Nelle mani
parte XI
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“Comandante,
quando volete noi siamo pronti”.
L’alba
era alle prime luci, e il soldato aveva appena bussato. Oscar attendeva nel suo
ufficio, in uniforme, rivolta verso la finestra a guardare il sole che sorgeva.
Si girò: “Bene – rispose infilando i guanti bianchi -. Scendo subito”.
Il
giorno tanto atteso era arrivato, finalmente: quel giorno il reggimento sarebbe
partito in missione, e lei con esso. Giusto il tempo di arrivare a destinazione,
poi con una scusa sarebbe tornata a Parigi da sola, e lì avrebbe incontrato
André.
Era
arrivato il momento.
Oscar
era uscita di casa che era ancora buio, quel mattino. E con sua sorpresa aveva
trovato il padre già sveglio, che l’aspettava per salutarla. Le era sembrato
di leggere sul suo viso un’espressione angustiata, ma si era sforzata di
mantenere un contegno freddo e impassibile. Era troppo importante, quel giorno,
e non poteva sbagliare.
Eppure,
prima di congedarsi da lui, la sua voce aveva tremato.
Da
molto tempo non nutriva più per suo padre gli stessi sentimenti d’affetto che
aveva quando era bambina. Aveva troppo sofferto a causa delle decisioni che
aveva preso, del suo continuo trattarla come se fosse davvero un uomo, del suo
usare per lei aggettivi declinati al maschile. Per anni aveva rifiutato se
stessa per essere all’altezza di ciò che suo padre le chiedeva, e per anni si
era sentita inadeguata e incapace di riuscirvi. No, non lo amava più come
allora, e da molto prima di legarsi ad André.
Poi
c’era stato André, e l’oceano di sentimenti che le aveva scatenato dentro.
E la gioia, gli sguardi pieni di lui, la felicità che le aveva dato riconoscere
la propria natura.
Il
dolore di doverlo vedere di nascosto, di dovergli stare lontana, a causa di suo
padre.
Da
molto tempo non gli voleva più bene come da bambina. Eppure in quel momento,
prima di salutarlo per sempre, le erano venute le lacrime agli occhi.
“Addio,
padre”, aveva mormorato, il viso nascosto dalla penombra.
“Oscar…
perché mi saluti come se non dovessimo vederci più?”
Lei
non aveva risposto: e in silenzio, con il cuore sgomento, aveva ricevuto
l’abbraccio con cui inaspettatamente l’aveva stretta. Non ricordava più da
quanto suo padre non l’abbracciava, forse non era mai successo.
“Arrivederci,
Oscar: noi ci rivedremo presto”, le aveva detto quasi tremando, guardandola
come se non volesse lasciarla andare, invece. Come se ci fosse qualcosa ancora
che voleva dirle, qualcosa di molto penoso che opprimeva il suo cuore, come se
si sentisse in colpa.
Si
era congedata, e si era diretta verso l’uscio.
“Senti,
Oscar…”, lo aveva sentito chiamare, quasi invocare, all’ultimo momento.
“Dite,
padre”, aveva risposto voltandosi.
Ma
lui non aveva continuato. “Niente - aveva detto -, niente… Ci vedremo al tuo
ritorno, allora…”
Era
un’alba invernale che odorava di neve, con un cielo senza colore. Nelle
scuderie aveva sperato di trovare André, che le preparasse il cavallo, ma non
era accaduto. Erano giorni che non potevano nemmeno parlarsi, che la sua
mancanza la faceva star male, se pensava a quella notte in cucina col suo
respiro all’improvviso addosso, e rileggeva quella lettera che non aveva
gettato subito, come tutte le altre, perché davvero quelle righe avevano avuto
il potere di scaldarla e tenere il posto di lui, come le aveva detto.
Era
riuscito a passarle solo un biglietto, in quegli ultimi giorni, un biglietto con
delle indicazioni precise su quello che doveva fare, col nome della locanda di
Parigi dove doveva recarsi, con il cognome fittizio che lui avrebbe usato, per
alloggiare lì. Le aveva stretto le mani per un attimo intenso, eppure sul suo
viso era passata quasi un’ombra triste, mentre lo faceva. Perché? Cosa aveva
pensato mentre le teneva le mani? Perché non poteva chiederglielo, perché
doveva preoccuparsi così per ogni sguardo che aveva velato i suoi occhi, e
passare notti a interrogarsi sul motivo per cui l’aveva avuto? Perché non
potevano avere un rapporto normale, essere liberi di volersi bene, davanti a
tutti?
Ma
basta, era finita, ormai: sarebbe cambiato tutto, finalmente, per sempre. Era la
sua tristezza, il suo bisogno di lui a farle vedere certe cose, e aveva ragione
André a ricordarle che quello era il momento di essere felici, non di piangere
come faceva lei.
Sarebbero
partiti insieme per la Bretagna, dopodomani.
Quelle
ore che la separavano dal momento del loro incontro le pesarono terribilmente.
Per fortuna c’era tanto da fare, e il dovere la distrasse dall’ansia che
cresceva ogni minuto di più. Il viaggio fu lungo e faticoso, con mille
imprevisti da risolvere. Ci volle tutta la sua presenza di spirito, tutta la sua
iniziativa per far andare le cose come dovevano andare e portare la truppa a
destinazione secondo i piani stabiliti. Il generale che dirigeva la missione si
complimentò con lei, come avveniva sempre, del resto, e la invitò a bere
insieme agli altri comandanti nel quartiere degli ufficiali. Ma Oscar declinò
gentilmente, e disse che andava a riposare. Era davvero stanca, e appena si
tolse gli stivali e si mise a letto si addormentò di colpo.
Due
giorni dopo, i pochi bagagli già pronti nella sua stanza, si presentò a
rapporto. Il cuore le batteva nel petto al pensiero che era l’ultimo ostacolo,
quello, prima di André. Disse che col corriere del mattino aveva ricevuto un
messaggio urgente da casa, e che veniva richiesta al più presto la sua
presenza.
Non
era una missione di grande importanza, quella cui stava partecipando, e il
comandante in capo non fece difficoltà. Oscar lasciò il comando a Girodel,
prese il cavallo e partì.
*
La
strada che la separava da Parigi la bruciò in mezza giornata, galoppando nel
freddo pungente col cuore in tumulto. Il mantello svolazzava alle sue spalle
agitato dal vento, i capelli le sfioravano le labbra e lei incitava il cavallo,
sorridendo tra le lacrime che rigavano il suo viso. Era il vento negli occhi, ed
era l’agitazione, la gioia.
Il
tempo passava, e ne avvertiva lo scorrere come dentro l’anima.
Arrivò
a Parigi che era ancora giorno, e, allentando appena l’andatura, percorse
senza incertezze le strade che conosceva. Quella locanda era in una zona
defilata, distante dalle vie principali. Tante volte con André erano stati a
bere là, trascorrendo una serata insieme: per questo lui l’aveva scelta,
voleva essere sicuro che la trovasse senza difficoltà.
Scese,
e affidò il cavallo esausto al ragazzo delle scuderie. Si presentò con il nome
falso che avevano concordato, un nome maschile, e chiese dove alloggiasse
monsieur Antoine Boucher.
“La
stanza di sopra, prego”, le rispose l’oste come previsto. E, secondo quanto
gli era stato espressamente chiesto da André, la accompagnò.
Le
lasciò le chiavi, dopo averla fatta entrare. “Qualunque cosa desideriate,
sono a vostra disposizione”, disse.
La
camera era vuota, e appena entrati c’era un camino col fuoco acceso e un
tavolo con due sedie vicino a una finestra.
“Ma…
e monsieur Boucher?”, chiese Oscar stupita.
“Oh…
è dovuto uscire mezz’ora fa, ma ha detto che tornava subito. Credo stesse
prendendo accordi con qualcuno per una carrozza. Mi ha assicurato che sarebbe
stato qui entro breve tempo e si è raccomandato più volte di farvi accomodare,
di farvi aspettare qui nel caso foste arrivato durante la sua assenza”.
“Bene…
allora… lo attenderò qui…”
Rimase
sola, con un po’ di delusione in cuore. Sperava di abbracciare André subito:
per tutto il viaggio aveva immaginato quel momento, e le braccia di lui ad
accoglierla, il suo sorriso ansioso e stupito nel vederla comparire alla porta.
Invece
non c’era nessuno, in quella stanza. Andò davanti al camino per scaldarsi le
mani, e aggiunse legna al fuoco. Si guardò intorno: poco più in là c’era un
letto risistemato alla meglio. Sorrise: certo lui aveva dormito lì, ieri notte.
Si
tolse il mantello, e andò verso quel letto. Sfiorò il cuscino con le dita,
cercò sul giaciglio l’impronta del suo corpo.
Sulla
coperta erano rimasti i suoi guanti. Certo li aveva dimenticati uscendo, avrebbe
avuto freddo.
Ma
nella stanza non c’erano i suoi bagagli: probabilmente li aveva fatti caricare
direttamente sulla carrozza per fare prima l’indomani.
Si
rilassò e si sgranchì. La locanda era abbastanza confortevole, e decise di
farsi un bagno. Chiamò per l’acqua calda e, quando gliel’ebbero portata,
chiuse la porta a chiave e si tolse i vestiti, immergendosi nella vasca fumante,
davanti al fuoco.
Sì,
André sarebbe arrivato presto, e lei lo avrebbe aspettato così. Gli avrebbe
aperto, sentendolo bussare, e gli si sarebbe gettata tra le braccia con addosso
solo un asciugamano. L’avrebbe stretta, l’avrebbe baciata subito, ne era
sicura, avrebbe accarezzato il suo corpo e si sarebbe eccitato alle sue carezze.
L’avrebbe portata a letto senza parlare, e senza smettere mai di baciarla
avrebbe fatto l’amore con lei, come da troppo tempo non accadeva più. Lo
avrebbero fatto tutta la notte, con la porta chiusa a chiave, e poi avrebbero
dormito abbracciati. La mattina dopo sarebbero fuggiti insieme.
Invece
passò ancora altro tempo, e dovette uscire dal bagno, e vestirsi. Si mise dei
vestiti puliti, mentre la stanza si faceva buia, e sedette davanti al fuoco con
il cuore sempre più inquieto. Poi si alzò, a guardare dal vetro della
finestra, osservando la gente che passava nella strada, le carrozze.
Si
agitava ogni minuto di più. Perché André non arrivava ancora? Perché era
diventata sera senza che arrivasse? Quanto tempo serviva per prendere una
carrozza? E perché non le aveva lasciato un biglietto, se sapeva di metterci
tanto?
Cosa
gli era accaduto? Dov’era? Come poteva lei cercarlo, chiedere di lui? Non
poteva certo tornare a casa, per vedere se era lì.
E
se quella notte non fosse venuto? Avrebbe dovuto passarla da sola in quella
locanda? No, André non aveva detto questo, quando preparavano il piano per quel
giorno.
Si
sforzò di mantenere la calma, facendo appello a tutto il suo carattere. Era
solo uno sciocco contrattempo, si ripeté: lui sarebbe arrivato presto, e
l’avrebbe presa tra le braccia.
Sì,
sarebbe arrivato presto.
Ma
passò un’altra ora, e André non veniva.
Non
sapeva più cosa pensare, il suo cuore era ormai invaso dall’ansia e dallo
sgomento.
Poi
sentì all’improvviso un rumore, un fruscio sotto la porta. Si alzò
immediatamente, con la candela in mano, dirigendosi là. Sotto l’uscio c’era
una busta, una busta chiusa. La raccolse, la guardò voltandola da entrambi i
lati. C’era il suo nome sopra.
Aprì
subito la porta, si affacciò sulle scale, scese fino al piano di sotto. Ma non
c’era nessuno. Andò in strada, con quella lettera in mano. Fece qualche
passo, ma non sapeva in che direzione cercare. Non c’era nessuno che fuggisse,
nessuno di sospetto… non poteva riconoscerlo, comunque. Allora tornò dentro,
e chiese all’oste se avesse visto persone passare. Ma la risposta fu cortese e
negativa. Col cuore in gola, di corsa, salì le scale e tornò nella sua camera.
Aprì quel plico strappando la busta, piena di timore.
Lesse. Era un messaggio scritto su un foglio, lo riempiva tutto.
La
scrittura le tremò davanti agli occhi, mentre leggeva. Una volta, due, tre. Poi
non riuscì più a leggere, perché le lacrime le impedirono di vedere. Cadde a
terra in ginocchio, annientata, con quel foglio in mano.
***
Il
generale Jarjayes era chiuso nel suo studio, seduto alla scrivania. Teneva la
testa tra le mani.
Non
aveva cenato, quella sera: aveva un peso che gli chiudeva lo stomaco. Erano due
giorni che non gli dava tregua.
Ma
ormai era tardi, aveva fatto una scelta. E non poteva tornare indietro.
Ripensò
a quel colloquio con madame de Surgis, a quello che gli aveva detto. A cosa
aveva risposto lui, con quella lettera di André davanti agli occhi e il cuore
pieno d’odio.
“Voi
credete che vostra figlia riconosca la sua scrittura?”
Questo
gli aveva chiesto. Proprio questo.
“Immagino
certamente di sì”, aveva detto lui.
“Lo
penso anch’io. E pensate che crederebbe a una lettera con la sua scrittura nel
caso vi ritrovasse espressioni che erano presenti in altre lettere ricevute da
lui?”
Allora
aveva avuto un brivido: “Vorreste…”
“Ho
un segretario privato fidatissimo, generale, che è in grado di contraffare
abilmente qualunque calligrafia. Non sarà difficile, abbiamo l’originale. E
possiamo riprodurne anche i toni: salvo che, ahimè, nella prossima lettera ci
saranno brutte notizie per Oscar”.
Lui
aveva corrugato la fronte.
E
madame de Surgis aveva reagito con un sospiro: “Lo so, è una cosa sleale, e
lei ne soffrirà. Del resto, a mali estremi, estremi rimedi: lo sapete, no? E’
per il suo bene: preferite che soffra un poco o che muoia? Parlavate di
ucciderla, poco fa: quello vi sembra meglio? Oppure lascerete che fugga? Non la
vedrete più, sapendola chissà dove insieme a un servo?”
“Ci
vorrà un po’ certo – aveva aggiunto -, ma alla fine vostra figlia si
riprenderà. Senza abbandonare la vostra casa”.
Si
era alzata: “Ma non c’è tempo da perdere: io porterò via questo foglio e
ve lo rimanderò stasera stessa per mezzo di un corriere di mia fiducia. Voi
dovrete solo preoccuparvi di rimetterlo esattamente nel luogo in cui l’avete
trovato, in modo che Oscar non si accorga di nulla”.
Il
generale era rimasto esterrefatto: “E poi? E lui…”
“Be’…
lui bisognerà… trattenerlo altrove. Ma se è così ostinato temo che si dovrà
essere… convincenti. Posso vedere di occuparmene io, se volete: ma vi avverto
che quando si assoldano dei professionisti per lavori come questo non si può
esser certi che l’interessato ne esca… incolume… Capite cosa voglio
dire?”
“Oh,
di lui non m’importa niente – aveva risposto con stizza -. Potete farne quel
che volete. Ma Oscar…”
“Oscar
non ne saprà nulla, e non le verrà torto un capello, naturalmente. Ma voi non
dovrete mai parlarle dell’accaduto: dovrete far mostra di essere all’oscuro
di tutto, sia adesso che, soprattutto, dopo. Altrimenti sarà la fine”.
Madame
de Surgis si era fermata, e l’aveva fissato aspettando che rispondesse. Egli
aveva esitato.
“Non
lo so, contessa…”
Lei
gli aveva posato una mano sul braccio, piena di comprensione: “Vi capisco,
generale. Voi siete una persona retta, ed è una risoluzione difficile, questa.
Non voglio assolutamente fare pressione su di voi: il mio era solo l’estremo
rimedio proposto da un’amica che ha a cuore la vostra casa e la vostra serenità.
Ma comprenderò qualunque cosa decidiate: potete contare sul mio assoluto
riserbo”.
“Del
resto – aveva concluso -, voi vi trovate in questa situazione penosa, adesso,
a causa della slealtà che altri hanno avuto nei vostri confronti”.
“Ebbene,
sia”.
Ricordava
di aver alzato il capo e fissato la contessa con un’improvvisa determinazione:
“Sia, faremo in questo modo. Ma non voglio sentir parlare mai più di André
Grandier”.
***
So
che non potrai perdonarmi, Oscar, e non ti chiedo di farlo.
So
che quello che sto per dirti ti darà un profondo dolore, ti sembrerà
incredibile. E non ho parole, non riesco a trovarle, per spiegarti.
Forse
avrei dovuto deciderlo molto prima. Avrei dovuto impedire che le cose
arrivassero a questo punto. Ma non ho potuto, perché è troppo il bene che ti
voglio, perché per troppo tempo ho coltivato la speranza che davvero ci fosse
un futuro per noi.
Per
molto tempo, come quella notte di pochi giorni fa, che ti ho trovato
all’improvviso accanto a me, che ti ho sfiorato e ti ho tenuto tra le braccia
di nascosto da tutti, che ti ho amato dopo aver sofferto perché ti perdevo,
perché non riuscivo più nemmeno a parlare con te.
Mi
sono illuso, ho chiuso gli occhi davanti alla realtà: ho rifiutato l’evidenza
di fatti che apparivano chiaramente ai miei occhi, invece, ogni volta che mi
ritrovavo solo, a passare le giornate lontano da te, a fare una vita così
diversa dalla tua. A guardarti mentre ti muovevi nel tuo mondo, nella tua casa,
nel tuo ruolo che era così chiaramente tuo, e da cui io sognavo di portarti
via.
Non
è possibile, Oscar, io ti amo ma non è possibile. E’ troppa la distanza che
ci separa, sono troppo forti le catene che ci legano. Sono troppi gli affetti
che devo costringerti a troncare per restare con me. E ho paura.
Ho
paura che il nostro amore non basti a superare tutto. Ho paura che tu non possa
abituarti alla vita che dovresti fare con me, e che ti venga il rimpianto di ciò
che eri, e che non me lo dica, per non farmi soffrire. Ho paura che non sia
giusto chiederti quello che ti chiedo.
Sono
troppi i valori, le regole in cui sei cresciuta, in cui sono cresciuto
anch’io, che devo spingerti a violare. Così tanti che temo che non saremmo più
noi, se lo facessimo, e che il peso di questa colpa ci impedirebbe di essere
felici, per il resto dei nostri giorni.
Io
ti ho amato per i tuoi valori, per la tua lealtà. E ti ho trasformato in
qualcuno capace di rinnegare quei valori. Qualcuno che rischia di non essere più
la stessa persona. E’ anche di questo che mi sento in colpa, è questo che mi
fa star male, se penso a tutto quello che tu mi hai dato e a quanto poco,
invece, io sia stato capace di ricambiarti.
Amare
me ti ha fatto solo soffrire, ti ha fatto piangere. E ti farà piangere ancora,
quando sarai lontana dalla tua casa e capirai che non puoi tornare più
indietro, e che tutti i sogni che abbiamo fatto insieme non basteranno a
riempire una realtà senza orizzonti e senza prospettive, in cui non potrai più
essere quella che eri un tempo. E alla fine mi odieresti, lo so.
Penserai
che sono un vigliacco, che ti ho mentito con crudeltà E non ti biasimo, Oscar:
pensalo pure. Forse è vero, forse è quello che sono.
Ma
la verità è che lo faccio per te, per il bene che ti voglio, perché più di
te conosco la realtà nella quale ti porterei, e so che non sarebbe giusto nei
tuoi confronti. Mi sono interrogato per mesi su cosa dovevo fare, sono stato
assalito da infiniti dubbi. Ma ora credo che, nonostante tutti i miei dubbi,
questa sia la strada giusta da seguire. Anche se ci farà male. E farà male a
te, non sai quanto questo mi addolori.
Ma
forse un giorno potrai capire, Oscar. Quando questo momento sarà passato e
potrai di nuovo vedere le cose con lucidità, forse allora ti renderai conto che
questa decisione ora così penosa è stata la cosa migliore per tutti. E me ne
sarai grata, forse.
Cerco
di confortarmi con questo pensiero, che mi accompagnerà da ora in avanti nel
mio viaggiare. Parto, Oscar, e non tornerò più qui. Non so ancora dove andrò
ma devo andarmene, liberarti da me perché tu possa davvero ricostruirti una
vita, da domani. Ti ho fatto troppo male, e non devo fartene più.
Dimenticami,
ti prego. Io non potrò mai dimenticare te.
Addio.
André
***
“Maledetto
bastardo, mi ha quasi ammazzato…”
“Già,
sapeva usare bene la spada… a un certo punto ho temuto che in due non ce
l’avremmo fatta. Per fortuna avevo la pistola, altrimenti…”
“Aspetta…
si muove… è ancora vivo”.
“Non
per molto, ora ci penso io…”
Continua...
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