Liberaci dal male
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Ho
freddo.
L’umidità
della notte, di questo fiume che scorre, mi impregna i vestiti e li incolla alla
mia carne. Sto guardando davanti a me e non vedo niente, non sento niente. Solo
che ho freddo. Non ho mai avuto così freddo, mai.
Non
c’è una sola emozione che riesca a provare in questo momento. E vorrei. Anche
il dolore, vorrei, piuttosto. Il dolore di ieri, al tramonto.
E’
diventato già ieri.
E’
incredibile come le ore riescano a passare lo stesso.
Sono
freddi i mattoni bagnati di questo muro dove ho appoggiato la schiena, cercando
di rialzarmi da terra. Freddi come il selciato di questa strada: l’ho sentito
sul viso, sulle mani, mentre mi alzavo, mentre guardavo il rivolo di sangue
uscito dalla mia bocca formare una piccola pozza in mezzo a due pietre. Sono
rimasta distesa a terra non so per quanto, nessuno mi è venuto a rialzare.
Il
fiume, davanti a me. E continua a scorrere. Non me ne sono mai resa conto, le
altre volte che l’ho guardato. Lo osservo lasciando la testa appoggiata al
muro, sento i capelli inzupparsi dell’acqua sporca di questa città, del
sudicio che ricopre ogni cosa.
Anche
le mie mani sono sporche, nere. Sulle dita, sulle righe che disegnano il palmo.
Sulla destra guardo la pelle indurita dall’impugnatura della spada. Sono le
stesse mani di ieri, le stesse di sempre.
E’
incredibile come possano essere le stesse di sempre.
E
ci sono le stelle, in cielo. E all’alba sorgerà il sole di nuovo.
La
luna, proprio sopra di me.
La
stessa dell’altra notte. Dio, com’è possibile che sia la stessa? La stessa
luna che ci ha visto baciarci, che è stata testimone della mia resa tardiva,
delle mie lacrime sul tuo petto, del tuo abbraccio così vivo e caldo intorno al
mio corpo. La luna che ha illuminato la nostra pelle, mentre la brezza dolce di
luglio la sfiorava, mentre dopo tanti anni, finalmente, ci aprivamo alla vita e
ci amavamo e ci sembrava di avere giorni infiniti, da conoscere...
Mentre
per la prima volta avevo fiducia, davvero.
E
per la prima volta riuscivo a provare la gioia più completa, quella di farti
felice.
“Adesso
niente può più dividerci”, mi hai detto.
Guardami,
André. Guarda dove sono adesso. Guardami, se puoi, e, ti prego, abbi pietà di
me.
Non
so nemmeno dove mi trovo, in questo momento. Da quale parte di Parigi mi abbia
portato il mio cavallo, prima di stramazzare al suolo colpito da quella
fucilata. Mi ha trascinato a terra con sé, cadendo. Poi io mi sono rialzata e
quasi non ci credevo, che fosse morto anche lui. Perché sta morendo tutto e io
sono viva?
Eppure
mi sono alzata, e ho persino estratto dal fodero la spada. Automaticamente.
L’ho fatto tante di quelle volte. C’erano tre soldati davanti a me, coi
fucili e le baionette. E ancora un duello da fare.
Ma
perché, perché?
“Guarda,
piange mentre combatte con noi!”, ha detto uno.
Ho
gridato. Ho gridato qualcosa alzando la spada. Ho pianto mentre paravo,
affondavo, mentre schivavo i loro colpi.
Ho
avuto un’ottima scuola.
Piangevo
mentre fuggivo. Mi hanno sparato dietro, ma non mi hanno preso.
Dove
sono, adesso...
Che
importanza ha? Cosa importa aver evitato la morte, o l’arresto, o qualsiasi
altra cosa... Cosa importa?
Non
riesco ancora a capire perché mi sono difesa.
O
forse sì, ora lo capisco. Mi sono ribellata, semplicemente. Perché mentre
correvo al galoppo stavo sognando di noi. E ti pensavo con me, lungo la
spiaggia, col sorriso sul viso e gli occhi che vedevano ancora. E ci sognavo
insieme, su questo cavallo che mi hanno ucciso. E hanno ucciso anche te, di
nuovo, e anche noi. Per questo ho tirato fuori la spada.
Ma
io non ti ho mai visto sorridere così.
Adesso
vorrei essere ancora dove sei tu, in quella chiesa. Vorrei tornare accanto al
tuo corpo steso in mezzo a quei fiori. Che c’entrano i fiori, ho pensato
quando l’ho visto.
Eppure
tu avevi un volto sereno, come non l’avevi mai avuto. Se solo fosse vero, André,
se fossi riuscita davvero a darti quel che cercavi, in una notte sola.
E’
questo che ho tentato di capire davanti al tuo corpo, composto davanti
all’altare, resistendo al dolore orribile di vederti così, in quella posa
rituale e assurda, per te, le mani intrecciate sul petto, con un rosario tra le
dita. E i fiori.
Ho
cercato di leggere sul pallore del tuo volto ciò che non sono mai stata capace
di leggere quand’eri vivo. Cosa provavi, se eri stato felice. Se potevo, io,
davanti all’atrocità della tua morte, trovare il conforto di averti dato
l’amore, e che nella tua vita disperata, almeno, ci fosse stato un senso, una
spiegazione, un motivo.
Ma
non ci sono riuscita. Non era possibile. La realtà da accettare era ben
diversa, spietata come solo la verità può esserlo. Era che la tua vita si era
chiusa prima di iniziare davvero. Che la felicità che avevi desiderato da
sempre, in un’attesa lacerante tenuta in piedi solo dal tuo amore, quella
felicità che io ti avevo negato fino all’ultimo, anche quando sapevo, anche
quando ti amavo anch’io; quella felicità il destino te l’aveva data solo un
istante, per prendersi la soddisfazione crudele di portartela via, per sempre,
in modo che tu sapessi esattamente cosa stavi perdendo, mentre morivi.
Ma
perché chiamo in causa il destino? Cosa c’entra il destino, con la mia viltà?
Per
questo sono fuggita da quella chiesa.
Ma
ora mi manchi, terribilmente. Vorrei non essermi mossa da lì. Mi manca poter
guardare ancora il tuo viso, il tuo corpo, un’ultima volta. E poi un’altra,
ancora. E poi un’altra.
Un
colpo di tosse, secco. Soltanto uno, stavolta. Solo per farmi paura. Chissà
quanto tempo servirà prima che un altro accesso mi anneghi nel dolore, mi tolga
il respiro gettandomi a terra, mi faccia sputare tutto il sangue che mi è
rimasto. Una morte lenta e umiliante, quella che ci vuole per me. Con tutto il
tempo per pentirmi dei miei peccati, per piegarmi sotto i miei rimorsi.
Con
tutto il tempo per ricordarti, un’immagine del tuo viso morente per ogni
istante che dovrò ancora vedere.
“Io
non posso morire adesso, proprio non posso...”. E’ stato questo che hai
detto. L’ultima cosa.
E
io ho continuato a parlarti, mentre non c’eri già più, credendo ancora che
potessi sentirmi. E ti ho promesso Arras, e albe, e tramonti, e ti ho promesso
di rifare insieme tutta la vita che avevamo già fatto. Che non sarebbe tornata,
perché era quella la nostra occasione, quella che abbiamo perduto.
Quella
che io ho perduto, condannando anche te.
Eppure,
nei tuoi ultimi istanti, quando piangendo ti chiedevo di diventare tua moglie,
di dirmi che lo sarei stata, soltanto di dirlo, tu mi hai sorriso. E mi hai
detto “ma certo, Oscar”, con la dolcezza che era solo tua, solo con me, e
che non hai perso nemmeno alla fine. E che, anzi, è diventata allora più
grande, più profonda di quanto non fosse mai stata: “Ma certo, Oscar, lo
diventerai: è la cosa che più desidero al mondo”.
La
cosa che più desideravi al mondo. L’unica cosa che avresti voluto dalla vita.
L’unica che avrei potuto darti io.
Quante
ore fa? Sei, Sette? Quante migliaia di anni fa?
Ma
io non l’ho fatto. Non l’ho fatto mai.
Persino
la notte in cui finalmente ho sentito il tuo abbraccio, il tuo corpo abbandonato
al mio, il tuo respiro emozionato sul viso e le tue mani che mi sfioravano,
quasi esitanti, e piene d’amore; persino la notte che ti ho aperto il mio
cuore e tu hai saputo colmarlo di una gioia incontenibile, da farmi sentire che
si sarebbe schiantato per la troppa felicità; persino allora avevo cercato di
allontanarti, di rimandarti a casa, lontano da me, perché potessi curarti.
Questo ti ho detto, e ti avrei anche lasciato andare, se tu avessi accettato. Se
non fossi stato tu, col tuo rifiuto serio e tranquillo, a dimostrarmi ancora una
volta quanto mi amavi, e che non era quella, la strada giusta.
Ti
sei fermato, quando te l’ho chiesto. “No, verrò con te, come sempre – hai
risposto semplicemente -. Ormai è una vita che vengo con te in ogni occasione:
non posso certo cambiare adesso, ti pare?”
Solo
allora ho trovato il coraggio di confessarti che ti amavo. Ma per farlo ho
chiesto ancora una prova a te, come se non fosse stata già quella, una prova. E
se non fossero prove, e non potessi vederle, tutte quelle che mi davi ogni
giorno: “E’ mai possibile che tu mi voglia ancora bene?”, ti ho chiesto.
Tu
non hai scelto una strada tortuosa come la mia. Mi hai guardato quasi con
tenerezza, hai sorriso: “Ma certo, Oscar. Io ti voglio bene da sempre”.
Quante
ore fa... Ventiquattr’ore, forse...
Ventiquattr’ore
dalle tue mani, dalla tua bocca. Ventiquattr’ore dai tuoi occhi chiusi sui
miei, dal tuo petto su cui appoggiare il viso... dai bottoni della divisa
slacciati piano e poi in fretta, dall’erba morbida che cedeva sotto il
mantello, disteso a terra, sotto noi due, insieme, a cercarci. E com’è stato
nuovo ed emozionante il chiudersi delle tue labbra sul mio seno, come lo hai
baciato, lo hai sfiorato, a lungo. E tremavi, tremavi anche tu. E com’è stato
nuovo mostrarmi a te, così, e vederti e sentirti, con timidezza, con gioia. E
sentire che non ero più sola, perché tu stavi entrando in me. E che sensazione
strana, di paura e di desiderio insieme mentre lo facevi, come una dolcissima
urgenza nel tuo farti strada dentro il mio corpo, pianissimo, nel tuo ripetermi
all’infinito ti amo mentre t’imploravo e gemevo, nel tuo non fermarti e
coprirmi di baci mentre le mie mani cercavano di trattenerti, perché non mi
facessi male...
Ma
era come se tu sapessi già cosa fare, sei stato meraviglioso. Poi il tuo
piacere mi ha travolto, ed è stato capendo cosa potevo darti che per la prima
volta mi sono sentita viva.
Quel
mantello lo abbiamo scordato lì, l’altra notte.
E’
ancora lì, certamente, sopra l’erba schiacciata dai nostri corpi.
Io
sono qui, addosso a questo muro fradicio. Tu in quella chiesa, chissà dove, in
mezzo a quei fiori.
Non
più di ventiquattr’ore fa.
Il
tempo che passa, e sono ancora qui, buttata lungo questa strada attaccata al
fiume. Le stelle non si vedono più. Inizia a piovere, lentamente, sento le
gocce una a una svaporare sulla mia pelle che brucia. E’ una pioggia sottile,
continua, che opprime l’aria e pesa come una colpa.
Come
la mia colpa.
E’
venuto un cane randagio, vicino a me, sta annusando il selciato intorno. Mi
rivolge uno sguardo vuoto e se ne va via. Deve aver fiutato la disperazione,
deve averne paura.
Un
ragazzo mi passa davanti a testa bassa, trascina sulle spalle il cadavere di un
vecchio e piange. Lo ha gettato nel fiume, e piange. Parla con quell’uomo
morto, che è suo padre, gli dice scusami se ti ho fatto cadere, prima. Gli dice
ho fatto come avevi detto, hai visto? Ho gettato il tuo corpo nel fiume, come
volevi tu.
Chi
era quell’uomo... Forse tu lo conoscevi, André. Forse tu l’hai sentito
suonare quella fisarmonica che adesso ha nelle mani il figlio, ripetere quella
melodia straziante sotto qualche ponte, quando venivi a Parigi, da solo, per
ubriacarti pensando a me.
So
che lo hai fatto, lo so.
Forse
quell’uomo sapeva più cose di te di quante ne abbia conosciute io. Forse con
lui hai potuto parlare, dirgli quello che non mi hai detto.
Cosa
gli avresti detto di me, André?
Che
cosa?
E
dove sei, adesso, André? Dove sei, dove sei, amore mio?
Ora
sì, lo sento tutto ancora, il dolore. Si è scatenato di nuovo, implacabile, in
una tempesta di male dentro ciò che è rimasto del mio cuore. Sta spazzando
tutto, tutto, di nuovo...
Piango,
non riesco a fermare il pianto, non ce la faccio, non lo voglio nemmeno più.
Sto singhiozzando ad alta voce per strada, con la testa sulle ginocchia... sto
gridando, non vedo più niente, solo le lacrime che confondono tutto. Non
m’importa che qualcuno mi senta, che qualcuno si fermi, mi consoli, mi uccida,
non m’importa più di niente, e questo pianto non sa dare conforto, distrugge,
distrugge e basta.
André...
Io
ti amavo, André! Ti amavo davvero, con tutto il cuore... Avrei potuto amarti già
da molti anni, ma ho scoperto in me questo sentimento troppo tardi. Se me ne
fossi resa conto prima avremmo potuto vivere insieme tanti momenti meravigliosi,
momenti di amore intenso e travolgente.
Ma
io non mi ero neanche resa conto dell’amore che tu nutrivi per me...
E’
questo che mi fa star male. Che mi fa sentire terribilmente in colpa.
Che
cosa devo fare.
Che
cosa devo fare, dimmelo tu, André...
Ti
prego dimmelo, dimmelo, amore mio. Dimmi qualcosa, qualunque cosa, che io possa
sentire. Dimmi che non è vero che non ci sei, dimmi che è un sogno terribile,
questo, vieni a svegliarmi nella mia stanza e apri la finestra. E fa’ entrare
il sole, che io lo veda. Ti prego.
Dimmi
che le ho sognate le tue mani che mi cercavano un’ultima volta, le lacrime
sparse sopra di loro e la domanda ansiosa che mi hai fatto: “Perché stai
piangendo, Oscar, perché... Sto forse... per morire?”
Risvegliami,
spiegami che era un sogno la bugia che ti ho raccontato, cercando un sorriso
dentro al mio strazio, un sorriso cui tu potessi credere: “No, cosa dici, cosa
dici, André!”. E la tua voce che rispondeva subito: “Hai ragione, io non
posso morire adesso”. E che diceva: “La nostra felicità è appena
cominciata, ora anche l’amore ci unisce...”
E
la tua speranza di vivere in un mondo migliore, con me. Forse, hai detto, forse
potremo.
Liberami
da tutto questo, ti prego, ti prego... Ti
prego, Dio, Liberami da questo dolore.
Ascoltami.
Ascoltami...
Fino
a quando vorrai farmi bere da questo calice di disperazione... Ogni volta sembra
arrivare al fondo e invece non finisce mai. E si rinnova, ogni volta che penso a
tutti gli anni che ho saputo sprecare, come se non avesse valore tutto quel
tempo, tutto il tempo che la vita mi aveva dato.
E
mi aveva dato anche l’amore, l’amore... Lo avevo lì, con me, fin
dall’inizio. Eri tu, André.
E
invece non ho saputo vederlo. Ho cercato altro, ho inseguito fantasmi. Con
meditata tenacia. Per anni. E tu eri lì a guardare, André. Quanto, quanto devi
aver sofferto?
Fersen.
Fersen e il suo sorriso, la sua tristezza. Inaccessibile e disperato, e gentile.
Che si chiedeva ridendo perché fossi nata donna. Che mi considerava un amico,
diceva proprio così, “amico”. L’ho amato, sì, desiderandolo con
l’intensità con cui si può desiderare un miraggio. L’uomo per cui ho
indossato il solo abito femminile della mia vita.
E
l’ho indossato davanti a te. Davanti
a te, André.
Fersen,
che alla fine ha dovuto capire, perché l’ho costretto io: è stata l’unica
volta che mi ha rivolto lo sguardo di un uomo, quella sera, nella mia casa,
quando è venuto a stanarmi, perché sentiva di doverlo fare. E ha pianto,
andando via.
Fersen che era davvero mio amico. E io invece amavo ciò che avrei voluto che fosse. Aggrappata all’illusione che avevo creato, come se potessi trovarla in un ideale, la mia risposta. Così non ho capito neppure la sua amicizia per me. Nemmeno lui, ho capito. Fersen era un uomo sincero.
Ma
eri tu il mio uomo. Eri tu.
E,
sai, è stato proprio lui ad ascoltare la mia confessione d’amore per te, André,
è stato lui in un vicolo oscuro di questa città, una notte atroce ma non
atroce come questa notte. Lui ha letto nei miei occhi il terrore di averti
perso, mentre gridavo “il mio André”, respingendo le sue braccia che
volevano tenermi al sicuro. Mi ha lasciato improvvisamente, guardandomi:
“Avete detto... il mio André?” E poi ha visto il mio volto attonito, e gli
è comparso un sorriso, sul viso. Un sorriso contento, sorpreso. “André...”,
ha detto poi quasi tra sé, con quello stesso sorriso. Solo un istante, prima di
correre fuori.
Io
penso che sapesse da quanto tempo mi amavi.
Solo
io non lo avevo capito. Soltanto io.
Ma
tu non l’hai saputo, tutto questo, non te l’ho mai detto. E forse hai
creduto che m’importasse ancora di lui, perché non mi sono mai data pena di
rassicurarti, nel tempo venuto dopo, quando lo nominavi per sondare il mio
cuore. Nemmeno quella notte l’ho fatto, quella notte stessa che ho capito di
volerti bene, nemmeno il giorno dopo, che m’informavi che si era messo in
salvo. Avrei potuto dirti: “Mi fa piacere, André. Ma ora siediti qui, ho
avuto tanta paura per te”. Avrei potuto insistere che prendessi la cioccolata
con me e accarezzarti la mano e dirti sei tu la cosa importante, sei solo tu.
Quante
cose avrei potuto fare, e non ho fatto.
Adesso
sono tutte qui, a chiedermi il conto. Tutti i miei appuntamenti mancati, in
perfetto ordine, ognuno con la sua croce sopra e il suo funerale. In ordine da
quando avevo quattordici anni, dal giorno che fuggii a cavallo e ti sentii
dietro di me gridare: “Fermati, e diventa una donna, Oscar!”.
Li
posso contare con esattezza, uno a uno.
Solo
una settimana fa, sulla terrazza della mia casa: “Che cosa mi nascondi, Oscar?
Ho perduto un occhio, ma posso leggere molto bene dentro di te”.
Il
giorno che mi chiedesti di liberare Chatelet che ti aveva ferito, e al mio
rifiuto andasti via triste con parole d’ironia su te stesso. E io avrei dovuto
fermarti, allora, prima che uscissi da quella porta, e abbracciarti e piangere e
dirti va bene, farò tutto quello che vuoi, André, tutto quello che vuoi.
La
notte che moriva il bambino della regina, e sentimmo le campane di Notre Dame
suonare dietro le finestre, e fuori pioveva a dirotto, e io con quel pugnale a
metterti alla prova: “Tu ci vedi davvero, André?”. Avrei dovuto credere al
cuore e non a quello che mi dicevi, sarebbe bastato un gesto, soltanto un gesto
verso di te. Sfiorarti, accarezzarti il viso, non metterti un pugnale davanti.
Quando
ti picchiarono, e ti vidi steso a terra, in mezzo ai vetri infranti, quasi
svenuto e una lacrima ti scendeva dal viso, e dicevi: “Non ti sposare Oscar,
ti prego”. Avrei dovuto asciugare quella lacrima dolcemente e piangere
anch’io, e rispondere: “No, sta’ tranquillo, André, non avverrà mai, non
sposerò mai nessuno che non sia tu, nessuno”.
E
quando ti vidi a terra, davanti a mio padre, pronto a lasciarti uccidere, e ti
sentii dire: “Non voglio assistere alla morte della donna che amo”. Perché
non mi sono gettata a terra anch’io, davanti a te, perché non ho gridato:
“No, padre, dovrete ucciderci insieme, nemmeno io voglio veder morire l’uomo
che amo”... E perché non te l’ho detto dopo, che ti amavo, quando siamo
rimasti soli in quella stanza? Perché?
E
l’altro ieri, davanti a quel quadro assurdo che mi ritraeva a cavallo, davanti
al quadro che tu non vedevi, che disegnavi tutto diverso, meraviglioso, con le
parole... perché, se ti amavo già, non l’ho detto, ancora?
Quanto
ci avrebbe fatto guadagnare, se lo avessi detto? Poche ore? Minuti? Un istante
solo d’amore in più? Non sarebbe valso tanto, quel solo istante, da poter
anche morire, pur di averlo? Cosa darei per avere un istante con te, adesso?
Cosa
darei per avere un minuto, un’ora con te?
Cosa
darei per avere tutta la vita che ho avuto, con te?
André, il mio André... Mio, mio dalla prima volta che ti hanno portato nella nostra casa, mio per tutti i momenti, le giornate, gli anni che mi hai dato di te. Mio da sempre, in ogni parola, in ogni sorriso, gesto, silenzio, in ogni attesa, dolore, gioia che hai provato per me. Era così naturale averti sempre vicino, eri una tale certezza, un tale appoggio. Eri così sicuro e così scontato. E così prezioso, e così fragile. Fragile...
Una
pallottola sola. Soltanto una. Una pallottola improvvisa ti ha strappato a me. A
quante pallottole ci siamo esposti insieme, in tutti gli anni vissuti, quante
volte ho rischiato di perderti senza capire cosa stavo facendo?
E
perché mai, Dio, perché mai ti ho trascinato in questa guerra non mia, che
m’importava di tutte le rivoluzioni del mondo davanti al rischio di non averti
più? Perché non ti ho detto andiamo via, fuggiamo, dopo aver avuto il tuo
amore, aver avuto i tuoi baci, perché ti ho portato in caserma invece che
scappare da tutto, per sempre, con te? Non avevamo già pagato abbastanza? Non
eri, tu, quasi cieco, e io malata, e i nostri anni trascorsi invano, senza
amore? Non avevamo diritto ad avere un poco, solo un poco di gioia, invece di
morire così?
Perché
ho dovuto vederti morire così?
Perché?
Mi
sentivo immortale, con te vicino.
Adesso
invece morirò. Voglio morire anch’io.
Ti
rivedrò, André, quando sarò morta? Esiste davvero un’altra vita di là,
posso sperare davvero che tu sia lì, ad aspettarmi? Mi ucciderei adesso, se
fossi certa che è vero. Mi ucciderò lo stesso, anche se non è vero. Non
esserci più. Non sentire più nulla. Va bene lo stesso.
Ma
se ci fosse qualcosa dopo di questo, se tu esistessi veramente, Dio, se tu non
fossi il bersaglio muto delle mie grida disperate e inutili, e se ci fosse
un’occasione ancora, dopo? Tu ci saresti, André? Saresti lì, ad aspettarmi?
Io lo vorrei, un paradiso, solo se ci fossi tu.
Ma,
ora che ci penso, anche se esistesse un’altra vita noi non ci vedremmo più
ugualmente. Perché, se un paradiso esiste, l’unica cosa che so di certo è
che tu sei lì, ora, e che io non ci entrerò mai. E allora sarebbe molto peggio
del nulla vivere ancora, in qualche forma, per l’eternità, e sapere che ci
sei anche tu e sapere di non poterti vedere, e che ti sei dimenticato di me.
Ecco cos’è l’inferno, ora lo capisco. E’ lì che finirò io, se Dio
esiste.
A
meno che tu non possa scegliere, André. A meno che tu non sia libero di
decidere dove stare. Allora non ho dubbi, che anche se ti avessero messo nel
posto più in alto di tutti, tu non avresti un attimo d’esitazione, e verresti
all’inferno con me.
Tanto
l’inferno tu lo conosci già bene. Ti ho abituato io.
Ho
la febbre, sto bruciando di febbre. Corrono brividi sulla mia pelle ghiacciata e
le mie labbra scottano. Non faccio niente per coprirmi, asciugarmi, sto
accettando tutto, tutto quello che mi viene addosso. Se potessi morire così,
questa sera, accanto a questo muro. Se potesse spegnersi, la mia vita, come la
luce di una candela, con il prossimo soffio di vento.
Perché
il mio corpo sta resistendo così? Cosa lo trattiene, ancora?
Eppure
io non volevo far male, André, non avrei mai voluto. Non sono mai stata
cattiva, e ho tanto desiderato la pace, ho cercato sentimenti di gioia... Avrei
voluto vivere, dare amore, versare lacrime che potessero consolarmi, che
potessero dirmi perché. Anch’io sono stata infelice, in questa lunga
esistenza riempita solo di sbagli, adempiendo a doveri che credevo di avere,
soltanto a quelli, e tralasciando me stessa. Io pure ho dovuto imparare a
sopravvivere, amore mio, a negarmi sogni che non mi erano concessi, a cancellare
speranze, sentimenti, sorrisi. Ho dovuto rinunciare, rinunciare a tutto...
A
me stessa, André, tu lo sai. Per tutta la vita ho rinunciato a me stessa.
Ti
prego, perdonami, André, guarda al mio dolore di allora e di ora, guarda alla
mia lunghissima amarezza di sempre, sei tu l’unico davvero che può capirla,
che può piangerne con me. Ti prego, perdonami, ti supplico, amore, io ho colpe
spaventose, terribili, ma la mia vita non è stata tutta colpa mia...
Io
non potevo scegliere, André, non me l’hanno mai chiesto cosa volevo, ci è
voluto tanto tempo per riuscire a capirlo, a capire che potevo volere
qualcosa... che potevo anch’io.
Perdonami
se non ti ho riconosciuto, mio solo, mio grandissimo amore. Perdonami, io ti
amavo davvero, io ti amo, io ti amo ancora, ancora...
Io
ti amo, è la sola cosa, la sola che sta dentro al mio cuore, in mezzo a questa
strada, sotto questa pioggia, dentro questo freddo che mi uccide piano. Io ti
amo, André.
Io
ti amo, e ti ho perduto per sempre. Ho perduto l’unica cosa che avevo. E non
trovo niente che possa darmi conforto: non c’è un’immagine, un’idea, un
pensiero che possa farmi piangere lacrime che non brucino, che mi consolino
ricordandomi che qualcosa ti ho dato anch’io, André.
Qualcosa.
Ma
che cosa, che cosa?
Se
solo trovassi una risposta a questo, forse morire non sarebbe tanto difficile.
Eppure
tu non mi hai mai odiato. Sei sempre stato buono con me. Non c’è stato mai
rancore nelle tue parole, nei tuoi sguardi.
Persino
quella notte che mi gettasti sul letto, disperato, che mi desti quel bacio
bruciante sulle labbra e mi facesti paura con la tua forza, col tuo dolore,
persino allora io lessi solo amore nella tua anima. Nelle mani che stringesti
attorno ai miei polsi io riconobbi anche sconvolta le carezze che avresti voluto
farmi.
Per
questo non ce l’ho mai avuta con te, per quella notte.
E
per questo mi sono innamorata di te, subito dopo.
Subito
dopo, sì: ti ho amato appena ho saputo cosa provavi per me. Perché tutto
esisteva già nel mio cuore incapace di capire se stesso, perché solo da quel
giorno ti ho visto, e dal tuo modo di amarmi ho riconosciuto chi ero.
Ti
amavo già da quella notte, André. E da prima, da prima di conoscerti.
Ha
smesso di piovere, è quasi l’alba, ormai.
La
prima alba, l’ultima senza te.
***
Com’è
limpido e vasto il cielo, visto da qui. Non sento più neanche i rumori degli
spari che risuonano intorno. Quanti proiettili mi hanno colpito, prima di
cadere? Non mi riesce di contarli, ho avvertito solo il loro impatto contro il
mio corpo. Una spinta violentissima, solo questo. Il dolore è così forte che
non lo sento più.
Ma
la prima sensazione è stata sollievo.
Avvertendo
le pallottole entrare, trapassarmi dappertutto la carne, ho sorriso. Non è
stato un gesto voluto, ma sorridevo ancora, cadendo.
Perché
ho sorriso? Era quello che volevo, morire, sì. E’ per questo che sono venuta
qui, a sparare contro la Bastiglia.
Ma
la gioia che ho provato non aveva a che fare con la morte.
Non
sto soffrendo più, André. Dallo stesso istante in cui la prima fucilata mi ha
trapassato il petto io ho smesso di soffrire. Il peso orribile che opprimeva il
mio cuore è volato via. Sto sorridendo, e sono quasi felice.
Perché?
Perché
ti ho visto, André.
Ti
ho visto un momento solo, e sorridevi anche tu. Avevi lo stesso sguardo
dell’altra notte, di quando mi hai detto: “Ti voglio bene da sempre”. E
avevi lo stesso sorriso di quando hai promesso che sarei diventata tua moglie,
mentre io piangevo.
E
sai, André, mentre lo guardavo ho capito che non era diverso dal sorriso che mi
rivolgevi ogni giorno, al mattino. Ogni sera, quando parlavamo davanti al fuoco.
Ogni tramonto, nelle nostre cavalcate ad Arras. E ogni secondo di ogni minuto di
tutti i giorni della nostra vita vissuta insieme.
Era
lo stesso sorriso, André. Ora ho capito cosa volevi dire con quelle parole che
hai sussurrato al mio orecchio, l’altra notte, mentre sfioravi la mia mano
chiusa contro il tuo petto e la stringevi piano, e ascoltavi le mie lacrime come
avevi ascoltato la mia confessione di amarti: “Io questo l’ho saputo da
sempre, Oscar, te lo giuro. L’ho saputo da sempre”.
E’
vero, amore, tu l’hai sempre saputo. Tu sapevi che ti amavo, tu sapevi già
tutto. E’ per questo che non mi hai mai lasciato, è per questo che sei
rimasto con me.
E’
per questo che non c’è mai stato rancore, che non mi hai mai odiato, nemmeno
un attimo. E’ per questo che mi hai sussurrato che non c’è niente da
perdonare.
E’
per questo che il mio cuore è impazzito quando ci siamo baciati, quando abbiamo
fatto l’amore per la prima volta, quando ho visto il tuo bellissimo viso
abbandonarsi alle sensazioni del nostro abbraccio meraviglioso sull’erba, e
trasmettermi la sua passione e la sua gioia così completa, così pura, mentre
le nostre mani si tenevano, intrecciate, senza lasciarsi, e i nostri corpi
vibravano e si donavano senza fine piacere, mentre mi portavi all’estasi e mi
sentivi chiamarti e mi guardavi godere, e sorridevi, e chiudevi gli occhi anche
tu.
Perché
l’unica cosa vera di questa esistenza piena di inganni, piena di dolore e
paura e illusioni, piena di errori e solitudini atroci; perché l’unica cosa
vera in mezzo a questo strazio infinito è stato il nostro amore, André. Lui
c’è stato sempre, fin dall’inizio, e non è andato mai via.
Era
lo stesso della nostra unica notte insieme. Lo stesso che ha riempito tutta la
nostra vita.
Era
con noi nella nostra presenza sempre vicini. Era con noi nel nostro cercarci
l’uno con l’altro. Era con noi nei nostri scontri e nelle carezze accennate,
nelle risate e nei silenzi e nelle fughe da tutto il resto, perché il mondo
intorno con le sue costrizioni non ha mai contato niente quando eravamo insieme,
André, perché eravamo solo noi due, quando eravamo insieme.
Solo
noi due, siamo sempre stati solo noi due, amore mio, è vero, ora capisco tutto.
Ora lo capisco perché mi amavi così, e perché hai aspettato tanto e non hai
mai pensato di abbandonarmi e non mi hai mai punito e condannato e umiliato,
nemmeno quando io ti ho supplicato di farlo.
Perché
tu mi amavi, e sapevi che ti amavo anch’io. E sapevi che anche solo il fatto
che esistesse, questo amore, anche nascosto, silenzioso, fuggito, anche solo
immaginato lontano avrebbe salvato la nostra vita da solo, con la sua forza
infinita.
E
infatti è stato lui soltanto che l’ha salvata, André, questo amore che non
ha bisogno della parola perdono, perché è da sempre che ci guida per mano e ha
una sostanza fatta solo di gioia.
Quando
la vita ha gettato in disparte tutto quello che non contava, quando il dolore ha
fatto terra bruciata di ogni cosa che stava intorno, e ha spazzato le certezze,
gli oggetti, i nascondigli rassicuranti e sbagliati; quando è scomparsa ogni
fugace illusione e nient’altro è rimasto a sorreggerci, nemmeno la terra dove
poggiare e fondare una speranza un desiderio un perché; ora che sono stesa con
questo dolore nel corpo e tutto intorno è sparito e c’è solo il cielo,
davanti a me, in questo cielo io ti ho rivisto sorridere, André, e ho ritrovato
il tuo amore, ed ho trovato anche me.
Fine
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