Nelle mani

parte X

 

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Amore mio,

amore mio, non piangere, ti prego. Mi fa troppo male vedere le tue lacrime dopo averti stretto tra le braccia, dopo aver accolto nell’anima i tuoi sospiri e ricevuto i tuoi baci. Non piangere, Oscar.

Come posso trovare le parole per dirti quello che provo adesso, ora che sei di nuovo lontana da me, che sono nella mia stanza, da solo, a dividere con un letto che anche stasera pensavo compagno soltanto di rimpianti il ricordo dolcissimo, invece, degli abbracci con cui ti ho avvolto, del calore del tuo corpo, del tuo profumo… Della tenerezza che mi porto dentro, in questo momento, perché sei tu che me l’hai donata con il tuo amore.

Non posso trovarle, le parole, perché il mio cuore è pieno del tuo respiro, perché sulla mia pelle trema ancora la sorpresa struggente di averti trovato accanto a me nella notte, all’improvviso, quando più avevo bisogno di te, di sfiorarti quasi senza credere che tu fossi davvero lì, e temendo che quella fosse una visione dovuta al vino con cui mi ero stordito, cercando inutilmente di non pensare a te, per una sera, almeno.

E invece eri lì, eri lì con me, questa sera.

Quanto tempo era, amore mio, che non ti abbracciavo. Quanto tempo che non riuscivo a parlarti. Per quanto tempo sono rimasto solo, a guardarti partire da questa casa senza di me. Quanti giorni ho passato in ansia al pensiero che potesse accaderti qualcosa, e che io non fossi lì per proteggerti, in quegli istanti.

Da quanto tempo non facevamo più l’amore, amore.

Ma stanotte no, non sono più infelice, Oscar. E neanche tu devi esserlo. Ricordati tutti i baci che ci siamo scambiati, in quella stanza che era un luogo qualsiasi, fino a questa notte, e all’improvviso è divenuta tutti i luoghi del mondo. Ricorda con che dolcezza e che passione mi hai stretto, quale gioia il nostro abbraccio ci ha dato, quanto poco abbiamo impiegato, dopo tanto tempo, a ritrovare i nostri gesti, le nostre parole. Ricorda quanto è grande questo nostro amore, e quanto poco possono fargli la distanza, e i giorni. Non importa se ci separano, se ci impediscono di stare vicini. Non importa se posso vederti solo di nascosto, se davanti a tutti posso dirti solo frasi che non contano niente. Non importa, di fronte alla verità di ciò che ci unisce, all’immensità di ciò che provo per te. Non c’è niente che possa dividerci, Oscar. Niente.

Partiremo. Partiremo presto. Mancano soltanto pochi giorni, lo sai. Non devi piangere adesso, amore, se non hai pianto fino ad ora, se fino ad ora sei stata così forte, e così brava. Sapessi come sono fiero di te… ogni giorno ho ammirato il tuo coraggio, la tua tenacia…

Non devi soffrire, perché tra poco ce ne andremo via e tutto questo sarà un ricordo triste e lontano. Tra poco. Questo non è il momento di piangere, Oscar, ma di essere felici, di gioire, invece.

Andremo via, e staremo insieme per sempre. Nessuno, nessuno mai ci troverà più. Potremo vivere, e amarci, essere liberi, Oscar. Faremo tutte le cose che abbiamo solo sognato, fino a questo giorno.

Ora qui, con la penna in mano e il sonno che non viene, perché è troppo intensa la dolcezza che conservo di te, scrivo per avere un’occasione ancora di sfiorarti con le parole, per far durare fino a domattina le tue carezze che sento addosso. Per asciugare le lacrime che ho visto nei tuoi occhi quando mi hai salutato, perché questa lettera possa scaldarti un po’ e tenere il mio posto mentre non ci sono. Scrivo per dirti che la gioia che abbiamo conosciuto insieme è la sola cosa che deve riempire il tuo cuore, e orientare i tuoi passi, e parlarti quando sei triste. A nient’altro devi dare ascolto, ti prego. A nessuna pena, nessuna paura, nessun dolore.

Non piangere, amore mio.

Non piangere, perché io ti amo.

André

 

*

 

Fu come, improvvisamente, se davanti ai suoi occhi fosse caduto un velo che copriva la realtà. Il generale non riusciva a muoversi, a staccare lo sguardo da quella lettera, a reagire con un gesto, una parola, un’espressione qualsiasi. Oscar e André erano amanti. Sua figlia incontrava di nascosto un uomo che era stato il suo attendente per anni e che adesso era un servo delle scuderie. Sua figlia entrava nel letto di quell’uomo. Credeva alle sue parole. Piangeva per lui.

Quell’uomo che non era niente, niente, stava per portargliela via, per allontanarla dalla sua casa. Per fuggire con lei e non fargliela rivedere mai più.

Sua figlia l’aveva tradito. Aveva finto per mesi, o per anni, Dio solo sapeva da quanto tempo, di accettare le sue decisioni. E invece lo ingannava, deliberatamente. Senza alcuno scrupolo. Ecco perché non aveva detto una parola quando le aveva allontanato André… simulava, recitava una parte. E c’era riuscita bene, proprio bene a fargli credere che non le importasse.

Da quando? Da quando andava avanti tutto questo? Quando era stato il momento esatto in cui era iniziata? Si era preoccupato fin troppo a ragione quando li aveva divisi.

E come pensavano di scappare, di nascondersi? Come avevano progettato di abbandonare tutto, e lei di dire addio a suo padre, senza rimpianti?

Quelle parole. Più erano toccanti, profonde, scoperte, le parole scritte su quel foglio, più rabbia e risentimento e disprezzo facevano nascere in lui. Quel verme, quell’insignificante plebeo, quell’orfano accolto per pietà nella sua casa, il nipote della governante… della governante… che chiamava Oscar “amore mio”. Così, senza nessuna vergogna, senza nessun timore. Come osava, quel bastardo senza genitori? Un uomo che era sopravvissuto all’infanzia e diventato adulto solo grazie alla sua generosità, una serpe allevata in seno perché lo mordesse, strappandogli dal cuore la sua cosa più cara… Quell’uomo aveva toccato sua figlia, aveva baciato sua figlia, aveva rubato l’onore di sua figlia con una temerità inaudita. Ecco perché quello sguardo di sfida quando lo incontrava, quel non abbassare mai gli occhi. Si sentiva forte, invincibile. Si era preso ciò che aveva di più prezioso e rideva di lui. Aveva calpestato tutte le regole, tutti i principi di quella casa. Aveva trasformato Oscar in un essere senza più valori, pronta a violare i legami più sacri, a mentire, a ingannare suo padre, la sua famiglia, il suo mondo…

E la incitava a perseverare in quella menzogna che certo le pesava, che evidentemente doveva scontrarsi con i pochi residui di principi onesti che erano sopravvissuti in lei… la esortava a non piangere, a non avere scrupoli, a non sentirsi in colpa per ciò che stava facendo… pretendeva che cancellasse ogni altro affetto dal suo cuore, per rimanerne solo lui il padrone. Maledetto, maledetta canaglia…

E che lettere sapeva scrivere, per legarla a sé… E pensare che era stato lui a farlo studiare, a permettere che avesse un’istruzione. Aveva imparato bene, fin troppo bene, quel miserabile… Ecco che frutti si ottenevano, a trattare umanamente i servi.

 

Non riusciva a darsi pace. A trovare un pensiero, una decisione, un partito da prendere. Stava lì nella stanza di Oscar con in mano quel foglio e quell’uniforme ai suoi piedi senza sapere che fare. Si sentiva distrutto.

“Non ha più senso”, si disse: la sua vita non aveva più senso. La sua famiglia era trascinata nel fango, nel disonore, per sempre. Senza rimedio. Non c’era niente che potesse fare per lavare quella vergogna senza lasciare conseguenze. Era tutto finito. Ogni cosa. Ogni progetto per Oscar, ogni disegno di sistemazione futura, ogni auspicio di una vita più serena e al di sopra degli affanni presenti. Ogni illusione coltivata a lungo di un’esistenza finalmente ordinata.

Era finito tutto, senza alcuna speranza.

Gliel’aveva portata via, di questo era certo. Assolutamente certo. Oscar era talmente coinvolta, ormai, che non sarebbe tornata indietro mai più. Conosceva sua figlia: non avrebbe mai accettato di cancellare quei sentimenti, di obbedire ai suoi ordini. Non avrebbe sposato nessun Girodel, non avrebbe acconsentito a mettere a tacere lo scandalo. Non l’avrebbe mai fatto, non c’era modo di costringerla né di persuaderla: Oscar era troppo lineare nei suoi comportamenti e decisa nelle sue scelte. Avrebbe preferito morire piuttosto che tornare indietro, lo sapeva bene.

Sarebbero stati trascinati tutti nell’ignominia, nel ridicolo. Il casato si sarebbe coperto d’infamia, e Oscar non avrebbe esitato un istante, perché credeva in quella strada sbagliata che aveva scelto, e l’avrebbe percorsa fino in fondo. Sarebbe fuggita o morta, ma tornata indietro mai.

Era tutto finito. Anche per lui.

Era finita anche la sua vita.

E c’era solo una cosa da fare, soltanto una: l’evidenza con cui il pensiero gli si affacciò alla mente l’atterrì, dandogli un improvviso, lucido sangue freddo. C’era una sola risposta, una risposta spietata, che si accordava con la situazione e col suo stato d’animo pieno di odio e sgomento.

Una sola.

Li avrebbe uccisi con le sue mani, entrambi.

 

Li avrebbe uccisi.

E poi si sarebbe puntato una pistola alla tempia, perché a un disonore come quello era impensabile sopravvivere.

 

*

 

Uscì dalla stanza di Oscar con quella lettera in mano, stringendola tra le dita. L’avrebbe aspettata, fino a sera. Scese le scale di corsa arrivando nel salone centrale, in cui alcuni domestici rimettevano in ordine. “Tutti fuori”, intimò senza alzare la voce, facendoli sparire.

Poi rimase lì, da solo, rimuginando tra sé quelle frasi lette, spostandosi tra il camino acceso e la vetrata che dava sul parco. Sua figlia con un servo, tra le braccia di un servo, sua figlia Oscar tra le braccia di un uomo, tra le braccia di quell’uomo. Quell’uomo che la toccava, che l’accarezzava, che – in spregio a tutto quanto era stato deciso su lei, a tutti i suoi sforzi di farla vivere come un maschio -, l’aveva fatta diventare una donna: aveva guardato il suo corpo, aveva toccato il suo corpo, aveva violato il suo corpo di donna col proprio corpo di uomo.

L’aveva presa, come si prende una donna.

Le aveva fatto conoscere la sua vera natura.

E l’aveva resa felice.

Il generale nascose il viso tra le mani. Era questo che gli faceva male: era il peso dalla sua colpa, la prova del  suo errore che André gli aveva sbattuto in faccia. Era accaduto tutto per causa sua. Era stato lui a creare quella situazione assurda e pericolosa: di ciò che era successo, proprio lui era il primo responsabile, ed era arrivato tardi per impedirlo.

Oscar amava André, ne era certo. Non poteva esserci altro motivo che la spingesse a fare quello che faceva.

Lo amava.

Poteva amarlo, perché lo conosceva bene. Perché erano cresciuti insieme. Perché erano stati soli tutta la vita, tutti e due. Soli insieme.

E sì, probabilmente anche André amava Oscar, ammesso che si potesse applicare un discorso simile a un servo. Il generale conosceva la sua devozione per lei. André avrebbe dato la vita per Oscar, lei era stata l’unica sua compagna di giochi, l’unica sua amica, l’unica persona con cui passasse le sue giornate.

Era bella, era più in alto di lui. Infinitamente più in alto.

Sì, l’amava. L’amava certamente.

Era così folle da amarla.

 

Guardò fuori dalla vetrata, nel giardino. André era lì, e lo vide.

Eccolo, quell’uomo che si era preso Oscar. Stava riparando le assi sconnesse di una carrozza: piantava un chiodo con attenzione, un ginocchio a terra, tenendo tra le labbra altri chiodi. Le maniche della camicia, aperta sul petto, erano rimboccate sugli avambracci, i capelli gli scendevano sulle spalle raccolti con un nastro; ogni tanto s’interrompeva passandosi il dorso della mano sulla fronte.

Era un uomo alto e forte: nonostante l’occupazione umile che svolgeva, nonostante il modo in cui era vestito, Jarjayes non poté impedirsi di pensare che era piuttosto comprensibile che sua figlia ne fosse stata attratta.

Una donna, Oscar era proprio una donna… maledetto il giorno che le aveva fatto indossare quell’uniforme.

 

*

 

Un colpo alla porta del salone. Sicuramente un domestico: era il bussare sommesso della servitù, quello.

“Cosa c’è?”, chiese con un tono aspro.

“Perdonate, signore – disse una cameriera, entrando timidamente -, al cancello è arrivata una carrozza”.

“Una carrozza? Che carrozza?”

“Di una signora, generale: il cocchiere ha detto madame de Surgis. Desidera incontrare madame de Jarjayes”.

Si voltò cercando di trattenere lo stupore: madame de Surgis non veniva da molto tempo in quella casa, tanto meno per vedere sua moglie. Come se non sapesse, poi, che la madre di Oscar alloggiava a corte come dama di compagnia della regina.

Madame de Surgis. Proprio lei.

Esitò, tuttavia: era sconvolto, e non era proprio il momento di ricevere visite. Ma non poteva evitarlo, l’etichetta imponeva di ricevere gli ospiti. Quella era l’ora consueta in cui si usava recarsi dagli amici.

“Fatela entrare, e pregatela di attendere nella sala azzurra”, ordinò.

“Bene, signore”.

Si affacciò ancora sul giardino, stringendo nella mano quella lettera, nascosta nella tasca della giacca. André aveva quasi finito il suo lavoro.

 

*

 

“Generale, che piacere vedervi!”

“Buon pomeriggio, signora – disse Jarjayes inchinandosi -. Una visita inaspettata, la vostra”.

Madame de Surgis portò il ventaglio al viso, per celare il disappunto: “I vostri modi bruschi sono peggiorati, mio caro. Che la vita militare vi abbia fatto dimenticare le buone maniere? In questo caso mi astengo dal trattenervi ulteriormente”.

Fece per andar via, ma il generale la fermò, scusandosi: “Perdonate, contessa – disse con un sospiro rammaricato e stanco -, avete certamente ragione su di me. Ma spero che possiate dimenticare la mia scortesia”.

La donna si voltò verso di lui, e lo osservò con attenzione: aveva un’aria disfatta, sotto la maschera composta che indossava. Ne provò un interesse immediato.

Si avvicinò con fare gentile e comprensivo: “Savinien, cosa vi succede? Avete un aspetto affranto”.

Non ricevette risposta, ma un silenzio che era una conferma. Jarjayes si accostò alla finestra, stringendo la mano nella tasca.

Allora madame de Surgis lo seguì, e, portatasi vicino a lui, gli sfiorò un braccio con la mano. “E’ qualcosa di serio – mormorò -. Di molto serio, non è vero?”. La sua voce si era fatta incredibilmente dolce, e quell’uomo che un tempo aveva diviso il suo letto si voltò a guardarla. Ma non rispose.

“Non voglio conoscere le vostre questioni private – disse ancora più delicatamente la contessa -, ma posso cercare di confortare il vostro cuore, se me lo consentite. Abbiamo condiviso più di un segreto, una volta”.

Jarjayes la fissò, e rispose piano: “Sì. Ma è stato molto tempo fa”.

“Questo non conta nulla, Savinien, perché l’amicizia che vi porto non si è logorata con gli anni. Volete darmi la possibilità di aiutarvi?”

“Non c’è niente che possiate fare, signora”, disse il generale. E, mentre diceva questo, davanti ai suoi occhi passò l’immagine di Oscar bambina: Oscar con la spada di legno in mano, vestita come un maschio. “Purtroppo”, aggiunse, e dovette ancora girarsi, per celare la commozione.

“E’ una cosa grave, e riguarda la vostra famiglia – constatò in un sussurro la contessa -. Vi conosco, Savinien: solo questioni legate alla famiglia hanno il potere di ridurvi in questo stato”.

Lo osservò muoversi, scostarsi dalla vetrata e da lei, e con suo grande stupore lo vide sedersi, quasi abbandonarsi, sul sofà. Con un sospiro sfinito. Era assolutamente contrario all’etichetta che un gentiluomo sedesse lasciando in piedi una signora, e Savinien Philippe de Jarjayes non dimenticava mai l’etichetta. Doveva essere accaduto qualcosa di gravissimo: lo capì anche dal suo sguardo distante, che a tratti lo faceva apparire come se non si trovasse in quella stanza.

Madame de Surgis lo raggiunse, allora, e sedette accanto a lui. Gli prese una mano.

“Si tratta forse di vostra figlia Oscar?”. La contessa era nota per avere un intuito straordinario, e il generale lo sapeva. Ma quella frase lo colpì così nel vivo che alzò il capo improvvisamente, e fissò la donna costernato.

Lei allora non rispose e abbassò gli occhi, continuando a tenergli la mano. Lasciò passare qualche istante in silenzio.

“Amico mio – disse infine -, l’ultima cosa che desidero è essere indiscreta su una questione come questa. Ma la vostra reazione m’induce a ritenere di non esser lontana dalla verità. E se ripenso alla nostra ultima conversazione, a Versailles, io mi sento in colpa…”

“In colpa? E di cosa dovreste esser colpevole voi, signora?”

“Non lo so. Forse di aver toccato corde che non bisognava toccare, Savinien. Di avervi indotto in errore con illazioni che sono state per voi fonte di dispiacere. Di avervi ingiustamente turbato…”

“O forse di avermi fatto aprire gli occhi”, non poté trattenersi dal dire il generale, stringendo i pugni.

“Cosa volete dire…”

Egli non rispose, e continuò a fissare nel vuoto.

“Dio mio, non vorrete dire che…”

Jarjayes chinò il capo, rabbioso e vinto, e nascose il viso tra le mani.

“State dicendo… volete dire…”

Lo guardava, accanto a sé, mentre in silenzio teneva ancora il viso tra le mani, e scuoteva il capo.

“Vi prego, amico mio, vi prego: datemi la possibilità di aiutarvi”.

“Non c’è più niente da fare - rispose lui -. E’ tutto finito. Tutto”. Trasse quella lettera di tasca, fissandola nel palmo aperto, con dolore e con ira incontenibile: “E’ finita – ripeté -. La ucciderò. Li ucciderò tutti e due”.

Si guardò ancora il palmo, e non si mosse, lasciando che la contessa accostasse timidamente la mano a quel foglio, lo sollevasse con delicatezza, lo aprisse. La fissava come incantato, fuori di sé, mentre compiva questi gesti, mentre leggeva. “Moriranno per questo”, disse ancora.

 

“Mio Dio…”, mormorò pallida madame de Surgis alzando gli occhi dal foglio. “E’ terribile”.

“Terribile? No, signora. Terribile sarebbe ancora qualcosa da poter affrontare. Per questo non esiste rimedio. A parte una cosa”.

“E cosa vorreste fare, Savinien? Ucciderli? Santo cielo!”

Non le rispose.

“Guardatemi, guardatemi Savinien! Volete davvero uccidere vostra figlia? Una figlia che amate, alla quale avete dedicato la vita? E cosa sarà di voi? Voi che farete, dopo?”. Lo guardò, e si portò una mano alla bocca: “Non vorrete… oh, no! Non vorrete fare una pazzia…”

Il generale restava muto, disfatto. Madame de Surgis respirò profondamente, e dopo una pausa di qualche istante riprese a parlare, sforzandosi di mantenere la calma.

“Vi prego, ascoltatemi, amico mio. So che siete sconvolto, e ne avete piena ragione. La realtà che questo foglio rivela è spaventosa, sconcertante. Sapeste quanto vi sono grata per creduto alla mia amicizia al punto di mettermi a parte di un simile  segreto: ma non dovrete pentirvene, ve lo giuro. Troveremo una soluzione, se volete fidarvi di me”.

Jarjayes alzò gli occhi: “Una soluzione? E quale soluzione potrebbe mai esserci, di fronte a un tale scandalo?”

“Oh, caro, ma non ci sarà nessuno scandalo, se voi non vorrete. Voi potrete impedire che si sappia… potrete cacciare, punire questo ignobile plebeo, imporre a vostra figlia il silenzio…”

Egli rise, allora, una risata amara: “Imporre il silenzio a Oscar? Voi non la conoscete. Avete letto davvero quella lettera? Sapete cosa vuol dire? Se Oscar è arrivata a questo punto non si piegherà a nessuna imposizione. Andrà fino in fondo, e ci trascinerà nel disonore. Non accetterà mai di lasciare quell’uomo: per quanto mi ripugni dirlo, è questa la verità, signora”.

Madame de Surgis lo fissò in un modo strano, allora. Si sarebbe potuto dire assorto. “Certo, avete ragione – mormorò -. Oscar non accetterà mai di lasciare quell’uomo. A meno che…”

“A meno che?”

“A meno che non sia lui a lasciare lei…”

Il generale si portò una mano alla fronte, sconsolato: “Vi assicuro contessa che questa eventualità è ancora più inverosimile. André si farebbe uccidere, piuttosto. E vi giuro che è proprio quello che avrà: pagherà con la vita ciò che ha fatto”.

“Non giurate cose come questa, Savinien, e vi prego, lasciatemi finire. Non è con la spada che si affronta un problema del genere, credetemi. Ci sono metodi meno drastici e più efficaci”.

“Cosa volete dire? Non vorrete che io paghi quel miserabile per andarsene! Non chiedetemi questo perché non lo farò mai”. Jarjayes batté un pugno su un bracciolo della sedia: “E lui comunque rifiuterebbe, ne sono certo”, aggiunse scuotendo il capo.

La contessa fece un mezzo sorriso, allora: “Rifiuterebbe di abbandonare Oscar, sì…  Rifiuterebbe se lo sapesse… Ma non è detto che sia necessario informarlo, non credete?”

“Cosa intendete dire, madame?”, chiese il generale spalancando gli occhi.

“Be’, intendo dire che con un po’ d’astuzia possiamo porre rimedio alla sua inopportuna caparbietà… Abbiamo una sua lettera, no?”

“Non vi seguo”.

“Ecco… voi credete che vostra figlia riconosca la sua scrittura?”

 

 

Continua...

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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