siamo inflitti con i nostri errori, quando abbiamo ceduto alla paura e non abbiamo avuto fiducia nella nostra unione, quando ci siamo abbandonati alla disperazione e al risentimento e abbiamo accettato di credere che ciò che provavamo non fosse vero.

Invece era solo questo ciò che contava, questo amore che era scritto per noi e doveva essere l’anima di tutta la nostra esistenza, a dispetto di tutto ciò che volevano imporci quelli che erano convinti fosse un assurdo.

Ho impiegato tanto tempo per capire che avevo bisogno di lui, e prima di capirlo con la mente e col cuore sono stati i suoi baci a dirmelo, le sue carezze, il contatto dei nostri corpi che si sfioravano senza che ancora sapessimo che nome dare a quella forza che ci attraeva l’uno verso l’altra e ci teneva insieme. Senza che io lo sapessi, perché lui lo me lo disse dal primo giorno che mi amava. Ma in fondo senza che lo sapesse anche André, perché, anche dopo aver avuto il mio amore, per molto tempo non riuscì ad essere certo che fossi sua.

È stato tra le sue braccia che ho iniziato davvero a comprendere chi ero, è stato per le carezze  dolcissime della sua pelle sulla mia che ho trovato la via per arrivare a me stessa. È stato nelle sue mani che ho affidato la mia vita prima di sapere che la stavo affidando al suo cuore.

L’ho capito così, dividendo le sue emozioni e i suoi tremiti, perché non ho mai saputo resistere quando mi ha stretto a sé, fin dalla prima volta vicino a un fiume.

Più tardi, solo più tardi ho compreso che questo richiamo istintivo era il linguaggio usato da una forza molto più profonda, un legame radicato nell’anima fin dall’inizio, che si nutriva di fiducia, dedizione, rispetto. Finché non ho imparato questa lezione, finché non l’ha imparata anche lui, la nostra unione intensa e appassionata è stata vulnerabile come le cose bellissime e fragili che capita di possedere nella vita, che illuminano col loro bagliore una stagione ma non bastano a rischiararti mentre percorri la via.

Ma il nostro è stato vero amore ed è sopravvissuto anche a questo. Ed è per questo, forse, che siamo sopravvissuti anche noi.

Nella nostra casa, volgendo lo sguardo ai campi verdi della Bretagna attraverso la finestra, nutro come un dono prezioso nel cuore la gioia serena di guardare al mio cammino senza provare l’amarezza del rimpianto e la trafittura acuta del rimorso, senza che adesso la memoria possa ritornare sui passi fatti struggendosi nel desiderio inutile di farli diversi. Ascolto provenire da fuori la voce del mio compagno, che è più calda e ricca di toni, ora che il tempo l’ha arricchita di sé modulandola con la sua colma armonia; e di nostra figlia che presto sarà una donna, anche lei, e dovrà compiere la sua strada, divenire le sue scelte, senza che noi possiamo farle da scudo ed evitarle il dolore che come a tutti la vita le assegnerà perché possa apprenderla. Io spero che in questo viaggio abbia compagno l’amore.

È solo questo che conta.

 

Mi chiamo Oscar François de Jarjayes, sono una donna. Sono nata il 25 dicembre 1755, mio padre mi ha dato un nome da uomo e mi ha messo in mano una spada, e a lungo ho creduto che vivere fosse per me negare la mia natura. Ho avuto la fortuna di un amore meraviglioso e difficile, e tenendo questo amore per mano ho imparato a scoprire quel che volevo essere. Ho lasciato ogni cosa avevo intorno, da allora. Ogni cosa eccetto lui, eccetto me stessa.

 

 

Fine

 

Postfazione dell’autrice

 

Ho sempre preferito le postfazioni alle prefazioni. Anzi, se proprio devo dirla tutta, soffro da tempi antichi di una grave allergia alla parafrasi, alla fitta polvere di discorsi critici che si accumula sulle spalle di testi scritti per tutt’altri motivi che per esser spiegati, e che periodicamente viene dispersa al vento da questi ultimi con una sacrosanta scrollata di spalle. Lo so, la definizione è di Calvino e non mia, e lui parlava di classici: lungi da me la pretesa di paragonare ad essi il mio lavoro. È solo per ribadire, se mai servisse, che secondo me nella lettura di un libro la cosa più importante, l’unica che conta davvero, sono le emozioni e i pensieri sorti spontaneamente nel lettore, e che tutto il resto è corredo, contorno, accessorio optional. Le prefazioni, poi, mi sono un po’ antipatiche, con quella loro aria saccente che pretende di insegnarti la strada per capire: e magari ci riesce, sì, ma rovinandoti per sempre la gioia spontanea dell’approccio ingenuo, che è l’unica che può far nascere delle sensazioni autentiche da ciò che trovi nel racconto quando lo apri.

Se mi accingo a redigere una nota finale, nonostante questo, è dunque per una ragione rigorosamente medico-terapeutica: mi sono affezionata alla mia creatura, e parlare ancora un po’ di lei prima di congedarla mi aiuta ad assorbire il trauma del distacco. Quelle che seguono sono considerazioni sparse, senza pretesa di completezza, appartenenti alla categoria “Per parlare”. Nessuno di quelli che avranno voglia e tempo di sottoporsi a quest’ultima fatica si senta in alcun modo vincolato ad esse nella sua interpretazione del testo.

 

Raccontare una storia

 

Non scrivo mai, quando scrivo, per dimostrare tesi e per proporre teorie: mi metto alla tastiera spinta da un intimo impulso che vuol essere espresso e non traccio piani o strutture preliminari. Il disegno di massima del racconto si delinea semmai poco a poco, secondo caratteri che restano vaghi fino alla vera stesura. Finora è stato sempre così, e dubito che cambierà molto, in futuro.

I miei racconti partono sempre da un’immagine che mi viene in mente, e che mi frulla in testa sempre più nitida per giorni, finché non mi arrendo e non mi decido a liberarmene dandole una forma scritta. Anche per “Nelle mani” è stato così: pensavo ad André che guardava assorto dalla finestra allacciandosi il polsino della camicia, e mi chiedevo se la cosa avesse un qualche significato. Quello che è successo dopo lo avete visto.

Con “Nelle mani”, poi, più che con altre cose che ho pubblicato, per un bel po’ di tempo non ho avuto idea di dove stessi andando a parare. Volevo solo raccontare una storia: una bella storia, possibilmente, che fosse piacevole da leggere e divertente da scrivere.

Poi succede, come al solito in questi casi, che lo Spirito del Romanzo s’impadronisce della tua penna, e può nascondere dietro alle immagini e alle parole anche metafore e simbologie: le trovi quando rileggi, e ti accorgi che sono lì perché in effetti era quello che volevi dire, presentatosi sottoforma di personaggi e scene per farsi esprimere.

 

Una storia da raccontare, comunque: sostanzialmente questo. L’unica cosa che in fondo conta in un caso del genere, ben più delle analisi, delle domande sul significato riposto, delle parole che si sovrappongono e sostituiscono a quelle con cui la trama è stata svolta per noi. Proprio come dice Daniel Pennac, secondo cui l’unica cosa da capire dei libri è che non sono scritti per essere capiti e commentati, ma per essere letti, lui che lesse con passione “Guerra e pace” a tredici anni perché il fratello glielo riassunse come  la storia di una ragazza che ama un tizio e ne sposa un altro (beninteso, nessuna lontanissima ambizione da parte mia di stabilire confronti con Tolstoj, Dio me ne scampi e liberi…)

O come dice una lettrice che preferisce restare anonima: “Mi piacciono quelli che scrivono divertendosi, a cui piace raccontare la storia per il gusto di raccontarla, sia essa lieta o triste. Perché in fondo siamo fatti di storie, oltre che di carne e pensiero e sentimento e altre cose. Non so, non mi fido tanto di chi scrive romanzi per qualche fine recondito oltre a raccontare una storia che merita di essere narrata”. È una cosa che ho sempre pensato anch’io, ma non credo che avrei saputo dirla meglio.

 

Questa tra l’altro non era nata nemmeno come storia in senso stretto. Amo Oscar e André da quando li ho conosciuti, e fin da quando ero adolescente ho preso la penna in mano per narrare di loro, forse  per porre un rimedio un po’ ingenuo a quel finale tragico che non avevo mai digerito. E sempre, tutte le volte che riempivo una pagina, cercavo di cambiare le carte in tavola facendo sì che si dichiarassero il loro amore ben prima di come avveniva nella vicenda ufficiale, in modo che potessero gioirne e che tutto finisse bene. Immaginavo decine di primi baci e di primi approcci, ogni volta diversi: ma la scena che scrivevo era sempre la stessa, come un’ossessione.

“Nelle mani” in un certo senso paga un tributo a questa mania giovanile: un susseguirsi di situazioni d’amore immaginate in modo sempre diverso riprendendo l’ispirazione di allora con lo sguardo di adesso. Perché in fondo, molto banalmente, ho sempre pensato che a Oscar e André fosse mancato solo il coraggio di fare il primo passo, e che se avessero saputo trovarlo prima sarebbero stati felici: erano nati per stare insieme, e stando insieme lo avrebbero capito.

Certo, però, un intervento del genere, ex machina, sulla loro vita, può comportare l’immediato costo di una perdita di realismo, se è vero che invece l’eterna e veritiera costante dell’esistenza umana è il cercare inutilmente ciò che non possiede un significato vero e fuggire con ostinazione ciò che renderebbe felici. Come nella storia ufficiale di Oscar, appunto, che per questo è un capolavoro. O come nel Colombre di Buzzati, ad esempio. Ma è un’altra storia ancora.

 

Ad ogni modo, ritornando a noi e al ricorrere delle scene d’amore, la componente essenziale di “Nelle mani” è una fisicità molto forte, sottolineata anche dal titolo, perché la forza irresistibile che attrae i protagonisti l’uno verso l’altra è la manifestazione più chiara del loro legame. Che non è fatto, certo, soltanto di desiderio, ma del quale il desiderio è la prova più vera, di fronte alla quale crollano tutti i dubbi. Avevo in mente più o meno questo quando, seguendo l’estro del momento, li avvicinavo sempre più in un turbine di baci e carezze.

Era questa l’idea di base, all’inizio, per lo meno a ripensarci con il senno di poi. Un’idea che era già presente anche in “Controluce”, la cui trama per alcuni aspetti (non solo questo) anticipa quella di “Nelle mani”.

In seguito la vicenda si è evoluta, approfondita, e a questo nucleo primario se ne sono aggiunti altri. Innanzitutto, inevitabile, quello che precisa e integra il primo assunto alla stregua di un corollario: che, cioè, un legame che sia vero e profondo, se si manifesta attraverso la passione, si consolida grazie alla fiducia, che è un elemento necessario perché l’amore possa davvero metter radici nel cuore e diventare progetto di vita.

Ma questa è già una teoria – nemmeno troppo originale, tra l’altro -, e ho detto sopra che non è stata la teoria a ispirarmi in fase di scrittura. Infatti avverto come il disagio di star facendo della dietrologia, in questo momento, e ne pago lo scotto col senso di ovvietà che mi assale se rileggo queste ultime righe, perché sempre la scrittura diventa banale, quando la spieghi ex post.

Pazienza, era soltanto per dire che il piano complessivo si è disegnato da solo mentre la storia andava avanti, e che all’inizio non c’era affatto il progetto di una cosa come quella che poi è nata.

 

Romanzo?

 

Invece “Nelle mani”, pagina dopo pagina, è diventato più di un insieme d’immagini, di un racconto. Penso si possa parlare di “romanzo”, ormai, con virgolette per mantenere la distanza giusta e per non dare a me stessa l’impressione di prendermi troppo sul serio.

Non tanto per l’estensione, che da sola non determina il genere, quanto per le modalità narrative che a un certo punto ho attivato, all’incirca dalla Parte VII.

Più o meno all’altezza di quel capitolo mi è venuto l’uzzolo, appunto, di mettermi a giocare coi meccanismi antichissimi del Romanzo, e di vedere che succedeva. Prendere i nostri due amanti e farne dei Promessi sposi, metterci un Cattivo, anzi due, con una perfida Dark Lady, dividerli con un Intrigo e sottoporli a una serie di dure Prove che li avrebbero portati, dopo numerose Avventure, a ricongiungersi alfine mantendo intatta la pristina Purezza e maturando contestualmente un processo di Formazione interiore che li avrebbe fatti crescere e resi migliori e più saggi. Come nel romanzo di Sette-Ottocento, ma non solo: come già un tempo nel romanzo greco d’età ellenistica, con tutta la sua ascendenza e discendenza narrativa, dall’Odissea in poi. Contaminando diverse forme.

Ma ritorniamo a terra, che è meglio, a modelli meno nobili: come romanzo “Nelle mani” è un feuilleton, direi. Un romanzo d’appendice, ben più vicino a Carolina Invernizio che ai “Promessi sposi” (altro paragone ai limiti della fantascienza). Ecco, se proprio dobbiamo trovare un modello illustre, da un certo punto in poi penserei più a qualcosa tipo “I tre moschettieri”. Ma a distanza siderale.

Con una scommessa, però, nonostante tutto questo: mantenere una certa verosimiglianza, arginando la ribellione “pirandelliana” dei personaggi. Farli agire secondo schemi convenzionali conservando la credibilità dei loro profili e delle loro azioni. Credibilità relativa, naturalmente, non assoluta. Nel senso che volevo cercare di renderli credibili quanto può esser credibile un personaggio alle prese con una situazione di per sé piuttosto lontana dalla realtà: "letterariamente" credibili come personaggi inseriti in quel contesto. Come letterariamente credibili sono il guascone D’Artagnan e la perfida Milady, anche se ben difficilmente esisteranno nel mondo vero. Una specie di sfida, se vogliamo: ho voluto vedere se mi riusciva: se alla fine, oltre a una storia godibile, ne veniva fuori magari anche una cosa “plausibile”, nonostante ci dessi giù di brutto con gli stereotipi narrativi e mi spingessi ad espedienti romanzeschi ai limiti della sfacciataggine, che credo abbiano raggiunto il culmine – più che con l’inevitabile lettera scoperta dal generale - con l’”effetto-Beautiful” della scena di André che vede da una finestra Oscar baciare il conte di Fersen.

Mi pare che alla fine la ciambella sia riuscita col buco. In parte grazie al fatto, forse, che ho versato fiumi e fiumi d’inchiostro per motivare le reazioni psicologiche dei protagonisti. Ma soprattutto, sono convinta, proprio grazie allo Spirito del Romanzo di cui sopra e ai suoi collaudatissimi ingranaggi che hanno iniziato a funzionare da soli una volta messi in moto, dimostrando con orgoglio di essere forse vetusti ma nient’affatto arrugginiti.

Azionato il meccanismo, il racconto si è dilatato da solo, fino ad assumere le dimensioni nelle quali ognuno può leggerlo oggi. Strano e piuttosto buffo: io che ho sempre pensato di esser più tagliata per il racconto breve, mi sono immersa fino al collo in una cosa elefantiaca (almeno per le mie abitudini) e più di una volta – chi mi ha scritto lo sa – ho avuto l’atroce dubbio di avere creato un mostro.

Anche per questo, forse, ci ho messo tanto tempo a finire: avevo bisogno di riprendere fiato dopo ogni puntata, di guardare all’insieme da una distanza di sicurezza per riuscire a gestirlo meglio. E, se “Un’altra stagione” (che, sì, è meno di un terzo la lunghezza di questo lavoro) l’avevo scritto di getto, in un mese, a completare “Nelle mani” di mesi ne ho impiegati nove. “Un’altra stagione”, comunque, è un lavoro di tutt’altro tipo.

Ma il turbinio di avventure che da un certo punto in poi si verificano, non ha mancato di creare perplessità, proprio per la difficoltà che si poteva incontrare a identificarsi in una storia che l’intreccio portava su binari meno caratterizzati dal realismo. È accaduto con Laura, ad esempio – che cito solo a questo punto ma che è stata sempre presente nei miei pensieri, riferimento fondamentale in tutto quello che ho scritto sia nella condivisione di idee che nel confronto su posizioni diverse, preziosissima “proof reader” cui ho sottoposto ogni pagina del mio lavoro –, la quale, avendo seguito e condiviso la prima parte, ha invece faticato molto di più a riconoscersi nella seconda, all’incirca dal momento in cui è l’intrigo innescato a determinare le reazioni dei protagonisti e lo svolgimento della trama. Ecco alcuni stralci delle sue opinioni a riguardo:

“Ho avuto un'enorme difficoltà a trovare credibili i personaggi inseriti in un tale contesto di avventure. Perché, il problema, a mio avviso, è che proprio di avventure si tratta, non di situazioni credibili, e, dunque, ai miei occhi di lettrice, proprio la credibilità dei personaggi ne risulta inficiata. Parlo di credibilità in generale, di figure fatte agire in un contesto. Alcune azioni appaiono quasi meccaniche, come se dovessero per forza accadere nel contesto del racconto. E, a mio avviso, questo succede sia con André, sia con Alain, inopinatamente ritrovatosi a fare da investigatore, sia con Diane, immancabilmente innamorata dell'uomo in casa, sia, poi, con Oscar. (…)

Un problema, questo mio, che non è sorto dall'inizio, ma da quando la storia, messisi loro due insieme, è stata "complicata". Forse, complicata, ripeto, in un modo non totalmente a me congeniale, a me, lettrice, che chiedo verosimiglianza, che chiedo di poter credere a quella fictio che è la prosa quando non è cronaca”.

È vero che, una volta scelto il genere, certe situazioni diventano in qualche modo “inevitabili”, “meccaniche”, appunto, perché fondanti e costitutive di esso. L’intrigo, appunto, il colpo di scena, l’equivoco, e anche il lieto fine che è come scritto nel Dna del racconto. È cosa che può piacere ma anche stonare, e lo comprendo benissimo. Ma inevitabile non vuol dire per me forzato né obbligatorio. In effetti mentre innescavo questo processo sapevo esattamente dove avrebbe portato, e miravo all’obiettivo di raccontare una storia che fosse piacevole da leggere e divertente da scrivere, possibilmente bella, il cui pregio letterario si cogliesse dentro le strutture e in cui non per questo – per lo meno dal mio punto di vista - le reazioni dei personaggi fossero immotivate.

Ma su tematiche simili è giusto, e anzi assolutamente auspicabile – per quello che mi riguarda -, che il panorama delle opinioni sia quanto più variegato possibile, perché lo scambio di idee, soprattutto se diverse, costituisce senza ombra di dubbio motivo di arricchimento e di stimolo per tutti. Io ne sono stata certamente arricchita.

 

Dai lettori

 

Genere romanzesco, dicevo. Avevo diversi modelli in testa, e più o meno da tutti ho attinto. Cosa sia venuto fuori alla fine non sono in grado di dirlo con certezza: in realtà ho sempre sognato di scrivere un polpettone romantico di quarta categoria, e non dispero di esserci riuscita.

Mi conforta molto che a valutare cosa è successo sia stato chi mi ha letto. Per questo vorrei, qui, inserire i pareri che mi sono arrivati da alcune lettrici e che esse hanno acconsentito a pubblicare: hanno avuto per me il pregio di farmi guardare alla mia storia con occhi che non fossero i miei, che è un dono grandissimo per chi scrive. E mi sembra molto più utile riportare i loro giudizi invece delle mie ricostruzioni a posteriori, perché io quel che dovevo dire l’ho detto nel racconto, e forse è più interessante conoscere quello che hanno da dire gli altri. Spero non mi si tacci di presunzione: non riporto questi stralci di lettere per auto-elogiarmi. Nelle cose che dicono mi sono a volte riconosciuta e a volte no, ma ne ho sempre ricavato un motivo di crescita.

 

Per prime riporto le osservazioni di Marina, che – come già era accaduto per altri racconti che ho scritto -, ha voluto inviarmi le sue letture del mio “romanzo” in una corrispondenza bellissima e davvero interessante, grazie alla quale ho avuto la possibilità di capire in che modo fossero state colte e recepite le strutture che avevo messo in piedi. Quelli che riporto sono passaggi delle sue lettere relativi alle dinamiche narrative, che prendono in considerazione alcuni aspetti in maniera molto penetrante. Eccoli, in ordine non sistematico:

“L’intrigo.

“Per alcune settimane, i Nostri riescono a viverlo un po’, l’amore. Ma in ogni romanzo che si rispetti, deve intervenire l’elemento destabilizzante, quello che rompe l’equilibrio: nel nostro caso, il personaggio chiave è Madame de Surgis, già amante di Jarjayes. I due innamorati devono essere divisi. L’amore non convenzionale deve essere cancellato: un nobile e un plebeo non possono amarsi, non è concepibile: sarebbe uno scandalo se si venisse a sapere. Il nome di famiglia, il titolo: vanto e privilegio da difendere per Jarjayes e Surgis; un ostacolo per Oscar e André, per la loro felicità. Come si possono dividere i due amanti? Ma con l’intrigo, naturalmente… E da dove nasce l’intrigo? Dalla malizia, dal dubbio insinuato nella mentre delle vittime designate. Il che mi fa pensare: colpire Oscar per colpire Jarjayes? La fredda vendetta consumata da una vecchia amante abbandonata: civettuola per costume e, crede lei, immune dall’amore (ricordi Les Liaisons Dangereuses?), ma ancora legata a quel rapporto che per Jarjayes fu solo una "scappatella" nonostante l’amore per la moglie (ma si sa, al tempo ad un gentiluomo era perdonato anche questo, purché non si sapesse in giro. Ah, la reputazione!). Ma per Madame Surgis fu solo quello, oppure le sue aspettative andarono ben oltre? E queste aspettative furono frustrate, lasciandole l’amaro in bocca? Oppure, molto più ragionevolmente: una vecchia "amica" che, a suo modo, in buona fede, cerca di risolvere il problema di Jarjayes?

“(…) D’accordo, Oscar è una donna, egli è pentito di ciò che ha fatto una trentina di anni prima per egoismo e per ragioni di prestigio (di nuovo il titolo, il buon nome della famiglia – la versione ridotta della "ragion di stato") e ora vuole rimediare. E come? Quale è il modo convenzionale per "sistemare" una donna? Il matrimonio, ovviamente… Non essendoci colpa da espiare, il convento non è nemmeno preso in considerazione (ma te la immagini, Oscar in convento? Beh, sì, magari per nascondersi durante una fuga…). Già, il matrimonio… Ma con chi sposare Oscar, che fino ad ora è stata libera come un uomo? Chi potrebbe mai andarle a genio, fra i nobili? E soprattutto, chi sarebbe disposto a prendersi una moglie così sui generis? Una che non si sarebbe fatta mai "mettere sotto" da un uomo? Una donna abituata a dare e non a ricevere ordini, a farsi ubbidire. E così il vecchio Jarjayes viene messo di fronte alla "nuova" natura di Oscar. E questa nuova consapevolezza scardina tutta una serie di falsità che il pover’uomo si era costruito in tanti anni: primo fra tutti, il ruolo di André. Non essendo più una bambina, Oscar, ma una donna, una bella donna, desiderabile, ne consegue che André, a sua volta, non è più un bimbo, ma un uomo. Giovane e prestante, fra l’altro. Ben educato e istruito come un nobile, pur essendo solo un plebeo. Perché per stare accanto ad Oscar in ogni momento, doveva essere alla sua altezza. E la cosa è riuscita talmente bene che, agli occhi degli altri, André non viene più considerato un servo, né trattato come tale. Infatti…

[…] E ditemi, chi è quel bel giovane che le è accanto?" Il generale spalancò gli occhi: "Quello? Quello è il suo attendente, André…" "Ah… - disse con tono deluso la contessa -. Così da lontano avevo creduto che fosse un gentiluomo. Sapete, il fare confidenziale con cui sembravano parlare…" "Confidenziale?" La contessa rise: "Che buffo, non è vero? Scambiare un servo per un corteggiatore… Devo aver smarrito la ragione, quest’oggi. O forse è il mio temperamento sentimentale, che mi fa vedere anche ciò che non c’è. Temo di essere inguaribile, ormai…". Avvertì un fremito di piacere dentro di sé: il suo compagno era sempre più allarmato, l’aveva quasi in pugno. "E ditemi, per curiosità: da quanto tempo è presso di voi questo André?"[…]"Pare molto compito, per essere un servitore". "Ha ricevuto un’educazione che lo mettesse all’altezza dell’incarico". "Educazione andata a buon fine, vedo. Dunque… si potrebbe quasi dire che lui e Oscar siano cresciuti insieme, se l’assiste da tanti anni…" "…Sì… presumo di sì… prese le dovute distanze".[…]Quella familiarità così evidente mi aveva tratto in inganno…" "Familiarità?" "Ma certo, non vedete? Sembrano quasi due innamorati…" Rise garbatamente: "Che assurdità, non è vero? Ma ora è chiaro il motivo: si conoscono da sempre…" Il padre di Oscar guardò verso il giardino con un’espressione terrea. Sua figlia e André parlavano in modo lieto e sereno, senza accorgersi di essere osservati: "Ma non stanno facendo nulla…", obiettò con un filo di voce. "Appunto, non stanno facendo nulla – concluse con un tono malizioso e leggero la contessa, godendosi il suo trionfo in cuore -. Non vedete che armonia c’è tra loro, anche se non fanno nulla?"

L’intrigo è iniziato: la prima vittima è caduta nel tranello! Il generale comincia a ripensare alla vita di sua figlia, ai suoi sentimenti, al rapporto che la lega ad André. La seconda, ignara, sta ancora prendendo confidenza con l’amore.

***

La separazione degli amanti.

Il generale, tramite Nanny, ingiunge ad André di allontanarsi dal servizio di Oscar. Non lo fa direttamente: senso di colpa, anche se a livello inconscio; oppure alterigia del nobile che non deve abbassarsi a dare spiegazioni al servo? Inoltre, André deve sposarsi. Naturalmente, anche per Oscar è pronta una contromisura: deve lasciare l’uniforme e sposarsi. […] "Certo, improvvisamente si accorge, dopo quasi trent’anni, di aver fatto una cosa mostruosa! E pretende di aggiustare tutto da un giorno all’altro! È proprio da lui, proprio da lui… E dimmi, non pensa che le persone abbiano dei sentimenti che non si possono calpestare a piacimento? Come gli viene in mente di decidere che io devo sposarmi perché così lui sta più tranquillo? Non gli è bastato giocare alle marionette con sua figlia? Ora vuole fare la stessa cosa con tutto il resto del mondo? E non pensa che Oscar abbia una sua sensibilità, e che non è giusto schiacciarla ancora? Per l’ennesima volta? Non dico di me, è chiaro che di me se ne infischia, ma di sua figlia non si preoccupa affatto? Del male che le fa?" […]"Certo…", lo udì dire poi a voce bassissima, inseguendo un pensiero. "Certo… così  ci ha sistemati tutti e due e si è messo in pace la coscienza… Non gli importa niente di Oscar, proprio niente. Pensa solo al buon nome del suo casato, ed è pronto a schiacciare chiunque, per questo".

***

Il sacrificio.

Dopo la spiegazione dell’accaduto, da parte di André, Oscar cede alla disperazione. Ma dopo aver riaffermato la loro appartenenza reciproca, in quella buia e appartata stanza di Versailles, ritrova la calma e la determinazione. E insieme stabiliscono la loro strategia. Prudenza è la parola chiave, ora. Devono rimandare ad altro momento i loro piani di fuga e, durante la separazione forzata, riuscire a non tradirsi. Ma il dolore e il senso di mancanza non sono facili da sopportare e da gestire. Il rischio di tradirsi da un momento all’altro aumenta quanto più dura la lontananza "quotidiana e dolorosa". Ora le giornate di Oscar e André sono diverse.

"Persero ogni occasione di stare insieme, ogni possibilità di vedersi e parlare. Nessuno glielo vietava espressamente ma, per incontrarsi, adesso, sarebbero dovuti uscire dai ritmi abituali delle loro diverse giornate, ritagliare spazi destinati solo a quello senza la copertura di alcun pretesto: e sarebbe stato notato, soprattutto in un momento simile.[…]Però André trovava sempre il modo, come aveva promesso, di vederla ogni giorno. A volte erano solo pochi istanti, uno scambio di sguardi, quando lei riportava il cavallo nelle scuderie, la sera, e - mentre qualcuno lo riceveva in consegna - cercava con gli occhi gli occhi di lui, trovandoli, in una presenza muta che non la lasciava mai sola: perché André l’aspettava sempre, e non smetteva di lavorare finché non era tornata. Talora era qualche minuto, se c’erano poche persone, e riuscivano ad accostarsi fino al punto di essere vicini. Non che gli altri li osservassero deliberatamente per controllarli: ma quell’allontanamento di André era stato notato, e aveva scatenato mille supposizioni da cui più che mai dovevano guardarsi. Così era necessario mantenere un comportamento tranquillo, simulare serenità. Non si dicevano nulla. Quei momenti erano colmi di sofferenza, ma lui le sorrideva, e per un attimo il peso volava via dal cuore. E poi, qualche volta, riuscivano persino a parlare. Accadeva quando era André che si occupava del suo cavallo. La mattina Oscar scendeva apposta prima che potesse esser pronto, e, mentre lui ultimava di prepararlo per poterglielo consegnare, lei gli stava vicino. Davanti ai pochi servitori presenti si scambiavano brevi frasi dai contenuti insignificanti, tremando al suono delle loro voci intrecciate. Sarebbe stato ancora più strano, del resto, che non si parlassero più: così anche quelle brevissime conversazioni apparvero presto più che normali, e in seguito loro due poterono approfittarne dicendosi piano ciò che veramente sentivano. Però erano così tante le cose che avrebbero voluto dire, e così poco il tempo, che ugualmente non riuscivano a consolarsi, e si allontanavano pieni di una delusione struggente."

L’inganno, le lettere, l’errore.

Lo sbaglio che scatena la tragedia: lo scambio di lettere clandestine. "Fu per questo che iniziarono a scriversi, e a scambiarsi di nascosto lettere in cui riversavano tutto il loro amore frustrato. Si scrivevano ogni giorno, e ogni giorno distruggevano i fogli su cui avevano tremato, riga dopo riga. Si facevano coraggio, in quei messaggi. Si dicevano che si amavano. Parlavano della fuga da tutto che presto li avrebbe riuniti." Come in ogni buon romanzo di genere che si rispetti. "C’erano le sue lettere, sì. Quelle che le scriveva sempre, che le passava di nascosto, quando potevano avvicinarsi. Quelle lettere su cui Oscar trascorreva notti intere: soffrendo, poi, quando doveva distruggerle per cancellare ogni traccia. Erano sempre più belle, tanto più belle quanto più forte era il dolore che le ispirava. Ma le lettere non erano braccia che l’avvolgevano, non erano mani capaci di accarezzarla. Le lettere non erano labbra passate sul suo viso. Erano fogli di carta con la sua scrittura, che stringeva a sé come se stringendoli potesse rinnovare il ricordo del suo corpo. Ma non erano lui." E naturalmente, l’inganno dei Nostri ha vita breve: il padre di Oscar scopre un’appassionata lettera di André che lei ha, imprudentemente (e non poteva essere altrimenti, vero?), scordato o non ha voluto distruggere."Si mosse per uscire, e chiudendo l’armadio tirò involontariamente con la mano una di quelle giacche, facendola cadere dall’attaccapanni. La vide scivolare a terra, con un fruscio. Si chinò per raccoglierla, allora, per rimetterla a posto. Era una bella giacca, piena di ricami. La sollevò, e, mentre la sollevava, da una delle tasche cadde qualcosa sul pavimento. Lo prese tra le dita: era un foglio di carta piegato in quattro, con una scrittura fitta su entrambi i lati. Ci posò uno sguardo distratto, all’inizio. Poi una parola… due… Trasalì. L’uniforme di Oscar gli cadde dalle mani mentre guardava quel foglio. Sbiancando in viso, sbigottito, l’aprì. Era una lettera." L’intreccio non è banale ed è, anzi, ben costruito. Ogni tessera del mosaico si incastra alla perfezione e i momenti di raccordo  quelli in cui "passi" le immagini a chi ti legge, senza aver bisogno di usare la forma del dialogo, sono sempre più intensi.

La reazione del generale

Il dramma si avvicina a grandi passi: Jarjayes scopre la lettera di André a Oscar.
Agli occhi del padre, nel momento in cui si lascia amare da André, Oscar diventa "un essere senza più valori, pronta a violare i legami più sacri, a mentire, a ingannare suo padre, la sua famiglia, il suo mondo…". Ma l’amore non è un legame sacro, allora? Le convenzioni sociali non possono davvero essere superate per amore di una figlia? Una figlia che alcune pagine dopo viene teneramente accarezzata così dallo sguardo del padre:

"Vedendola varcare la soglia del palazzo il generale era stato colto da una felicità e da un sollievo indescrivibili. A stento si era trattenuto dal correre ad abbracciarla, e vi era riuscito solo perché non poteva assolutamente rischiare di tradirsi. Per un momento era stato al culmine della gioia, e aveva sentito di amare quella figlia ribelle al di là di qualsiasi altra cosa al mondo."

Pur di non ammettere, almeno all’inizio, la reciprocità dei sentimenti che uniscono Oscar e André, Jarjayes non esita a gettare l’intera colpa su André, il quale la "incitava a perseverare in quella menzogna che certo le pesava, che evidentemente doveva scontrarsi con i pochi residui di principi onesti che erano sopravvissuti in lei… la esortava a non piangere, a non avere scrupoli, a non sentirsi in colpa per ciò che stava facendo… pretendeva che cancellasse ogni altro affetto dal suo cuore, per rimanerne solo lui il padrone."

In seguito, rinchiusosi nel suo studio, egli riflette: ma Oscar ama André? La risposta è senza alcun dubbio affermativa. Oscar non potrebbe comportarsi in quel modo se non fosse convinta dei propri sentimenti. In fondo ammira la coerenza e il coraggio di questa figlia.

La falsa lettera

Nella lettera che la de Surgis fa pervenire ad Oscar si parla di senso di colpa che André proverebbe nell’aver inculcato falsi valori in Oscar, quali l’abbandono dei principi familiari, le regole, le differenze di rango… Ma come? Come può Oscar credere che queste possano davvero essere parole di André?
Magari sono, invece, il residuo dei suoi di timori? Qualcosa di irrisolto c'è di sicuro, altrimenti come avrebbe potuto cadere in trappola?

Gli alleati

Quello che mi ha colpito in maniera particolare nella parte XII sono le figure di Alain e di Fersen, costruite in maniera parallela. Entrambi, lo capiamo subito, ricoprono il ruolo di spalla, di amico, di alleato: l’uno per André e l’altro per Oscar. Attraverso i rispettivi sguardi siamo portati a leggere i comportamenti di André e di Oscar. Entrambi, pur dipinti con pochi tratti essenziali, emergono come caratteri di grande spessore psicologico. Quando Oscar e André sono insieme, buona parte delle rispettive personalità emerge dal rapporto fra loro, da come si equilibrano a vicenda. Ora che sono divisi, l’equilibrio viene meno, in parte: diventa quindi necessario che si appoggino ad altri fintanto che non saranno riuniti.

Reagire?

L’amaro sfogo di Oscar, inginocchiata sulla neve, risolve i dubbi che, forse, albergavano ancora nel suo cuore.
Credo che Oscar, in modo del tutto inconsapevole, cominci a reagire davvero a quello che le è accaduto, in questo momento: "Quale vita mi hai lasciato, quel giorno? A quale vita mi hai lasciato, André? La mia vita si è fermata, quel giorno, si è fermata ed ha bruciato all’indietro tutto quello che c’era, ha cancellato ogni cosa vissuta fino a quel giorno. Io non esisto più, non sono mai esistita, da quel giorno." Dopo una fine, chiuso il cerchio, può esserci un nuovo inizio?”

Ecco invece le impressioni di lettura di Eva, sempre molto attenta nel cogliere rimandi e suggestioni.

“In certi momenti, leggendo, avevo l'impressione di ascoltare le "loro" voci e devono essere stati i momenti in cui i personaggi sembravano più veri. Mi è successo quando André parlava con sua nonna: scena molto bella e vera. In alcuni momenti sei riuscita a portare davanti agli occhi del lettore il vero André, almeno quello che noi conosciamo meglio, quello dell'anime. Mi riferisco al già citato colloquio con la nonna; ma mi riferisco anche alla scena in cui André è da solo, in camera di Oscar, seduto sul suo letto con la sua camicia da notte fra le mani. Fin dal momento in cui sua nonna gli chiede di farle un favore, è una citazione dell'episodio n°28, vero? La sovrapposizione c'è ed è forte, credo sia impossibile non pensarci, ma nel tuo racconto, quello che nell'anime è desiderio soffocato, rabbia e rimorso, si attenua e si addolcisce. Bello il contrasto che si crea tra la scena in cui André, accortosi dell'arrivo di Oscar, lascia cadere la camicia da notte di lei, di cui fino a un momento prima aveva teneramente sentito il profumo, e la scena dell'anime in cui a scivolare dalle sue mani è un pezzo della camicia che le ha brutalmente strappato di dosso: qui lui è sorpreso e addolorato per il gesto che ha appena commesso, nel tuo racconto, invece, la sua è una sorpresa carica di tenerezza per l'arrivo inaspettato di lei”.

Nelle mani, nei suoi ultimi sviluppi, mi ricorda sempre di più uno di quei film in costume dove i dialoghi sono arguti e brillanti: madame de Surgis è degna della migliore Glen Close de Le relazioni pericolose.

La scena fra il generale e la suddetta dama a Versailles è descritta con una precisione ed un'evidenza che si arricchisce e si completa di dettagli, come quello del gioco di sguardi accompagnato dalla maliziosa apertura e chiusura del ventaglio, che fanno tanto Settecento!

L'episodio IX è morbido e rotondo come una luce soffusa. Nella scena dell’incontro notturno in cucina, bello il particolare di un André quasi ubriaco, ma non imbruttito e involgarito dall'alcool: anzi, quel leggero odore di vino e quelle guance fredde che "sanno di vento", probabilmente anche un po' arrossate, quella sua stanchezza, quel suo tentativo di opporre resistenza perché altrimenti non potrebbe più trattenersi, lo rendono così umano, dolce...  e... uomo...

Tornando appena un po' indietro, nel suo atteggiamento di sfida nei confronti del generale ho ritrovato lo stesso carattere che, sempre nei confronti del suo padrone, sfodera nell'episodio "Accusa di tradimento", quando Oscar sta per essere uccisa.

Passiamo all'episodio X. Il generale, nel suo andare dal camino alla finestra, ripensando alle parole della lettera di André, mi ha ricordato un po'  Karenin che pensa a come affrontare con la moglie lo spinoso argomento dell'adulterio.

Colpo di scena finale: la falsificazione delle lettere di André.”

 

“Quell'attesa di Oscar nella locanda mi è piaciuta molto, ci ho trovato un'evidenza maggiore che in altre cose che hai scritto. Lei mi è sembrata molto vera. Anche il generale lo era in quella ripresa dell'episodio n° 37. Sì, molto bello quell'abbraccio. Oscar si commuove al pensiero di lasciare il padre, quel padre tiranno che non l'ha mai abbracciata e che in quel momento la stupisce facendolo. Quel padre che lei ha sempre ammirato, ma del quale non ha conosciuto la tenerezza, e che col passare del tempo ha cominciato a guardare con un occhio più critico e severo, dopo aver scoperto quella femminilità che lui le aveva negato. Quel padre che lei ora sta per tradire. Anche  il generale si commuove, e forse più di Oscar, al pensiero del proprio "tradimento" della fiducia della figlia. È combattuto tra la difesa dell'onore, l'affetto nei confronti di Oscar e il senso di colpa che prova nei suoi confronti, sapendo già quale dolore le causerà. La commozione di entrambi potrebbe essere l'elemento centrale di un chiasmo di sentimenti ai cui estremi si trovi la consapevolezza del tradimento che ognuno dei due ha intenzione di perpetrare ai danni dell'altro senza che questi lo sappia. Potrebbe, perché in realtà il generale sa tutto. E invece, che ironia! È proprio la potenziale traditrice a non  essere al corrente dell'inganno di cui sta per cadere vittima.”

 

“Ho sentito di nuovo la voce di Alain nelle sequenze ambientate a casa sua con André. Trovo che quelle scene abbiano gli stessi colori del cartone animato e la stessa evidenza. Anche André si vede bene. Sembra di vederlo come appare nell'anime, quando giace a letto delirante, nella scena in cui Alain lo costringe a dirgli chi sia e che cosa gli è successo. Molto vero quell'Alain che si prende cura di André. Belli anche i fotogrammi sul dottore, ricordano l'episodio n°39. In tutte quelle scene c'è concretezza e fedeltà rispetto all'originale.

Dei ragionamenti di Oscar mi è piaciuto il ritmo martellante, ossessivo, che impedisce di pensare ad altro.

Bella coloritura, poi, quella di Fourier, nell'incontro nella taverna. Quel dialogo tra Fourier e Alain, quelle notazioni sui gesti compiuti dall'ex cameriere di Versailles, fanno pensare a una descrizione letteraria vera e propria”.

 

“Eh sì! Devo proprio dirlo!

Chi se lo sarebbe aspettato da Otty un tale acume? Mi è molto piaciuta quella scena a casa di Oscar, con quella luce soffusa, quella calma serenità triste. Quel bacio è così dolcemente disperato e arreso che non desta sdegno nei confronti di nessuno dei due: Oscar non è in sé, cerca solo un po' d'amore e in Fersen trova un surrogato dell'amore di André. Fersen lo capisce, e qui gli hai fatto un gran dono: gli hai dato una sensibilità che in fondo ha anche nell'anime, a dispetto di tutte le cose che nel fandom si dicono di lui.

A me quel bacio è piaciuto molto, lo ripeto, perché non toglie nulla all'amore di Oscar per André e aggiunge una intesa più profonda al rapporto d'amicizia con Fersen, che proprio in questa occasione sembra rinforzarsi ed assumere connotati forse più chiari, proprio perché si scioglie una tensione erotica che entrambi, in tempi diversi, hanno sentito.

Per Oscar questo momento arriva in ritardo rispetto al sentimento che ha provato per Fersen, per quest'ultimo, invece, arriva proprio al momento giusto... Peccato, però, che sia consapevole del fatto che si tratta solo di un momento di smarrimento di lei... Questa sua consapevolezza mi è piaciuta. Il bacio in sé non ha granché di erotico. E' dolce, tenero, amichevole quasi. Solo da parte di Fersen, a un tratto, vuole nascere l'illusione che sia un bacio d'amore”.

 

“Nella scena tra Oscar e M.me de Surgis ho sentito la voce di Oscar, così come ho sentito quella di Maria Antonietta nel dialogo con la stessa Oscar. Anzi, lì l'ho anche vista. Bella la risata di Fersen quando ripensa al trattamento riservato alla perfida contessa da parte del re e della regina, molto... "ferseniana". Nelle scene di Oscar a Versailles ho nuovamente visto i colori dell'anime e ne ho quasi respirato l'atmosfera. Così come mi è piaciuto l'incontro fra Oscar e il segretario della de Surgis, lì per strada nella nebbia mattutina. L'ho vista, Oscar, col suo sguardo severo e quel modo composto di stare in sella al cavallo. Un'espressione mi è molto piaciuta, nell'episodio XV: “Guardò il cielo fuori dalla finestra mentre il vento le soffiava ferocemente tra i capelli, col pianto gelato negli occhi”. Di questa frase mi ha colpito l'avverbio "ferocemente", non solo per il suo valore onomatopeico, ma anche per la posizione in cui si trova, tra il verbo e il complemento, dove riesce, con le sole parole, a rendere una sonorità quasi fisica  e plastica.

L'immagine di Oscar coi capelli mossi dal vento deve esserti molto cara perché la riprendi spesso, soprattutto quando vuoi mostrarla pensierosa,  e tormentata. Nella scena che ho citato sembrava che volessi riferirti all'episodio dell'anime in cui lei viene a sapere dalla governate che Girodel (che si è appena congedato) è venuto a farle visita perché è intenzionato a chiederla in moglie. Ma c'è un'altra scena in cui Oscar ha i capelli al vento. Si tratta dell'episodio XVI, nella scena che la vede davanti al mare, in Bretagna. Lì il riferimento è chiaro: le immagini della sigla in cui lei è ora inginocchiata sull'erba e si lascia sfuggire tra le mani dei petali di rosa; ma ancora di più l'immagine di lei in piedi su uno scoglio o comunque su un'altura”.

 

Quelle che seguono sono osservazioni di Deborah, che mi ha scritto più di una mail per esprimere i suoi giudizi:

 

“La storia è velata di malinconia e tristezza a tratti, ricca d'amore. Ma, a mio avviso, almeno per quel che ho letto finora, le parti che meritano più commenti sono la XIV e la XV.

La parte XIV, con Oscar tormentata e Fersen nella parte dell'amico disposto ad aiutare mi è piaciuta moltissimo, al di là del fatto che Fersen abbia ceduto alla tentazione di baciare Oscar, e che giusto, dico GIUSTO in quel momento, André dovesse trovarsi a palazzo Jarjayes. La figura di Oscar, così come l'hai dipinta in questa parte, mi ha colpito moltissimo.

Hai raffigurato una donna disperata, distrutta dal dolore e dai dubbi che assalgono la mente quando si ama qualcuno e ci si vede abbandonati. Oscar, la tua Oscar, ha una paura folle di avere sbagliato tutto con André, si aggrappa a tutto ciò che le resta della sua vecchia vita per sopravvivere, si chiude in un mondo suo fatto di ricordi struggenti. E' molto più delicata e femminile della Oscar che siamo tutti abituati a vedere, la donna- soldato che combatte per i valori in cui crede. L'aver perso l'amore di André l'ha uccisa, e al di là di quelli che potrebbero essere umani dubbi (mi riferisco al fatto di non aver pensato che la lettera fosse falsa, nonostante risulti poi palese agli occhi di Fersen...), si dibatte nel suo dolore forse anche senza volerne uscire. Sarà Fersen ad aiutarla a venire fuori. Quello stesso Fersen che ama la regina, ma nello stesso tempo non ha dimenticato la donna che è Oscar, e quando la vede così annientata non resiste e la bacia.

Da questo punto di vista, Fersen mi ha stupito, molto. E' Oscar che si getta tra le sue braccia, che cerca conforto, e lui le dà ciò che lei cerca; infatti Oscar non si tira indietro quando Fersen la bacia, salvo poi pentirsene poco dopo... nonostante tutto è una donna ferita, innamorata e che crede di essere stata tradita e ingannata per lungo tempo. Risorge poi prepotentemente quando riesce a capire di che macchinazione orrenda è stata vittima. E qui riemerge la vecchia Oscar, quella che tutti conoscono, la donna decisa e senza dubbi, anche se il trasporto con cui istintivamente prende la spada per puntarla contro il padre è portato dalla disperazione e dal disprezzo; atteggiamenti e sentimenti tipicamente umani, che la fanno ancora più umana.

La parte XV mi ha rivelato un lato di te che non conoscevo. Quello più duro, tagliente, cattivo. Il tuo stile, da dolce e zuccheroso è diventato tagliente e a tratti violento quando Oscar si reca da Madame de Surgis a Versailles, e la costringe alla confessione. Oscar non è più una donna fragile e indifesa, è una donna arrabbiata, e ora sa, per mano di Fersen, contro chi deve rivolgere quella rabbia. E al di là del personaggio della de Surgis hai saputo presentare il mondo 'bene' della Francia di fine 1700 per quello che era in realtà. Dietro il barocco e il rococò, nascosto dietro le melodie dei concerti, gli abiti sgargianti e raffinati, i divertimenti e le risate gaie e apparentemente morigerato c'è tutto un mondo fatto di cattiveria e lussuria. Di godimento nel ferire il prossimo.

Il segretario di madame, ad esempio, che approfitta delle sue cameriere; Madame se Surgis che non esita ad ordire un omicidio per salvare un apparente onore, e poi uccide i sicari a sua volta perché non ci siano prove a suo carico... il mondo non è cambiato molto...

Lo stesso Fersen, che nel capitolo prima aveva consolato Oscar, lo presenti ora come donnaiolo pronto  a prendere 'la prima dama dietro la tenda'. Se non avessi letto prima la biografia di Maria Antonietta e avessi scoperto chi era davvero Fersen, mi avresti sconvolta. L'hai dipinto come l'uomo frustrato, incapace di vero amore, a tratti. Non si è mai sposato perché la donna che ama non potrà mai essere sua, e per contro fa sue molte delle donne che incontra. Che tipo di amore è, questo?

Un uomo dedito alla regina di Francia, che va con la prima donna disponibile (di rango, peraltro) che trova... quando lo lessi sulla biografia, ne rimasi molto delusa. Avevo immaginato Fersen come un uomo dedito alla regina di Francia, che amava solo la regina di Francia... e invece scopro che quando Antonietta era al Tempio, lui stava con un'altra donna, una contessa inglese, se non vado errato. E ora lo rivedo qui, che in carrozza pensa ad Antonietta e ad Oscar, e sa che sfogherà il suo amore carnale represso con un'altra donna.

Comunque sia, mi è molto piaciuta. Hai fatto vedere un lato di te che non conoscevo, e mostrato un lato più crudo della realtà e delle persone che ci vivono”.

 

Infine vorrei riportare, per il piacere di tutti, un divertissement di Elisa, ovvero un’ipotesi di svolgimento della trama successiva alla separazione degli innamorati ad opera dei perfidi Malvagi, raccontata con l’ironia e il brio di cui solo lei è capace. Mi piacque così tanto, quando la lessi, che fui seriamente tentata di seguire questa traccia per proseguire il racconto:

“Vorrei vedere, ho passato due settimane a pensarci! ^_^;;;;;  Comunque adesso mi vendico perché ti dico proprio come l'ho pensata. Lei rimane annientata, giusto? Ho letto bene? E allora finisce in stato semi-vegetativo-quasi-catatonico-sonnambulante, guarda sempre il vuoto come se ci si volesse buttare e non parla più con nessuno e gira per casa come se fosse sonnambula. La brutta copia della Clara de "La casa degli spiriti". Si accorgono che è incinta perché le cresce la panza. Dubbi sulla sua sanità mentale, terribili dubbi. Generale terribilmente pentito e quindi non l'ammazza. Tutti preoccupatissimi, ma d'altronde la batosta è stata grossa. Non sapevo se lei ci crede o no alla lettera. Lo stato semi-vegetativo-quasi-catatonico-sonnambulante era una scusa per prendere tempo. Comunque ho optato per la madre che odora il complotto quando il pargolo è quasi pronto. Il complotto viene svelato. Oscar, sempre in stato semi-vegetativo-quasi-catatonico ascolta per caso da dietro alla porta (e se romanzo d'appendice deve essere: allora sia! urla Brumilde in stato d'esaltazione brandendo l'ennesimo spicchio del decimo mandarino della serata) e si risveglia folgorata dallo stato semi-vegetativo-quasi-catatonico-sonnambulante urlando ASSASSINO!!!!! dando della troia baldracca a quella puttana della dama di picche (lei, proprio lei, madama fatti gli affaracci tuoi a casa tua e non venire a rompere le balle a me a casa mia). Parto prematuro, ma non di tanto, un paio di settimane, non mi voglio ritrovare con i problemi di un ottimino. Oscar si fa giurare dalla madre in una scena polpettone di prendersi cura del pargolo che alla fine però si rivela un pargola (questa è la Brumilde che se la ride perfidamente all'idea di Oscar alle prese con una femmina, già perché la prendo in giro poco). A questo punto ho un po' di vuoto. Comunque Oscar esce del tutto dallo stato semi-vegetativo-quasi-catatonico-sonnambulante  e ripiglia lo spirito di sempre e si tira su la pargola in un mezzo lutto tanto per fare un dispetto al paparino. Fasi confuse. (intanto Brumilde, alla fine dell'undicesimo mandarino della serata si dichiara vinta). Probabile che se ne vada di casa con la rosaliuzza (che fa sempre comodo visto che Oscar va a lavorare, cambia tutto e va nei soldati della guardia così ci infiliamo pure Alain). André riesce a risorgere (che ne so, aiutato da un buono e civile inglese visto che i buoni e civilissimi inglesi risolvevano tanti guai e tante ingiustizie all'epoca raccogliendo derelitti e spiriti forti schiacciati da un sistema iniquo e arretrato rispetto al loro civilissimo regno). Ritorna. Incontro in varie salse. È incazzato come una biscia col generale e se gli capita sotto mano lo strozza. Poi non lo so. Ho letto troppo Dumas e Salgari, lo so”.

I personaggi

Non ci sono grandi considerazioni da fare sui personaggi di “Nelle mani”, più che altro perché spero che il loro carattere in venti capitoli sia venuto fuori. Al di là dei protagonisti, su cui torno fra poco, volevo solo sottolineare che nel tratteggiare il profilo di tutti ho cercato di rappresentare una molteplicità di sfaccettature che potesse dare l’idea della complessità. E questo sia nei più importanti sia nei minori. Il Generale, ad esempio, combattuto tra puntiglio aristocratico e amore paterno (è una definizione di Tiziana), tra severità di comportamento e attaccamento a Oscar, tra arroganza di padre-padrone e sensi di colpa per la consapevolezza del male che fa alla figlia. O la Governante, che mi sono sforzata di rendere un po’ diversa dalla macchietta che appare quasi sempre nel manga e nell’anime, col suo affetto profondo per il nipote e la consapevolezza dolorosa del ruolo che è assegnato alla loro condizione, divisa tra comprensione e accettazione. Riporto anche qui parole di Marina: Fa tenerezza il rapporto fra Nanny e André. È stato un personaggio un po’ sottovalutato, secondo me, quello della nonna di André. Quando la si ricorda è solo per i sonori rimproveri e mestolate che ha elargito con molta prodigalità al nipote. Invece è anche un personaggio generoso: emerge molto bene anche dalla trasposizione che ne hai dato tu. (…) La nonna – a suo modo in buona fede – ricorda al nipote che ciò cui lui aspira potrà condurlo solamente alla sofferenza, dal momento che il mondo in cui vivono non consente che, per quanto due persone si vogliano bene, si possa dimenticare (forse è meglio dire superare) la differenza di rango. André si ribella, invece. Il vaso è colmo – anche la nonna non capisce o fa finta di non capire – e André urla il dolore che ha tenuto dentro fino ad ora. Un dolore che ha una duplice valenza: una storica, universale, dovuta alla presa di coscienza che la società degli uomini sta acquisendo proprio in quegli anni, e una più intima. Quest’ultima è la consapevolezza a cui giunge André di non poter più tollerare la relazione clandestina con Oscar. Consapevolezza che lo porterà, più tardi, a proporre ad Oscar di scappare”.

Poi c’è Fersen, affascinante da una parte, frivolo e spregiudicato nel modo di accostarsi ad Oscar per corteggiarla nei primi capitoli: ma dall’altra capace di sentimenti profondi e di  comprensione per l’amica fin dall’inizio. Un uomo che il carattere ha fatto buono e onesto ma la vita ha indurito, frequentatore di salotti alla moda ma in grado di provare affetti sinceri e rispettare valori che sa ancora riconoscere; sleale nell’approfittare del suo rango per pungolare André in cui ha intuito un rivale, ma gentiluomo nel non approfittare di Oscar nel momento in cui potrebbe averla, e nell’aiutarla dimostrando riguardo per l’uomo che Oscar ama; profondamente innamorato della regina ma pieno di dolore e rabbia per la consapevolezza che il suo amore non potrà mai realizzarsi come vorrebbe, e per questo capace di starle accanto fino alla morte ma anche di tradirla con cortigiane di cui non gli importa nulla. La Regina stessa, affettuosa con Oscar e sua amica, sempre pronta a credere in lei, ma ancorata alle sue convinzioni e incapace di capire il suo popolo, legata a Oscar al punto di difenderla con determinazione, ma succube di favorite senza scrupoli. Madame de Surgis, capace di cattiverie gratuite e intrighi nefandi, cortigiana senz’altro malvagia e priva di lati positivi, ma specchio del suo mondo vuoto e privo di valori, attaccata a pregiudizi di classe che la fanno sentire in diritto di agire spregiudicatamente per difendere l’“onore” del suo rango, annoiata da un’esistenza frivola e inasprita dall’incombere della vecchiaia, frustrata dal non aver conosciuto l’amore ma piuttosto il capriccio, perennemente alla ricerca di un motivo per sentirsi viva, foss’anche quello di interessare un antico amante e forse di vendicarsi con lui per la fine dei palpiti giovanili e lo scorrere inutile dell’esistenza. Alain, che qui ha il ruolo secondario di aiutante di André, di colui che gli salva la vita e lo ricongiunge casualmente a Oscar, sul piano narrativo – e qui motivo la mia scelta - si trova a fare il detective per offrire un punto di vista esterno che permetta di descrivere in maniera efficace la situazione anomala dei protagonisti. Carattere duro ma dotato di umanità, capace di salvare uno sconosciuto portandoselo a casa e aiutarlo disinteressatamente, fratello affettuoso e sollecito che cerca di fare il bene di Diane allontanando André, seppure con dispiacere.

Poi i personaggi secondari appena accennati o nominati soltanto, magari indirettamente: la piccola Diane, donna e fanciulla, il medico Fouquart che veglia disinteressatamente André, il Segretario di madame de Surgis, spregiudicato e duro nell’approfittare dei suoi privilegi, l’ex cameriere di Versailles Fourier, la cameriera Julie che strizza l’occhio ad Alain tra contegno e confidenza, la giovane Prostituta che tenta di sedurre André, i due Sicari che lo feriscono, il vecchio colonnello Du Bourg ricordato per le sue fissazioni; il conte Girodel, che non compare quasi direttamente ma il cui amore per Oscar e la cui pacatezza emergono appena dalle riflessioni del generale. I gruppi, poi, come la servitù di casa Jarjayes, i soldati della Guardia: tratteggiando il profilo di tutti mi sono sforzata di renderlo in qualche modo convincente, magari con pochi elementi, attribuendo ad esso uno spessore.

Infine i due protagonisti, naturalmente.

Oscar mi è stata particolarmente cara in “Nelle mani”, ed è vero in effetti quello che mi hanno detto in molti, che la sua evoluzione è più marcata, maggiormente rappresentata nel testo rispetto a quella di André. Ma la cosa era in un certo senso implicita nei fatti: perché Oscar è all’inizio una persona “incompleta”, che è vissuta negando la sua natura per costrizione esterna e autoconvincimento proprio, combattuta tra malinteso senso del dovere verso suo padre e il suo mondo e intime aspirazioni a realizzare il proprio sentire femminile manifestantesi prima con l’attrazione per Fersen e poi con l’amore per André. Oscar compie molta strada, in questo racconto, e sviluppa progressivamente una sicurezza sempre maggiore rispetto alla sua identità e alle sue scelte. Passa attraverso prove ed errori ma matura profondamente, ed è pronta ad andare fino in fondo quando è diventata consapevole di ciò che è e di ciò che vuole, sia sul piano della vita privata sia di quella pubblica. Va in crisi per l’abbandono di André ma poi è capace di sollevarsi e – scoperto l’intrigo di cui è stata vittima – riprendere in mano la sua vita, trovare la forza di andare avanti anche se crede che André sia stato ucciso. È Oscar, non a caso, che tira le somme dell’esistenza di tutti e due, in una conclusione che è anche un bilancio fatto con voce resa esperta e consapevole.

Anche André subisce un’evoluzione: ma è un personaggio almeno in apparenza più lineare di Oscar. Lui fin dall’inizio sa che l’ama, fin dall’inizio sa cosa vuole dalla vita. Questo tuttavia non lo esime dall’affrontare conflitti interiori: l’insicurezza per la rivalità con Fersen, il dolore per la differenza di rango e la necessità di vivere il suo amore clandestinamente, il desiderio di andarsene via con Oscar e la consapevolezza che inducendola a fuggire le imporrebbe una scelta molto difficile. L’amore profondissimo per lei che gli impedisce di tradirla anche quando crede di esserne stato tradito, ma la mancanza di fiducia che lo porta a credere alle apparenze quando vede il bacio tra Oscar e Fersen, senza cercarla di nuovo per farsi spiegare, per capire cosa è accaduto.

André limone verde?

E’ forse per questo, per queste “oscillazioni” di André, per il fatto che spesso nel rapporto tra i due sembri lui quello che ha bisogno di essere rassicurato - e lei invece, nonostante il difficile percorso che sta compiendo, appaia come quella più solida, più pronta a donarsi e a offrirgli appoggio –, è forse per questo, dicevo, che nel carattere del personaggio è stata talora letta una debolezza maggiore, in certi punti forse non lontana dalla meschinità. La cosa andava oltre le mie intenzioni (ho sempre amato moltissimo André, e l’ho difeso a spada tratta, protestando vibratamente per queste “accuse”), ma ho trovato tali impressioni di lettura interessantissime, ed è per questo che le riporto qui:

Ecco cosa diceva Marina, ad esempio, quando ancora eravamo alla puntata VII:

“Il rapporto matura e – io insisto – più per merito di Oscar che di André. L’André di "Nelle mani", almeno fino ad ora, lo trovo decisamente antipatico ed egoista, a volte quasi distruttivo e sicuramente autodistruttivo. Sembra che, nonostante ami profondamente Oscar, ora che lei è "sua", voglia rivalersi, in qualche modo, su di lei per gli anni di sofferenza che, inconsapevolmente, gli ha procurato fino al giorno in cui ha iniziato a corrispondere al suo amore. Nonostante le prove d’amore e di sincerità – ma ce n’è davvero bisogno! – che Oscar non smette di offrirgli, André continua ad essere preda del demone dell’insicurezza e della gelosia. E fa ben poco per liberarsene. E il paradosso continua. Oscar desidera che André le si doni completamente. E così avviene. Due volte nella stessa sera. Nessun timore di possibili gravidanze: lei lo ama e un figlio di André è quasi cercato. Nonostante questa prova della solidità dei sentimenti che Oscar prova per lui, André le dice: "Oscar, dobbiamo andarcene da qui". Oscar piange… prevedibile, no? E André "per la prima volta, con lei sul suo corpo, soffrì. Capiva quel pianto, eppure ne era ferito." Riprende il dialogo, quando Oscar ha smesso di piangere: "Oscar, io ti amo, ti amo sempre di più, ogni giorno di più. Io ti amo più della mia vita"."Oh, André..." "No, ti prego, ascolta. Ascolta. Io non voglio, non vorrei mai forzarti, spingerti a fare qualcosa per cui non sei pronta. Sono disposto a fare qualsiasi cosa per te, anche a rimanere per sempre il tuo attendente in questa casa, se tu me lo chiederai. Non so come potrò riuscirci, ma lo farò, se tu me lo chiederai". "Amore, io...". Io lo chiamo ricatto psicologico. Però… attendo gli sviluppi”.

Non è stata l’unica ad avere questa percezione. Poco più tardi, però, letta la puntata VIII, ha aggiunto:

“Innanzi tutto, e non perché mi senta obbligata a farlo, questa volta sono prontissima a "riabilitare" André: ora lo riconosco! Ha ripreso il controllo di se stesso, evviva! Privilegi della Lettrice… Ma è meglio procedere con ordine. L'incipit della parte VIII è uno dei brani che preferisco in assoluto: amo le parti di raccordo tra un momento e l'altro, quelle prive di dialogo, dove sono le immagini a parlare più che i personaggi. Lo stesso era accaduto per molti passaggi della parte III, per esempio. D'accordo, ora Oscar e André sono entrambi maturi e consapevoli, come ben hai scritto tu stessa. L’amore cambia le persone: le migliora se il sentimento che lega le chi si vuole bene può essere rivelato, se può essere vissuto alla luce del sole, se può essere accudito e nutrito giorno per giorno. L’amore cambia le persone: le peggiora se il sentimento non è corrisposto o se deve essere celato, se non può venire espresso fa morire chi lo prova, ogni giorno un poco di più. È per non morire che Oscar e André devono allontanarsi, fuggire. Ho capito, adesso. È vero, André aveva le sue ragioni, anche in precedenza: ora lo so. Doveva salvarla e doveva salvare se stesso, dando a quest’amore la possibilità di essere vissuto”.

Ma i miei dolori non erano finiti! Parecchio tempo più tardi, leggendo in anteprima una delle ultime puntate, la mia carissima Laura  ha espresso il seguente giudizio sul rapporto tra i Nostri:

Oscar è forte, in questa storia, non André. André sembra quasi vanificato dagli eventi e anche da Oscar, non ha forza; mentre Oscar ha una potenza, grande. Ha la forza di disperarsi, ma di credere ancora nell'amore. Ha avuto Fersen accanto, sì, che le ha aperto gli occhi, ma lei ha saputo seguire la via indicatale da lui. André, invece, pare quasi crogiolarsi nel suo rancore, senza forza, senza neppure l'illusione di credere in quello che era stato.

Oscar è funzionale alla storia. Anche perché è davvero piena di tante sfumature. Fatico, invece, a riconoscere André. In un certo senso, è come se in Oscar vi fosse condensato tutto il bene dell'amore, mentre in André tutto il nero, il male, ciò che fa soffrire.

Ne esce malissimo, André, da questa storia. Paradossalmente ne esce bene, molto bene, Fersen. Ne esce alla grande, Oscar. Davvero dentro di lei c'è tutto l'universo dei sentimenti”.

 

Poi, alla mia “difesa” di André (“è mio dovere spezzare una lancia anche a suo favore: c'è una differenza sostanziale nella situazione dei due: lei sa, lui non sa. Lei sa dell'inganno, sa che André non l'ha tradita, che le è stato fedele e gli hanno fatto del male. Lui invece non sa nulla: sa solo che qualcuno ha cercato di ucciderlo e che nel frattempo Oscar stava tra le braccia di un altro uomo. Non sa dell'inganno, della lettera falsa, di quello che anche Oscar ha subito”): 

 

“Guarda che io non ho dubbi sul fatto che Oscar sappia e lui no, anzi, Oscar ha accanto un mentore come Fersen e questo le dà uno specchio in cui confrontarsi. Ma anche André ha accanto Alain - e pure Diane, se è per questo - eppure non si confronta, rimane non solo chiuso, ma come arroccato in quel rancore, come rassicurato e appagato da esso, e proprio in questo non trovo il personaggio. Quanto alla visione di Oscar con Fersen, poteva anche chiedere spiegazioni.

Non solo. E' vero che Oscar sa, ha saputo, ma Oscar ha dato ascolto a Fersen, si è mossa, si è data una mossa. André invece non ha fatto niente di niente, se non trascinarsi di bettola in bettola. E, come aveva le energie per fare questo, poteva pure cercare di indagare, invece di accontentarsi di quelle quattro notizie sballate che gli ha dato Alain, che, tra l'altro, conoscendo il 5% della storia, non poteva che dargliene quattro e sballate.

Oscar sa. André non fa niente per sapere.

Oscar ha debolezze, momenti in cui è persa, sperduta, ma ha una forza tutta sua e sa ritrovarla. E, anche nei momenti di dolore, ama, sa amare, sa mantenere un'apertura all'ottica dell'altro. Quello che mi pare mancare in André. (…) Non so. E' come se io non lo sapessi ritrovare”.

 

E ancora:

 

“(…) quello tra i due rancoroso, quello tra i due che chiedeva di essere rassicurato in quell'amore, quello dei due che tendeva a mettere in colpa l'altro era lui. Oscar, nel romanzo, è sempre stata quella dei due in fondo più vulnerabile alle stoccate di lui, quella che ha cercato di rassicurarlo, non solo con l'amore, ma anche rischiando (tipo: resta dentro di me senza alcuna protezione, così ti senti rassicurato), guarda caso quando lui entrava in crisi. E mi pare ci entri un po' troppo spesso, questo André, anche nei momenti in cui ancora non c'è nessun complotto.

Io trovo che lui attui, in questo romanzo, un meccanismo in cui cerca di far scattare il senso di colpa di Oscar e lei risponda. (…) Guarda, non lo so e, ripeto, parlo per me, ma pare quasi di aver a che fare con un adulto profondamente infantile, viziato...”

 

Questa lettura del carattere di André, presentata a più riprese, mi ha profondamente colpito, perché decisamente dare questa rappresentazione del protagonista maschile non era nelle mie intenzioni. Sono stati diversi e “agguerriti” i nostri scambi di vedute in proposito, e – sebbene continui a non condividere questo tipo d’interpretazione – ho trovato interessante proporla come punto di vista e spunto di riflessione. Il mio modo di vedere André resta quello di un uomo profondamente e non egoisticamente innamorato, la cui valutazione “morale”, sebbene egli commetta degli errori, si pone su un piano sostanzialmente paritario rispetto a Oscar, nel senso che anche lui, come lei, sbaglia, e anche lui, come lei, si pente dei suoi errori e matura.

Però non è affatto detto che questa sia l’unica visione possibile, e mi ha parecchio stupito constatare che, in due occasioni, due persone diverse che non si erano confrontate a riguardo abbiano avuto un’impressione simile (pur nelle rispettive specifiche posizioni) e parimenti distante dalla mia. Vuoi vedere che alla fine il vero “André limone verde” (= “André l’immaturo”, per citare – casomai ci fosse qualcuno che lo ignora - il titolo giapponese dell’episodio 28 dell’anime) è proprio quello di “Nelle mani”?

Ai posteri l’ardua sentenza…

Del resto, dice Umberto Eco, “Nulla consola maggiormente un autore di un romanzo che lo scoprire letture a cui egli non pensava, e che i lettori gli suggeriscono (…). Non dico che l’autore non possa scoprire una lettura che gli pare aberrante, ma dovrebbe tacere, in ogni caso, ci pensino gli altri semmai a contestarla, testo alla mano. Per il resto, la gran maggioranza delle letture fa scoprire effetti di senso a cui non si era pensato”.

E aggiunge (ma qui, se permettete, tocco ferro…): “L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo”.

 

Il narratore

Sulla struttura del racconto c’è ben poco da dire. Autore a parte, il narratore è esterno e onnisciente come nella migliore tradizione ottocentesca, soluzione che offre non pochi vantaggi di regia e che ho sfruttato senza ritegno alcuno. Nel finale, però, seguendo un ultimo estro, ho inserito la giravolta narrativa che inaspettatamente fa di Oscar stessa la redattrice di tutta la sua storia, col passaggio dalla terza alla prima persona e lo svelarsi di un “io” narrante che, sotto mentite spoglie, aveva condotto il gioco fino al quel momento. Solo alla fine, così, si scopre che il narratore onnisciente di cui sopra è in realtà la protagonista stessa di quelle avventure, che le racconta dall’alto del suo raggiunto equilibrio e nel raccontarle le valuta da un punto di vista che, però, rimane suo e suo soltanto, per quanto si possa condividerlo.

Questo “colpo di scena” complica un poco le cose, in effetti. Per quale motivo l’ho fatto?

Me ne vengono in mente diversi, al momento.

Prima di tutto che mi è piaciuta l’idea di questo guizzo finale, come un espediente che portasse all’improvviso il lettore a riconsiderare tutto ciò che aveva letto fino a quel punto da una visuale diversa: più complessa, perché stratificata in ottiche sovrapposte.

Per secondo il fascino esercitato da due modelli: uno molto antico, il Cesare dei Commentarii che racconta in terza persona vicende di cui è stato attore, creando una formidabile illusione prospettica: da una parte l’impressione di obiettività derivante dal vederlo agire come personaggio che è narrato da fuori (sebbene si narri da solo, in realtà), e dall’altra l’autorevolezza  che conferisce al suo dire la coscienza sempre presente nel lettore (ma non è il caso di “Nelle mani) che quelle vicende sono credibili proprio in quanto esposte dal protagonista in persona.

L’altro modello è più vicino ai nostri tempi e al mio cuore: Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, a cui ho “rubato” l’idea finale (e la definizione di essa), in cui l’autore nell’ultimo capitolo fa della narratrice Suor Teodora la stessa persona della guerriera Bradamante, personaggio fino a quel momento, che un po’ galoppa per i campi di guerra tra duelli e amori, un po’ si chiude nei conventi, meditando e vergando le storie occorsele, per cercare di capirle (l’ultimo periodo è una citazione).

Bradamante, guerriera donna (come guerriero era Cesare, d’altronde), mi ha affascinato per il suo riecheggiare Oscar. E di Oscar la Bradamante di Calvino ha il duplice aspetto di coraggiosa combattente e di persona profonda, maturata nell’esperienza della vita. Sarebbe bastato molto meno a farmi decidere.

Terza ragione, se vogliamo, il desiderio di aprire uno strappo nel cielo di carta del genere in funzione, e accennare – ma accennare soltanto – a una soluzione più complessa del semplice lieto fine facilmente immaginabile da capitoli e capitoli. Un finale felice, sì, ma temperato dalla sottile amarezza che l’esperienza del vivere deposita nell’animo degli uomini se solo si dà loro la parola, in fondo, e li si lascia riflettere sul senso più intimo delle vicende accadute. Più che un tripudio di campane e sonagli volevo che il ricongiungimento degli amanti e la loro felicità avesse come colonna sonora l’armonia struggente e piena di una riflessione sulla vita, perché il dolore sofferto e gli errori commessi insegnano lasciando il segno, anche quando tutto finisce bene. Un tributo finale, probabilmente, all’esigenza di verosimiglianza. Ed è per questo che negli ultimi capitoli l’uso della prima persona, sottoforma di pensiero dei protagonisti, si sovrappone spesso alla modalità del narratore esterno, introducendo nella trama vera e propria più malinconici contrappunti di meditazione.

 

Il titolo

 

In parte l’ho spiegato sopra, e quindi ci ritorno appena, in parte non so bene come spiegarlo, perché in effetti non è che quando si sceglie un titolo si possa rendere conto esattamente di tutte le motivazioni e le implicazioni che tale scelta ha. “Nelle mani”, cui sono pervenuta per aggiustamenti successivi, mi piaceva per il suono, per l’immagine di passione che suscitava, per l’idea che si potesse ben associare a una storia in cui – come ho già detto – la fisicità ha un aspetto rilevante. Ma non solo.

Non è detto che un titolo debba render conto di tutto il contenuto del libro: sarebbe impossibile, e non è nemmeno giusto appioppargli questa responsabilità. Lo diceva chiaramente Umberto Eco nelle postille a “Il nome della rosa”, ricordando che inizialmente voleva intitolare il suo romanzo “L’abbazia del delitto”, ma che poi scartò quest’idea perché quella definizione rendeva conto solo del giallo che il racconto sviluppa e non dei molteplici livelli di lettura che quella meravigliosa opera attiva; e magari – lo scrive l’autore – quel titolo tutto incentrato sulla trama poliziesca poteva illecitamente indurre sfortunati acquirenti, in caccia di storie tutte azione, a buttarsi su un libro che li avrebbe delusi. Così Eco scelse alla fine “Il nome della rosa”, venuto quasi per caso, “perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno (…). Il lettore ne risultava giustamente depistato, non poteva scegliere una interpretazione”.

Perché, secondo Eco, “un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle”.

Ha pienamente ragione, per me, ed è in buona e illustre compagnia: pensiamo solo a quello che fece l’“onestamente disonesto” Alexandre Dumas (sempre da lui citato): “I tre moschettieri” non è forse, in realtà, la storia del quarto?

Preceduta da sì nobili precursori, cui come sempre non voglio certo paragonarmi, mi sento tuttavia confortata sul mio diritto di non dare troppe spiegazioni a riguardo, impelagandomi in difficili congetture retroattive sul perché diavolo mi sarà venuto in mente di intitolare il racconto così. Forse, sì, posso aggiungere che le mani, oltre a una metafora della fisicità, lo sono anche della fiducia, dell’affidarsi (vedi l’espressione “essere nelle mani di”, o il fatto che per salutarsi e rassicurare l’altro sulle proprie buone intenzioni gli si porga, appunto, la mano); e che la fiducia appunto voleva essere l’altro nucleo tematico del testo. Ma non sono tanto sicura di non star facendo della dietrologia anche qui: sarà poi vero che ci pensavo fin dall’inizio? Ritrovando una vecchia mail scritta a Laura nell’agosto scorso, prima che il racconto iniziasse a uscire, vedo che riguardo al titolo mi pronunciavo sinteticamente in questo modo: “E' un po' strano, lo so, ma mi suonava bene quando l'ho formulato. Volevo esprimesse fisicità e sentimento”. Non è tutta dietrologia, dunque, non completamente. Nelle fasi che precedettero la scelta definitiva, pensai anche a “Nelle mani ed in te”, infatti, che voleva mettere insieme i due aspetti. Era questo, ritengo, il nucleo dell’idea. Altro non credo sia il caso di dire.

Mi soccorre di nuovo, per fortuna, il mai così caro Eco: il quale, di un testo così ricco e complesso come il suo, descrive la genesi in questo modo: “Ho scritto un romanzo perché me ne è venuta voglia. Credo sia una ragione sufficiente per mettersi a raccontare. L’uomo è animale fabulatore per natura. Ho incominciato a scrivere nel marzo ’78, mosso da una idea seminale. Avevo voglia di avvelenare un monaco. Credo che un romanzo nasca da una idea di questo genere, il resto è polpa che si aggiunge strada facendo”. Grandioso.

 

I debiti, come sempre

 

Di solito preferisco, eccetto in casi particolari, non collocare note a piè di pagina, perché trovo che disturbino la lettura. Fui traumatizzata, tanti anni fa, da una lettura a singhiozzo de I Malavoglia in un’edizione per la scuola media che mi capitò sottomano, infarcita di note assolutamente ovvie, che costringevano ad abbandonare continuamente il testo per essere informati che “terso” significa “limpido”. Così nei miei racconti, se devo annotare qualcosa, cerco di farlo alla fine.

E’ arrivato dunque il momento, anche per “Nelle mani”, di ottemperare a questo dovere: ho contratto alcuni debiti di cui mi piace render conto, e penso che anche per il lettore possano esserci delle curiosità interessanti. Vado per ordine, partendo dal primo capitolo, e spero come sempre di non dimenticare nulla.

 

Splendido splendente

“Tu trovi che io sia bella, André?”

“Sì”.

Lei tacque un attimo: “Soltanto… sì?”

L’accarezzò con un sorriso: “Che vuol dire ‘soltanto sì’?”

“Be’… - rispose lei guardando il cielo e buttandola sullo scherzo, mentre arrossiva per la seconda volta, quel giorno -. Be’… mi aspettavo almeno un ‘sei splendida’…”

La guardò, e sorrise ancora. Poi ridivenne serio: “Sei splendida”.

Vide i suoi occhi azzurri, e pensò che non gli importava nulla se adesso lo capiva: “Sei tutto lo splendore”, disse.

Il dialogo è nella parte I. La battuta finale: “Sei tutto lo splendore”, contrapposto al semplice “splendida” mi viene dalla lettura di un passaggio del bellissimo e incompiuto “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, libro che ho tenuto sul comodino per anni.

 

Apriti cielo

Tra le fibre dei suoi vestiti era rimasto l’odore del vento, ed ebbe la sensazione che il cielo gli si spalancasse di fronte.

Questo, che è il finale della parte I, è una citazione praticamente ricalcata da un passo del romanzo “L’amore fatale” di Ian McEwan (Einaudi 1997), che ho letto alcuni mesi fa.

 

Pennuti decorativi

Il pavone bianco, ultima rarità che Maria Antonietta aveva voluto aggiungere alla bellezza del suo giardino all’inglese, faceva la ruota solitario accanto al marmo di una fontana.

L’idea del pavone bianco, nella parte II, mi viene da una lettura d’adolescenza: il romanzo sentimentale “La famiglia Kuragin” di Constance Heaven, in cui era descritto un analogo volatile in analoga funzione.

 

Echi da BK’s Night

Fu come se in quel momento potessero dirsi qualsiasi cosa.

“Siete una donna straordinaria”, sussurrò lui, con un tono inatteso, alzandosi e prendendole delicatamente la mano. (Parte III)

La battuta, e la situazione, si ricollegano a una scena simile alla cui stesura avevo assistito: il tentato approccio di Fersen con Oscar in “BK’s Night” di Laura. L’aggettivo “straordinaria” l’ho ripreso pari pari: in modo non del tutto consapevole, devo dire, nel senso che me ne sono accorta più tardi. Ma sono certa che mi venga da lì.

 

Illuminazione d’interni

“Siete meravigliosa, Oscar. E siete cambiata, sapete? Si è come accesa una luce, dentro di voi…”

(…)

 “È vero, Hans, è vero, sapete? Si è accesa una luce, dentro di me. È vero”.

“Oscar…”

“Ma non siete stato voi ad accenderla. Non siete stato voi”. (Parte III).

L’immagine della luce accesa dentro come metafora di una risvegliata e seducente affettività, così come la battuta in risposta “non siete stato voi ad accenderla”, mi viene da un film: una commedia molto carina dal titolo “French kiss” di qualche anno fa, con Meg Ryan e Kevin Kline (dove l’atmosfera era un po’ meno “seriosa” di qui).

 

In Bretagna

“Andremo in Bretagna, André”.

L’idea della Bretagna come luogo d’origine di André e come “terra promessa” in cui iniziare una nuova vita, introdotta nella parte VII, mi viene dalla lettura dei primi due capitoli di “Avel Conlie” di Camille, che destarono in me una notevole impressione: lo spunto mi piacque, e pensai di riprenderlo. Anzi, approfitto per lanciare un appello: Camille, ti prego, continua a raccontare! Muoio dalla voglia di sapere che succede dopo…

 

Nomi e cognomi

Inserisco qui questo paragrafo perché parto da un personaggio che si incontra per la prima volta nella parte VIII, madame de Surgis: ma oltre a lei parlo anche degli altri che ho “battezzato”. Per prima cosa mi autodenuncio rivelando che il nome della “cattiva” della storia l’ho tratto dalla lettura dell’opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”: nel terzo volume, “La parte di Guermantes” compare una madame de Surgis, amante del momento del duca di Guermantes, che, poverina, non ha nel testo originale altre colpe oltre a questa. E’ madre, se non ricordo male, di due giovani affascinanti concupiti dal barone di Charlus, ed è ben lungi dall’essere la perfida intrigante che io ne ho fatto in “Nelle mani” (anche perché non ne ha il tempo, visto che rimane in scena per un paio di pagine, non di più).

Ma visto che ci sono parlo anche degli altri: Savinien Philippe de Jarjayes, il nome che do al generale, mi deriva dalla lettura del romanzo “Il ritorno di Lady Oscar” di Marina Migliavacca. In verità all’inizio non sapevo che il padre di Oscar si chiamasse François (Reynier Augustin), e lo scoprii più tardi grazie a Laura. Ma Savinien Philippe, più “antiquato”, mi parve adatto a rappresentare quest’uomo così attaccato a una vecchia società e ad antichi pregiudizi, e lo preferii.

Anche il nome della governante, Marie, mi viene dal libro della Migliavacca. So che nel cartone e nel manga si chiama Nanny, o addirittura Marron Glacé, ma entrambi non mi sono mai troppo piaciuti (il primo perché non è un nome di persona, il secondo perché è una caricatura), e allora ho optato per questo, che mi è sembrato un po’ più verosimile, anche se non autentico.

Fourier, ex cameriere a Versailles, l’ho preso a orecchio dall’enciclopedia, dove trovai due signori con questo nome, un filosofo e un matematico, più o meno contemporanei, vissuti tra Settecento e Ottocento. Quello di madame d’Argincourt, l’amante che Fersen si ripromette di incontrare poco dopo aver baciato Oscar è, lievemente deformato, il nome di un altro personaggio della Recherche di Proust. Il colonnello Du Bourg, appena nominato, era in origine un magistrato del Cinquecento (altro nome pescato sull’enciclopedia). Fouquart, del dottore che cura André, è semplicemente il cognome di una ragazza che conobbi una ventina d’anni fa in Francia, e che non vidi più. Philippe e Julie, nomi rispettivamente del cugino di André e della cameriera che incontra Alain, li ho scelti solo basandomi sul mio gusto, per come mi suonavano. Un po’ e un po’ per Antoine Boucher, il nome fittizio scelto da André per alloggiare alla locanda: Antoine credo sia un’eco del “Ritorno” di Daniela, Boucher era il cognome di un amico di tanto tempo fa, che non ho più visto da una vita. Ulteriori battesimi non mi pare di averne fatti, e gli altri personaggi, per fortuna loro, un nome ce l’avevano già.

 

La discendenza

“Girodel era anche figlio cadetto, tra l’altro, e ci si poteva concretamente aspettare che accettasse di dare una discendenza alla casata dei Jarjayes. Ne avevano parlato e lui non era stato contrario: la cosa sarebbe stata definita con precisione nel contratto di matrimonio, che avrebbe stabilito ogni cosa punto per punto. E, se Oscar avesse messo al mondo un figlio maschio, quello sarebbe stato finalmente l’erede tanto sospirato del generale”.  (Parte IX)

Funzionale alla storia che stavo scrivendo, questa è un’idea che mi è venuta dalla lettura del manga, in cui si prospetta appunto una situazione simile. Non so, onestamente, se il diritto francese del tempo ammettesse che un marito – figlio cadetto – potesse dare una discendenza al casato della moglie, o se la Ikeda non facesse riferimento piuttosto all’istituto giapponese del “genero adottivo” o a qualcos’altro ancora. Ho preso per buona la versione dell’autrice, che quanto meno costituiva un precedente valido cui riferirsi.

 

 Manzoni…

Sì, insomma, si fa per dire… Però avevo precisamente in testa una frase della Monaca di Monza a Lucia, indice di un ultimo (e inascoltato poi) soprassalto di onestà, quando scrivevo la scena del commiato tra Oscar e suo padre, prima che lei vada via di casa per fuggire con André, non sapendo invece che l’aspetta un tranello.

“Arrivederci, Oscar: noi ci rivedremo presto”, le aveva detto quasi tremando, guardandola come se non volesse lasciarla andare, invece. Come se ci fosse qualcosa ancora che voleva dirle, qualcosa di molto penoso che opprimeva il suo cuore, come se si sentisse in colpa.

Si era congedata, e si era diretta verso l’uscio.

“Senti, Oscar…”, lo aveva sentito chiamare, quasi invocare, all’ultimo momento.

“Dite, padre”, aveva risposto voltandosi.

Ma lui non aveva continuato. “Niente - aveva detto -, niente… Ci vedremo al tuo ritorno, allora…”

(Parte XI)

Ed ecco la scena dei “Promessi sposi”, che vado a ripescare: si tratta del punto in cui Gertrude invia con un pretesto Lucia fuori del convento, in modo che possa essere rapita dai bravi dell’Innominato.

“(…) Lucia, sbalordita più che convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: “e bene; anderò. Dio m’aiuti!” E si mosse.

Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l’occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: “sentite, Lucia!”

Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: “fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto”. Lucia partì”.

(Cap. XX)

 

La lettera

Quello delle lettere falsificate è un ingrediente tipico del romanzo di genere cui mi riferivo. Riecheggia inoltre il romanzo epistolare del Settecento e trova appigli di legittimità in diverse situazioni dell’anime, in cui a più riprese una malvagia donna (Du Barry, Jeanne de la Motte) fa falsificare uno scritto per fini criminali.

 

E.R.

“La ferita è grave, ha perso molto sangue. E poi sono le sue condizioni generali che mi preoccupano: ha lesioni dappertutto”.

Frasi di medico in fase di diagnosi. Quasi superfluo dirlo, ma è un “cocktail” di due frasi del cartone: la prima riferita ad André ferito al petto e ormai prossimo a morire (sigh…), la seconda pronunciata dal dottore di Oscar dopo che l’ha visitata e le ha scoperto la tisi.

 

L’Innominata

“quando le aveva detto che avrebbe chiamato suo padre, che avrebbe avvertito qualcuno, lei era tornata per un attimo in sé, supplicando “No!” con tutta la disperazione che aveva in corpo. “No, mio padre no… no…”

“Vostra madre, allora – aveva detto lui -. Farò chiamare lei, da Versailles, perché venga qui…”

“Madre?”, aveva quasi gridato Oscar, piangendo, con un sarcasmo straziato nella voce. “Madre? Quale madre? Io non ho madre, non l’ho mai avuta….”

(parte XII)

C’è un personaggio, in “Nelle mani”, che ho volutamente tralasciato, ed è la madre di Oscar. E’ una figura che non mi ha mai convinto, né nel manga, dove ha uno sviluppo maggiore, né nell’anime. Mi sono spesso chiesta il perché di questo disagio che provavo.

Il fatto è che in una storia come quella di Oscar, donna educata da uomo e costretta a rinnegare la sua natura, la figura materna dovrebbe essere in teoria un punto di riferimento importantissimo: sia perché una madre accanto avrebbe probabilmente aiutato Oscar ad acquisire maggiore consapevolezza di se stessa e sarebbe stata per lei un appoggio prezioso nel rapporto col padre, sia perché Oscar stessa, rapportandosi ad una madre presente, avrebbe avuto in qualche modo, nel bene e nel male, un modello femminile cui rifarsi nella crescita. Ma sia la Ikeda che i registi dell’anime lasciano a madame de Jarjayes un ruolo assai marginale nell’opera. Perché?

Il motivo credo sia lo stesso che ha spinto me a fare altrettanto, e cioè che – proprio a causa del ruolo che avrebbe potuto avere nel rendere meno lacerante per Oscar il suo cammino verso la femminilità – la madre sia stata volutamente messa da parte, “confinata” a Versailles per volere del generale e comunque allontanata da una figlia che suo padre aveva voluto allevare come un maschio. La madre non può avere un ruolo determinante nella vicenda di Oscar, perché è proprio l’assenza di una madre la ragione della sua enorme fatica a costruirsi un’identità sessuale consapevole, identità cui perviene molto più tardi grazie al rapporto con André.

Quando ero una studentessa di liceo, il mio professore d’italiano si divertiva a dire – ma non scherzava in realtà – che il vero Innominato dei “Promessi sposi” è il padre di Lucia, e che questo personaggio era stato volutamente messo in ombra dal Manzoni perché la figura di “padre” spirituale e guida morale per la giovane potesse essere assunta da fra Cristoforo.

Io credo che non sia tanto diversa la situazione di Oscar: per lo meno nel mio racconto è così. La vera Innominata di “Nelle mani” è la madre di Oscar, perché la figura di riferimento per lei nella sua maturazione – in un contesto dove il modello dominante è costituito da un padre che più severo, rigido e maschile non si può – doveva essere un’altra. Per prima cosa André, che certo non le fa da madre, ma diventa per lei il centro di ogni affetto: amico, fratello, confidente, uomo da amare in rapporto al quale lei non può che assumere un ruolo di donna, e che anche per questo motivo è tanto importante nella sua vita (e penso anche a quello che nel VI libro dell’Iliade Andromaca rimasta sola al mondo dice allo sposo Ettore: “Tu sei per me padre e veneranda madre, fratello e sposo fiorente”). In seconda battuta la nonna, dolce figura femminile che può costituire un sostegno affettivo per Oscar, ma non abbastanza vicina, per età, condizione sociale e ruolo, da essere per lei un punto di riferimento problematico. Che la mancanza della madre sia avvertita con dolore da Oscar ho voluto sottolinearlo proprio nel passaggio: “Madre?”, aveva quasi gridato Oscar, piangendo, con un sarcasmo straziato nella voce. “Madre? Quale madre? Io non ho madre, non l’ho mai avuta….” E deliberatamente non ho più ripreso l’argomento, perché volevo porlo come problema e lasciarlo come nodo irrisolto.

 

Un richiamo

“…ma poi aveva visto il volto di Oscar, aveva letto nei suoi occhi: e lo sgomento, la disperazione quieta che vi aveva trovato lo avevano raggelato” (parte XII)

Quando l’ho scritto pensavo al “Congedo del viaggiatore cerimonioso” di Giorgio Caproni:  Di questo sono certo: io/ sono giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento”

 

Fratello Alain

Nel senso di frate. Il dialogo che segue, tratto dalla scena con George Fourier, mi è stato suggerito da uno scambio epistolare di qualche tempo prima con un’amica. Concordavamo sul fatto che anche come prete Alain sarebbe riuscito bene. Io sostenevo che avrebbe salvato un sacco di anime. Tranne la sua, ovviamente.

“Può darsi”, rispose Alain riempiendo un bicchiere e costringendolo ad accettare. Poi tirò fuori dalla tasca due monete e le mise sul tavolo: “Queste sono per voi – disse -, ma comprateci del pane, è meglio”.

George Fourier rise di gusto, allora: “Che succede, Alain? Hai lasciato l’uniforme e stai pensando di farti prete?”

Allora fu Alain a ridere: “Non credo che mi prenderebbero”, rispose con un’espressione scettica.

“Perché no? Anzi, ora che mi ci fai pensare, ti ci vedo proprio a salvare anime e aiutare il prossimo, lo sai?”

(Parte XIII)

 

Pensieri… d’amore

"Oscar..." Inarcò la schiena, stringendo tra le dita nervose la stoffa del lenzuolo. "Oscar..." Soffocò un grido rabbioso nel candore del cuscino. "Io... ti amo..." Era disperato. "Non posso..." Si girò, abbandonandosi, vinto, contro il materasso, le braccia lungo i fianchi, i capelli, lunghi, sparsi. Pensava a lei. Non riusciva ad odiarla… no, non era vero che la odiava. Non ci riusciva, nonostante quel pensiero fisso di lei con Fersen… a letto con lui... No. No. Non poteva essere... O sì... Che importava... che importava... lei non c'era, non era più sua.

Si passò una mano sulla fronte.

La scena è nella parte XVI, e si tratta di un momento piuttosto “caldo”: André solo nella stanza della locanda in cui si era ubriacato la notte prima, mentre pensa (e non pensa soltanto…) ai suoi incontri appassionati con Oscar. Tutta la parte che ho riportato, ritoccata da me in minima parte, è stata scritta da Laura: io avevo inserito una conclusione molto più dura, in cui André, immaginando Oscar con Fersen, esprimeva un severo e rabbioso giudizio morale su di lei. La proposta di Laura introduce dunque non solo un cambiamento formale, ma anche un aggiustamento di rotta, perché in questa versione, per la quale ho poi optato, nonostante il dolore per il presunto tradimento, André si rende conto che non riesce a odiarla, a disprezzarla.

 

Davvero in Bretagna

Le onde che si abbattevano sulla costa non riuscivano a mitigare la pienezza di quel verde che il mare donava alla terra annullandosi in lei. Un verde smeraldo incredibile e intenso, morbido come una carezza che lambiva le rive, e alzando gli occhi le nuvole soffici a stagliarsi sul cielo azzurro, limpido di quel sole come in un giorno d’estate. Tempestoso e gentile, com’era André, che era nato lì (…). Anche nei giorni di temporale, quando gli stessi paesaggi mutavano col mutare del tempo, e quel verde diventava un grigio plumbeo, che si confondeva col cielo, con la pioggia. (…) come i bastioni battuti dall'acqua, gli scogli che si perdevano nel mare, quelle coste che sfumavano in una carezza nella curva dolce e ignota dell’orizzonte. (…)Le avevano raccontato che, durante l’autunno, il paesaggio che portava a quel mare era meraviglioso, con gli alberi ancora carichi di foglie, e colori che dal verde volgevano al giallo, al marrone, al rosso di mille sfumature e toni. Da non riuscire a dire, con le parole”.

(Parte XVI)

Non sono mai stata in Bretagna, e non ho visto sue fotografie. Non le ho volute vedere, prima di descrivere questi luoghi. Perché la descrizione di questi luoghi è qualcosa che nasce dall’immaginazione e dal sentimento, nell’interpretare le parole di un’amica i cui occhi li hanno visti per me. Non ho voluto che la mia visione si sovrapponesse alla sua, perché quello che mi aveva descritto lei era talmente bello e toccante che volevo conservarlo intatto dentro, e volevo che fossero quelle immagini, come un dipinto, a restare sulla pagina, filtrate dal cuore e non dallo sguardo con cui potevo incontrarle. Queste luci e questi colori sono nei paesaggi che mi ha raccontato Laura, e, nel legarle ai pensieri di Oscar con parole mie, ho usato tante delle sue parole. C’è una sua lettera, in questo passo, che è anche un ricordo molto bello e molto intenso: per me, e credo anche per lei.

 

Oscar in Grecia

“Se ti fidi delle apparenze… A me questo tizio tutto riccioli, che pare tirato a lucido per un ballo, non mi dà proprio fiducia, invece. Ne preferivo uno con le gambe storte, ma con due palle così”. (Parte XVII)

Qui sono stata un po’ sfacciata, lo ammetto, ma tra i commenti dei soldati della Guardia sul nuovo comandante, ho deliberatamente inserito una citazione da una celebre lirica di Archiloco, poeta e soldato vissuto in Grecia nel VII sec. a.C.. “Non mi piace un comandante alto e tronfio nel camminare, vanitoso per i suoi riccioli e senza un filo di barba: a me ne va bene uno piccolo e con le gambe storte, ma ben piantato sui piedi, e pieno di cuore”.

La mia “rivisitazione” è un po’ più “prosaica”, sì…

 

Al sicuro

“Ti porto via con la forza, anche se ti ribelli. Vorresti fermarli, ma non puoi fermarli, amore. Nel portone  di quella casa, sì. Entriamo, presto. Non parlare, Oscar, non gridare, zitta…

Chiudo la porta appena in tempo. I soldati passano al galoppo. Urla, spari.

È buio”. (Parte XVIII)

La scena in cui André porta via Oscar dalla strada dove i soldati stanno disperdendo una riunione di cittadini, e la nasconde al sicuro dentro un portone, al buio, mi è stata ispirata dalla visione del film di Jacques Demy, in cui è rappresentata una situazione analoga, sebbene in diverso contesto e non con gli sviluppi che ha nel mio racconto.

 

Versi del Capitano per Oscar

Alla fine della parte XIX ho citato un brano poetico di Pablo Neruda, tratto da “I versi del capitano”. S’intitola “Ode e germinazioni”, e quella che ho riportato è la III di VI strofe lunghe. Avrei voluto citarle tutte, perché tutte lo meritano. E anche le altre liriche sono meravigliose: è bellissimo poterle leggere avendo di fronte l’originale in spagnolo, che l’edizione che ho usato (Pablo Neruda, Ode e germinazioni, III, da I versi del Capitano, a cura di G. Bellini, Passigli, Firenze 1995) riporta. Non cercherò di spiegare il testo, né di spiegare perché ho voluto inserirlo qui. Posso solo umilmente suggerire a chi ama la poesia d’amore di leggere questo libro, perché non se ne pentirà.

 

Far fuggire la regina?

Quella di un ipotizzato progetto in extremis per sottrarre Maria Antonietta al patibolo è un’idea che mi viene dalla lettura delle biografie della sovrana: una trasposizione di fantasia che si ricollega all’esistenza di un piano, che risulta documentato, progettato dal vero generale Jarjayes in altro momento, e che la regina rifiutò perché metteva a repentaglio la vita dei suoi figli.

Non posso dire con certezza se Oscar, dopo la scelta rivoluzionaria, avrebbe davvero potuto elaborare un progetto simile: inizialmente, nel romanzo, avevo deciso per questa opzione, ma mi era rimasta la perplessità dentro. Sarebbe stata una situazione lacerante. Da una parte credo che Oscar – al di là dell’amicizia per Maria Antonietta -, se fosse sopravvissuta al 14 luglio e avesse conosciuto il Terrore, si sarebbe ribellata contro gli eccessi che la Rivoluzione aveva portato con sé: che non avrebbe potuto – lei che conosceva così a fondo, nel bene e nel male, quel mondo, e che si trovava ad agirvi concretamente – accettare di assistere passivamente agli orrori che si verificavano, nonostante le grandi conquiste di civiltà della Rivoluzione. Credo che avrebbe potuto condividere la riflessione di Sébastien Châteillon (1515-1563), il quale scrisse che: “Uccidere un uomo non equivale a difendere una dottrina: è semplicemente uccidere un uomo”. Dall’altra pensavo, e confrontarmi con l’opinione di Laura mi ha rafforzato in quest’idea, che un passo di questa portata fosse troppo in contraddizione con la decisione così radicale di schierarsi con la Rivoluzione. Per questo, alla fine, ho deciso di non “attuare il piano”, e lasciarlo appunto sul piano delle ipotesi.

 

Lo sguardo alla finestra

“Lui alzò gli occhi verso la finestra, come faceva da sempre, istintivamente, per cercarla, e i loro sguardi s’incontrarono silenziosi” (Parte XX).

Non è per caso che ho collocato nell’ultimo capitolo del romanzo questa frase: la storia inizia nello stesso modo, con André che torna a casa da solo e nel capitolo I guarda istintivamente verso la finestra di Oscar, soffrendo perché lei non lo ama, e certo non lo aspetta. Alla fine, invece, quel suo sguardo trova una risposta negli occhi di Oscar, che lo attende. E’ la ripresa, in una sorta di andamento circolare, della stessa situazione, che risulta analoga ma totalmente mutata.

 

La scrittura e la vita

“(…) tutte le volte che si pretende di raccontare il passato lo si interpreta, in realtà, e non si può fare a meno di selezionare le vicende a seconda della spiegazione che se ne è data, di ordinarle secondo una prospettiva in cui acquistano un senso che non necessariamente, poi, è quello vero”.

Sono profondamente convinta della verità di questa considerazione, che traggo, rielaborandola in modo personale, da Italo Calvino, il quale ritiene che ogni volta che si scrive qualcosa che riguarda il passato in realtà lo si interpreta, e raccontando ciò che si è vissuto lo si riscrive, cancellando ciò che è stato davvero e lasciando sulle sue ceneri la spiegazione che se ne è data. L’autore lo afferma in una importantissima nota conclusiva al suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”.

 

Il passato del saggio

“(…) voltarci indietro col distacco sereno di chi non ha paura di ciò che è stato, perché lo ha compreso nel suo cuore e ne ha ormai un possesso solido e sicuro”.

È una riflessione di Seneca, presente in molte delle sue opere e in particolare nello straordinario De brevitate vitae, quella secondo cui il passato è per il saggio un possesso solido e sicuro, perché lo ha ben vissuto e ne ha compreso a fondo il significato. Egli esorta l’uomo a usare bene il tempo che la vita gli ha dato in sorte, perché se ciò avverrà la sua vita non sarà breve ma lunghissima, “qualunque sia la sua durata, perché è stata tutta per lui”. Gli sarà appartenuta davvero.

 

La parola che squadri

“Ma non è mai caduta davanti ai nostri occhi la formula che desse conto di ogni particolare, che mettesse a posto ogni dolore sofferto, ogni affetto perduto, ogni capitolo chiuso, ogni ferita ricevuta e inferta che resta sulla pelle come una cicatrice da portare, fino alla fine”.

Un riferimento velato a Montale, “Non chiederci la parola”.

 

All you need is love

È in pratica ciò che Oscar scrive nel finale del romanzo. Titoletto scherzoso, perché è giusta un po’ d’autoironia quando si sostiene un principio come questo, che è un po’ abusato e per tal motivo, in superficie, non dà l’impressione di essere così originale. Certo, dipende da come lo si intende, e da come realmente indirizza la nostra vita la convinzione che l’amore sia l’unica cosa veramente importante. Io lo credo, ma non spiegherò in che modo lo credo, perché queste non sono cose che si possano spiegare, e sarebbe poco rispettoso del mondo interiore di chi legge mettersi a pontificare su concetti come questi. Ognuno nella vita dà la sua risposta, si dà la sua risposta. Questo è solo un racconto.

 

Grazie

 

Ho finito. Mi resta un’ultima cosa da fare, ed è ringraziare chi mi è stato vicino in questi mesi. È stato importantissimo per me: chi scrive sa quanto lo sia, anche se lo scrivere nasce da un’esigenza interiore. Poter condividere ciò che si prova è meraviglioso quanto provarlo.

Grazie a Laura, allora, prima di tutto. Per la sua attenzione, il suo appoggio, la sua vicinanza non solo nella stesura del racconto ma anche nelle fasi della vita che l’hanno accompagnata. La sua amicizia. Il suo apprezzamento, i suoi commenti bellissimi e gratificanti e ancor più la sua apertura nel confrontarsi e nel discutere francamente su ciò che non la convinceva, nell’accogliere le mie esigenze di autrice con la disponibilità di comprendere, ma anche con l’onestà di dire sempre ciò che pensava. Ho sempre cercato di fare altrettanto con lei. Sono stati scambi intensi, e non vorrei non averli avuti. Grazie anche per il disegno stupendo con cui ha impreziosito la mia storia, e per aver trovato il tempo di farlo nonostante tutti i suoi impegni, e perché disegna sulle mie storie solo quando ne ha voglia, che è una cosa che amo.

 

Grazie ai lettori che mi hanno scritto e a quelli che mi hanno letto: l’esistenza di uno soltanto di loro sarebbe stato un motivo valido per pubblicare “Nelle mani”. Grazie a chi ha apprezzato il mio racconto e a chi non l’ha apprezzato, perché si può definire se stessi in rapporto ma anche in contrasto con qualcosa che si è letto.

 

Tutto qui. A questo punto sono certa di avervi annoiato, ma spero di avervi anche divertito un po’.

 

23 marzo 2003

 

Alessandra

 

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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