Il rossore diffuso dell’aurora
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La quieta luce del primo
pomeriggio filtrava dalle imposte della camera silenziosa, scaldando con una
carezza discreta i toni celesti delle pareti. All’interno, nella calma ovattata
dei mobili rococò bordati in similoro, degli stucchi decorati e dei tappeti
antichi, sembrava che quel sole inaspettato annunciasse una primavera ancora
lontana, prefigurata soltanto, nel cielo vuoto di uccelli di quel fine febbraio.
La donna seduta sulla morbida stoffa della poltrona imbottita raddrizzò il busto
lentamente, poi sollevò con delicatezza il fagottino addormentato che aveva in
braccio, aspettando che le minuscole labbra si staccassero dal capezzolo. Lo
pose sulla sua spalla dandogli piccolissimi colpi sulla schiena, l’orecchio
accostato al visino rosa in attesa muta e serena. Non aveva fretta di riporla
nella culla: le piaceva stare così, ascoltando il respiro soave della bambina
assopita dal latte, che dormiva completamente affidata al suo abbraccio. Dormiva
tranquilla, forse addirittura felice.
Non aveva allattato
nessuna delle altre figlie, secondo l’uso delle donne della sua elevata
condizione: c’erano le balie per questo, e sinceramente non si era mai posta il
problema, nell’adeguarsi. Sfinita dalle fatiche della gravidanza e del parto,
nel ripetersi inesorabile di quel rito sanguinario che avrebbe potuto protrarsi
all’infinito, finché non avesse generato un maschio, le mani che la liberavano
dai piccoli fardelli piangenti che erano il frutto della sua sofferenza erano
sempre un sollievo. Il tempo dopo il parto era una voragine oscura da cui
faticava a risalire, e aveva bisogno di solitudine, per farlo, di silenzio, di
forza per superare la delusione che sapeva di aver provocato, il dolore e la
rabbia che avevano provocato a lei. La pena per quelle creature innocenti che
piangevano, le sembrava, quasi coscienti del loro destino infelice: vivere una
rapida infanzia e andare spose appena alle soglie della pubertà a uomini più
vecchi di loro, poi passare il resto della vita a procreare eredi e rassegnarsi
alla disillusione, se andava bene. Non era una cattiva madre e amava le sue
figlie, ma si rendeva conto, nel passare le giornate con le bambine, che ciò che
faceva soprattutto era cercare di consolarle per quel che le aspettava. Che
provava per loro un amore colmo di pena, la stessa che aveva per sé.
Eppure aveva amato
follemente - caso rarissimo tra le sue coetanee - quell’uomo che i suoi genitori
avevano scelto per lei, quell’uomo bellissimo dai meravigliosi occhi azzurri,
che sapeva anche essere tenero in certi momenti, quelle rare occasioni in cui i
suoi pensieri non erano occupati dal dovere e dall’ambizione. Aveva desiderato a
lungo che lui l’amasse, e, nella sua giovane sollecitudine, si era impegnata a
fondo per compiacerlo, per meritare di essere ricambiata, donandogli ciò che
desiderava sopra ogni cosa, un figlio maschio che perpetuasse la stirpe. E
forse, se ci fosse riuscita subito, le cose sarebbero anche andate in modo
diverso. Lui le sarebbe stato riconoscente e l’avrebbe amata, invece che
diventare preda di quell’ossessione che gli faceva visitare regolarmente il suo
letto con accanimento crescente, quasi con dispetto. Che le aveva reso odiosi
quelli che un tempo erano dolci abbracci pieni di speranza, e adesso un dovere
faticoso cui si sottometteva paziente, consapevole che neanche lui lo faceva
perché la desiderava, ma per un solo motivo. Non aveva mai preso precauzioni,
nei loro amplessi, e col tempo aveva anche smesso di preoccuparsi che quello che
facevano a letto fosse una cosa piacevole anche per lei. Accecato dalla stizza
contro il destino, solo da quello, e dal desiderio di un maschio.
Così, a un certo punto,
lei aveva smesso di sentirsi in colpa, complici l’età più matura e la fatica e
la sofferenza del suo corpo. Aveva cominciato a chiedersi se fosse giusto che la
trattasse così, e fino a che punto potesse umanamente spingersi il comprensibile
desiderio di un erede. Aveva cominciato a dirsi che lei non aveva nessuna
responsabilità, che era stata per suo marito una buona moglie e che avrebbe
meritato lo stesso amore che gli aveva sempre donato incondizionatamente; e che
lui, invece, non era un buon marito. Che non meritava tanta dedizione. Non aveva
smesso di amarlo, questo era impossibile. Ma aveva cominciato a staccarsi, a
costruirsi uno spazio privatissimo, nella mente e nel cuore, in cui dire
apertamente queste cose alla sua coscienza, in cui amare se stessa, ciò che era
e sentiva, dove trovare risorse razionali per decifrare obiettivamente la vita e
per affrontarla. Forse era stata questa la sua salvezza.
Il ruttino soddisfatto
della piccola Oscar la distrasse da quei pensieri e le strappò un sorriso. Oscar
François de Jarjayes, che nome impegnativo per una creatura così piccola,
femmina per giunta...
Quando, poco dopo il
parto, le avevano riferito cosa era successo nella grande sala padronale, con
suo marito che alzava al cielo la sesta infante come se fosse un maschio, alla
maniera solenne dei Romani, e la chiamava Oscar, con il pianto della piccola che
si spargeva per le volte affrescate e le esclamazioni stupite di tutta la
servitù, per non parlare delle cinque altre innocenti che assistevano confuse
alla scena, Marguerite aveva capito che doveva fare qualcosa. Che questo andava
oltre ogni ragionevole tolleranza. Aveva abbandonato la mano sfinita sul
lenzuolo e aveva deciso che non poteva accettarlo. Che non avrebbe permesso a
suo marito di distruggere la vita della bambina, facendone un’infelice che
lottava contro la sua natura. Che l’avrebbe difesa strenuamente e le avrebbe
dato tutto l’equilibrio di cui aveva bisogno per sapere chi era. “Può averti
chiamato Oscar, amore mio, può aver dipinto la tua stanza d’azzurro e averti
messo nella culla un fioretto, ma non riuscirà a privarti della tua identità e a
farti credere che sei un uomo. Non ci riuscirà, te lo prometto”.
***
Per questo aveva deciso
di occuparsi personalmente dell’allevamento e della cura di Oscar. Le dava il
seno, la cullava cantandole la ninna nanna, la cambiava e l’accudiva in tutto,
facendosi aiutare solo da Nanny, l’anziana governante dall’origine modesta ma
dal fiero coraggio, che era stata l’unica a dire apertamente al padrone, con gli
occhi lampeggianti della collera del giusto, che la sua era una pazzia. Siccome
era una vecchietta buffa, il generale ci aveva riso sopra, ma la contessa aveva
taciuto e preso nota di avere in lei un’alleata.
La primissima infanzia di
Oscar passò così, tra le cure amorevoli della mamma e i giochi fatti ridendo con
Nanny nella stanza dei bambini. Marguerite aveva trovato il modo di
contrabbandare tra soldatini e spade di legno una bambola cucita da lei, e
soprattutto chiamava sua figlia “la mia piccola Oscar”, declinando per
lei aggettivi e nomi rigorosamente al femminile. Anche se suo marito una
volta aveva tentato di obiettare, lo aveva fulminato con lo sguardo e gli aveva
chiarito poi verbalmente che mai e poi mai l’avrebbe costretta a parlare a sua
figlia come a un maschio, che poteva dare ordini al resto del mondo ma non ai
suoi diritti di madre. Il generale l’aveva fissata stranito, perché mai sua
moglie, sempre arrendevole di temperamento, gli aveva tenuto testa così. E si
era ritirato borbottando senza sollevare più la questione. Così Oscar era
rimasta femmina grazie a sua madre: in casa sapevano che l’unica a potersi
indirizzare in questo modo all’erede Jarjayes era la contessa, ma anche Nanny,
di nascosto, lo faceva, e per sovrappiù chiamava la piccola “madamigella”,
epiteto che faceva passare il nome proprio cui era accostato.
Poi, un giorno, cominciò
a farlo anche André.
Le piacque subito quel
bambino, che era arrivato con negli occhi lo sguardo triste e maturo del suo
primo dolore e aveva accettato, senza prendersela, di farsi strapazzare dalla
sua pestifera figlia, sorridendo come se sapesse che non c’era niente di cui
preoccuparsi davvero. C’era qualcosa in André, nel suo modo di guardare Oscar e
di sopportare i suoi scherzi, che le ricordava se stessa, non sapeva perché.
Forse, a pensarci bene, perché era Oscar che somigliava a suo padre, e volerle
bene significava, come avveniva nel voler bene a suo padre, accettarla
incondizionatamente per ciò che era. Nella sua passione, nella sua fierezza,
nella sua freddezza a volte così lontana. Marguerite rabbrividì nel fare questa
riflessione per la prima volta, e si augurò di essersi sbagliata
nell’intravvedere il pericolo: Oscar era testarda e andava dritta per la sua
strada, non sempre ammettendolo, se era una strada sbagliata.
André era solo al mondo
quando arrivò a palazzo Jarjayes per ordine del generale, che in questo modo si
era illuso di contrastare le manovre di sua moglie e di Nanny. “In mezzo a tante
donne, mio figlio avrà compagnia maschile”, aveva detto. La contessa era stata
perplessa per quell’iniziativa fino al giorno in cui lo aveva incontrato: quegli
occhi verdi dolci ed espressivi, che avevano già dovuto vedere tante cose, le
erano andati dritti al cuore. E poi il carattere del bambino, serio e riflessivo
ma capace di sorrisi luminosi che sapevano rassicurare e calmare subito Oscar,
era il complemento perfetto del carattere vulcanico e fragile di sua figlia.
Marguerite lo capì subito provando un’intima gioia, ma anche un senso di
sgomento profetico, come se solo per un istante le fosse apparsa la visione di
un destino prestabilito.
Gli volle subito bene e
lo accolse trattandolo con lo stesso affetto con cui trattava Oscar,
comprendendo quanto ne avesse bisogno, così piccolo in una nuova casa piena di
sconosciuti, senza madre né padre. A volte il piccolo piangeva, senza apparente
motivo, rannicchiato in un angolo della stanza, stringendo forte un pupazzo di
stoffa che si era portato da casa sua e che teneva ben nascosto nel suo letto.
Se avesse potuto lo avrebbe preso ogni giorno sulle ginocchia riempiendolo di
coccole, come aveva fatto con Oscar fino a poco tempo prima. Eppure, per qualche
strano motivo, ora non poteva più fare questo con nessuno dei due bambini. Con
Oscar perché, nelle sue scorribande eroiche armata di spada di legno,
disprezzava ormai ogni tipo di smanceria. Con André, invece, per riserbo e
pudore: non erano sue le carezze che il bimbo, si vedeva bene, avrebbe tanto
voluto, e non poteva prendersi la libertà arrogante di sostituirsi alla madre
che aveva perso. Cercava allora di stargli vicino come poteva, trattandolo con
la gentilezza che le veniva da un affetto sincero, con tenerezza e rispetto.
C’era una cosa, però, che
la consolava, quando li vedeva insieme. Che insieme erano felici, e non avevano
bisogno di niente.
Si vedeva bene che, nel
vuoto affettivo in cui si era trovato all’improvviso, André aveva eletto Oscar a
sua famiglia. Istintivamente, e da subito. La gioia che gli davano il vederla
arrivare e il passare giornate intere a giocare con lei era commovente e
palpabile, nell’ingenuità scevra di dissimulazione della sua tenera età.
Scaldava il cuore vedere con quanta premura si preoccupava di lei, nei più
piccoli gesti spontanei del loro infantile stare insieme, e come anche Oscar, a
differenza di quel che faceva con tutti gli altri, gli dava ascolto e si fidava
del suo giudizio. Andava avanti intraprendente portandoselo dietro in mille
imprese domestiche, salvo fuggire a gambe levate quando qualcosa la spaventava,
e nascondersi urlando dietro il suo compagno di giochi. Che, compreso e fiero
del suo ruolo di difensore, le faceva da scudo con le gambe che tremavano, poi
la tranquillizzava buttandola a ridere.
André non si era mai
sognato, neanche per un istante, di considerare Oscar un maschio, e questa era
la cosa che contava di più, per la signora Jarjayes. Come aveva sempre
rassicurato sua figlia sulla sua identità femminile, incoraggiava discretamente
lui a farlo. Un giorno, che avevano litigato e lo vide starsene in disparte con
gli occhi tristi, lo prese amorevolmente da parte e gli fece una carezza sulla
chioma scura, lo consolò offrendogli un biscotto fragrante che veniva dalla
cucina, e lo pregò di perdonare Oscar, che era una bambina un po’ impulsiva ma
gli voleva tanto bene. Lui la guardò con una serietà sconcertante, per un
bambino, e le disse che non c’era niente da perdonare, e che lui lo sapeva che
gli voleva bene.
***
Fu un grosso momento di
crisi il presentarsi del primo ciclo mensile. Sebbene Oscar ne fosse al
corrente, per essere stata debitamente informata da Nanny, sembrava che non
avesse seriamente contemplato l’eventualità fino a quando non si verificò,
all’età di quasi tredici anni. Fu proprio la madre ad accorgersene, vedendola
andare e venire in continuazione dalla sua stanza, sempre più crucciata. Quando
entrò nella camera in cui si era rinchiusa, dopo avere debitamente bussato, la
trovò rannicchiata a terra che si teneva le ginocchia con le mani. Sollevò un
viso costernato nella sua direzione quando la chiamò con dolcezza, gli occhi
azzurri che cercavano di ricacciare indietro le lacrime. Avrebbe sorriso se non
si fosse trattato di lei, la figlia prescelta e disgraziata, ma quel disappunto
e quella rabbia li capiva fin troppo bene, e le fecero stringere il cuore.
“Ascolta Oscar...”
“Madre...”
“Ascolta Oscar - le disse
-, non devi prendertela per quello che ti sta succedendo: è normale, è una cosa
che succede a tutte le donne ed è una cosa molto importante”.
“Madre, ma io non sono
come le altre. Le altre non vanno a cavallo, non portano i pantaloni e non si
chiamano come me!”
“È vero, amore mio, hai
pienamente ragione, e tu non sai quanto sia stata in apprensione per te, per
questa scelta di tuo padre, fin da quando sei nata. Forse un giorno lui cambierà
idea, e capirà di aver sbagliato molte cose con te, ma sarà troppo tardi se non
ci penso io adesso. Oscar, ricordati: portare questo nome e fare cose che di
solito fanno gli uomini non ti rende affatto un uomo. Non credere a chi te lo
dice, perché non lo dice per il tuo bene”.
“Madre, ma allora...
perché...”
“Sai, Oscar, vedendoti
così libera e così felice nei tuoi giochi, così in grado di fare cose che non
potresti fare, se ti avessimo allevata come una fanciulla del tuo rango, ho
pensato che, forse, questo assurdo capriccio di tuo padre poteva risolversi in
un vantaggio per te, nonostante tutto”.
“Cosa volete dire?”
“Ti parlerò molto
francamente, come se fossi già grande. Se ti avessimo allevata come una donna, a
quest’età e dopo l’evento di oggi avremmo già dovuto cominciare a pensare di
sceglierti un marito, e non è detto che sarebbe stato qualcuno di tuo gradimento
o che tu ti saresti sentita pronta a sposare. Tu sai quanto io mi dia da fare
per rendere questa cosa meno traumatica possibile per le tue sorelle, quanto
insista per aspettare che abbiano compiuto almeno diciott’anni, che la scelta
cada su qualcuno che sia abbastanza giovane, che a loro non dispiaccia... ma non
è facile, non lo è affatto... l’uso è molto diverso. E poi chi ha detto che una
fanciulla debba sposarsi per forza, e con qualcuno che non ha scelto lei, quando
sono altri a deciderlo? Sposarsi o entrare in convento devono essere le sole
possibilità di una donna? Ecco, amore mio... io ho pensato che tutto questo, pur
nella singolarità della tua condizione, poteva essere un vantaggio per te.
Poteva offrirti la possibilità di fare esperienze che sono precluse alle altre
donne, e soprattutto poteva consentirti di scegliere. Di scegliere tu cosa vuoi
essere, nel tuo cuore. E soprattutto quando, se, e chi vorrai amare”.
“Oh, madre, ma cosa
dite?”
“Perché, Oscar, credi che
non potrai amare nessuno, un giorno? Chi ti ha messo in testa una cosa simile?
Ti succederanno tante altre cose che, come quella di oggi, non ti sembreranno
compatibili con la tua vita di soldato. Ma devi imparare ad accettarle e ad
affrontarle, a voler bene a te stessa, ricordandoti di essere indulgente con i
tuoi sentimenti. Tu puoi benissimo andare a cavallo e tirare di spada, un giorno
comanderai battaglioni, o interi eserciti, forse. Ma questo non vuol dire che tu
debba negare la tua natura di donna. Sarai una donna che comanda soldati, ma
sempre una donna, non c’è niente di sbagliato in questo”.
Non era un discorso
facile da far capire a una tredicenne, tanto più una con la storia di Oscar, ma
sua madre ci provava lo stesso, ogni volta che poteva, sperando che le sue
parole gettassero almeno un seme nell’anima della figlia, e che potessero
diventare una risorsa spirituale che portasse sempre con sé, cui potesse
attingere un giorno, quando ne avesse avuto bisogno.
Poco dopo, il periodo
dell’infanzia finì. All’età di quattordici anni, perfettamente pronta e allenata
militarmente, Oscar divenne il comandante della Guardia Reale. Era un titolo più
onorifico che operativo, in teoria, e il generale suo padre aveva brigato per
ottenerlo, ritenendolo il più adatto a lei. Ma quella figlia allevata come un
maschio lo riempì subito di soddisfazione e d’orgoglio, dimostrando che poteva
fare molto di più che decorare il paesaggio intorno a Maria Antonietta,
rendendosi famosa per le sue imprese e la sua infallibile abilità con la spada.
André venne destinato a
lei, diventando suo attendente su consiglio della contessa, che seppe suggerire
la cosa al marito dandogli l’impressione di averla decisa lui.
***
Molti anni erano passati
da allora, e tante, troppe cose erano accadute. Oscar era ormai uscita di casa e
non era più né la bambina né la ragazza di un tempo. Non vedeva quasi più sua
madre, che molto presto era stata promossa a dama di compagnia della regina, con
tacita soddisfazione del generale, che in casa temeva molto di più la possibile
influenza della moglie.
Presosi l’onere di
istruire a dovere “suo figlio” al suo ingresso nella vita adulta, come era
abitudine e dovere dei padri, si
era messo d’impegno nel ficcargli in testa una serie di convinzioni e
comportamenti appropriati. E si poteva dire che ci fosse riuscito, a giudicare
dal temperamento austero, dal carattere inflessibile, ineccepibile e riservato
di Oscar. A giudicare dai suoi successi.
Erano passati quasi
vent’anni, e tutto era andato nel migliore dei modi, come previsto.
Tutto si era
normalizzato, tutto andava bene. Ciascuno stava al suo posto, col carico di
dolore che gli spettava per nascita, a fare ciò che ci si aspettava da lui.
Marguerite guardò malinconicamente dalla finestra della sua camera: il giardino
era ordinato e faceva sfoggio di sé, in quel pomeriggio tardo di primavera,
senza un’imperfezione, senza un difetto che meritasse d’esser ripreso. Era
silenzioso e preciso come un dipinto. Da molti anni non si sentivano più le voci
urlanti dei bambini che giocavano a nascondino, e di Nanny che gli correva
dietro col mestolo. I padroni stavano nelle stanze aspettando l’ora del
desinare, la servitù svolgeva le ultime mansioni nei locali a lei destinati.
Non era cambiato molto,
il palazzo. Restava così, immutabile, come era da secoli e sarebbe stato per
secoli ancora. Solo i sorrisi si erano persi, solo le voci. Solo la fiducia dei
primi anni d’aurora, dei discorsi benauguranti, delle mille cose da fare. Tutto
scomparso, affogato dentro una voragine silenziosa, colma fino all’orlo di
dolore represso, quello che si portavano in volto coloro che passavano per i
corridoi. Quello, sì, presente e palpabile. Nessuno parlava più veramente.
Nessuno rideva più. Forse farlo costava troppa sofferenza.
Non parlavano i due
ragazzi, non più ragazzi, il cuore curvo sotto il peso della loro storia, delle
loro responsabilità ordinarie e straordinarie. Di ciò che avevano fatto. Di ciò
che non avevano fatto. Non era stato possibile intervenire veramente, dare un
aiuto maggiore. La vita era quella, il mondo era quello, e poi ognuno aveva la
sua volontà, il suo sentire, la sua vicenda di speranza e di delusione. Non si
può prevedere né tanto meno fermare ciò che il tempo getta tra i nostri piedi.
Marguerite chinò il capo,
concentrando lo sguardo verso un punto preciso del giardino. André strigliava il
cavallo di Oscar nella fontana del cortile posteriore, in maniche di camicia,
con un’espressione seria nell’unico occhio che ancora vedeva, muovendosi con una
scioltezza che gli veniva più dall’esperienza che dalla reale efficienza di cui
poteva disporre. Lo vide alzare a un certo punto il viso verso la camera di sua
figlia, con le labbra socchiuse, senza un battito di ciglia. C’era un dolore
disperato e composto nel pallore con cui la fissava.
La contessa voltò lo
sguardo verso l’ala del palazzo dove si trovavano gli alloggi di Oscar. E intuì
la sua sagoma, dietro la finestra. Osservava André, nascosta dal riflesso della
luce sui vetri. Notò il gesto rassegnato di una mano portata sotto il ciglio, ad
asciugarsi un pianto silenzioso e nascosto. Una ciocca di capelli le scivolò
lungo il viso.
Le mancò l’aria
all’improvviso, e soffocò un gemito torcendosi le mani in grembo. Si alzò
d’istinto, spalancò l’uscio e si diresse verso la stanza di Oscar, sempre più
veloce, ansando, trovandosi a correre nei lunghi corridoi che la separavano da
lei. Oscar, Oscar...
La porta era chiusa, e
sua figlia non l’avrebbe aperta, lo sapeva bene. Non l’apriva più, da quando si
chiudeva lì dentro a tossire, sola senza nessuno accanto. E poi usciva, pallida
e perfetta, come ogni giorno.
Oscar, sono tua madre,
disse ugualmente contro la porta, immaginandola lì, seduta sul letto, presa nel
suo dolore ostinato, che aveva mille ragioni, mille attenuanti. Quali diritti si
hanno verso un figlio tradito, verso qualcuno che non si è riusciti lo stesso a
proteggere? Perdonami, perdonami, amore
mio...
“Oscar, ascoltami, non ti
chiedo di farmi entrare, ma vieni qui.”
“Madre...”
“Oscar, lascia fuori me,
lascia fuori tuo padre e tutto il mondo, se vuoi, ma non fare questo a lui”.
Parlava in tono basso e accorato, con la bocca accostata al legno dipinto.
“Madre, cosa volete? Cosa
volete ancora da me? Vi prego...”
“Diglielo, Oscar.
Diglielo. Diglielo stasera stessa, ti prego. Questo è quello che vuoi, non
capisci? Non lo capisci? Non perdere questa occasione di farlo, non ne avrai
altre”.
“Madre, io non posso...
non posso...”
“Devi, Oscar, tu devi.
Lui ti ama, è per questo che ti lascia libera. Libera anche di respingerlo a
vita, di lasciarlo morire senza di te...”
“Oh, madre.. siete
proprio voi che lo dite... voi e questa casa, e mio padre, e quest’uniforme che
mi avete messo addosso... cosa sapete di me? Di com’è andata la mia vita? Degli
sbagli che ho fatto? Di come ho ferito le sue speranze? Ho tradito il suo
amore... e adesso io...”
“Ti prego, figlia mia,
non darti colpe che ti paralizzano, non fuggire da ciò che ami, è una cosa
troppo preziosa. Non farlo, se lo vuoi veramente. Credi a queste parole
scandalose, sono le uniche vere”.
“Ma lui...”
“Lui non ha niente di cui
perdonarti, te lo giuro Oscar, e sa che lo ami. Io lo so, ne sono sicura. Me
l’ha detto tanto tempo fa, tanto tempo fa...”
Scivolò lungo la porta di
Oscar, con le mani sul viso, ascoltando i passi di sua figlia che si
allontanavano verso l’interno. Sentì la finestra che si apriva, e il respiro
profondo che fece.
***
La notte era passata in
un silenzio quieto, era quasi l’alba e la prima pallida luce cominciava a
diffondersi sulle cose. Quei mesi erano trascorsi tranquilli a palazzo Jarjayes,
molto più che a Versailles, molto più di quanto accadeva fuori.
Lei non risiedeva più a
corte, ormai da diverso tempo, e le grandi stanze della sua abitazione erano
sempre più vuote, perché Oscar e André erano spesso trattenuti nella caserma dei
soldati della Guardia metropolitana e non tornavano nemmeno a dormire.
In quei giorni c’erano,
però, e madame de Jarjayes era contenta, perché quando c’erano loro, anche se
loro non parlavano quasi, la casa sembrava viva.
Si era svegliata
prestissimo, quel mattino, con la gola riarsa dalla sete. Si era versata un
bicchiere d’acqua dalla brocca sul comodino e bevendo si era svegliata del
tutto. Aveva deciso, allora, di vestirsi e di scendere dabbasso. Le piaceva il
silenzio della casa addormentata, prima che anche la servitù si svegliasse e
intraprendesse le attività consuete, riempiendo le stanze di rumori familiari
che duravano fino a sera. Suo marito aveva passato la notte nel proprio
appartamento, come faceva spesso in quel periodo, restando sveglio fino a tardi
a leggere le sue carte. Madame de Jarjayes, ricordando un’abitudine antica, e,
forse, ispirata da uno strano presentimento, fece una cosa che non faceva più da
moltissimo tempo, da quando la bambina era piccola: passò a dare un’occhiata a
Oscar nella sua stanza.
***
“Tu non farai niente del
genere, François”.
Lo disse tranquilla,
sollevando il viso dal ricamo che aveva in mano e togliendo gli occhiali che
usava quando lavorava di precisione.
Suo marito la guardò
sbalordito, ancora ansante per la rabbia delle minacce mortali che aveva appena
proferito, in contumacia, contro Oscar e André.
Erano stati imprudenti, e
lei non era stata l’unica a vederli. Qualche solerte leccapiedi aveva informato
il padrone di averli visti baciarsi nelle scuderie.
Be’... quello che aveva
visto lei era qualcosa di meglio. Sorrise brevemente, ripensando alla scena dei
due, addormentati e indubbiamente nudi, avvolti in un abbraccio tenerissimo
dalle lenzuola, nella luce tenue dell’alba. Madame aveva sussultato di sorpresa
e gioito intimamente della scoperta, non senza apprezzare con un’occhiata la
pregevole fattura della gamba di André che spuntava sopra il drappo di tela di
Fiandra, con sua figlia abbarbicata intorno. Aveva chiuso silenziosamente la
porta che i due sciagurati avevano dimenticato accostata, e serrato l’anticamera
con la chiave, che aveva fatto ripassare sotto l’uscio perché la trovassero.
“Cosa avete detto,
Signora?”
Il generale si voltò
esterrefatto, al sentire quelle parole di sua moglie, sorprendenti nella forma e
nel contenuto.
“Quello che hai ben
udito, François”.
“Signora, è sconveniente
che voi...”
“Suvvia, marito mio, ti
ho visto con le braghe calate un numero sufficiente di volte per prendermi la
libertà di darti del tu. Ecco, bravo, siediti, e rilassati, che alla tua età ti
fa male agitarti. Tu non farai niente di ciò che hai detto”.
“Ma che vi prende?!”
Madame ripose il ricamo
con un sospiro, si alzò e si diresse alla poltrona su cui il consorte si era
seduto, tenendo le mani sui fianchi. Gli puntò contro un dito.
“Mi prende, François, che
sono stufa di stare a guardare mentre ti accanisci a rovinare la vita di mia
figlia, che poi è anche tua figlia, e tra l’altro è l’unica tra tutte che ami.
Adesso tu prenderai il diligente spione che ti ha riferito queste cose, gli
farai un bel regalo in denaro, poi lo spedirai con tanti ringraziamenti a
Timbuctù o in un luogo limitrofo, da dove non dovrà tornare mai più in questa
casa. E non farai niente, assolutamente niente. Lascerai Oscar libera di vivere
la sua vita”.
“Ma lei...”
“Lei si è presa
finalmente quello che è suo. Ha trovato l’amore ed è felice, per quel poco che
le resta da esserlo, e ti dirò che me ne infischio grandemente se la sua scelta
non corrisponde ai tuoi canoni araldici. Quanto credi che potrà durare ancora
questo modo di vedere le cose? Quanto credi che dureremo ancora tutti noi? E
forse è perfino un bene...”
“Ma siete... sei
impazzita? Sei pazza, Marguerite? Come puoi dire cose simili?”
“E tu perché non apri gli
occhi, eh? Perché non guardi quanto male ha fatto a Oscar la tua assurda
ossessione del figlio maschio? Lei è migliore di qualsiasi maschio avrei mai
potuto partorire, ed è tutta la vita che la fai sentire inadeguata, come se
dovesse fare non so cos’altro per meritarsi il tuo amore. Per fortuna che la
presenza di André, che l’adora, ti impedisce da sempre di perpetrare il
misfatto”.
“Il nipote della
governante, per tutti i santi!”
“Non bestemmiare, non è
da te. Conosco quell’uomo meglio di te, fin da quando era bambino, e posso
assicurarti che non avremmo potuto avere fortuna più grande del vedere Oscar
legata a lui. L’ha amata per la sua intera esistenza e l’amerà fino alla morte.
E soprattutto, mio caro François, la rispetta. L’ammira. Sa starle vicino senza
schiacciarla, dandole tutto l’appoggio e il conforto di cui ha bisogno. Non ti
sei accorto di quanto lei ne ha bisogno, soprattutto adesso che è malata? Non ti
sei accorto che Oscar è malata, tu che vedi tutto e che pensi a tutto?”
“Come malata? E cosa...”
Marguerite fece un
sospiro tristissimo, si asciugò le lacrime con le mani.
“È gravemente malata -
proseguì serissima -. Ho visto il dottore ieri. Quella tosse ricorrente, quel
pallore e tutti i sintomi che ha da tempo fanno pensare alla tisi. Ha detto che
se continua in questo modo non vivrà più di sei mesi”.
Tacque, per dare il tempo
al marito di assorbire il colpo.
“Stai buono François, so
che adesso vorresti alzarti e andare a rivoltare il mondo per fornire a Oscar
tutti i dottori e le cure che la scienza medica possa offrirle, anche se poco fa
parlavi di ucciderla. L’ho già fatto io, possiamo spendere a piene mani dal
nostro patrimonio per questo scopo. Purtroppo i soldi non bastano. Oscar ha
bisogno di una vita sana, serena, e di tutta la felicità possibile, oltre che di
cure. Quindi ha bisogno di André”.
“Mio Dio... cosa faremo
adesso?” Il generale si portò le mani al viso, distrutto, gli occhi pieni di
lacrime.
“Non lo so - sospirò -.
Forse la domanda giusta è cosa faranno loro. Non dobbiamo metterci in mezzo ed
essere invadenti, nonostante il dolore e la pena che proviamo. Devi essere forte
e controllarti, François, e ricordare che, se davvero a Oscar resta poco da
vivere, la cosa più importante è che lo viva come ha scelto lei”.
“Ma... cosa faranno,
allora?”
“Non so nemmeno questo.
Oscar non ne ha mai parlato con me, anch’io ho appena scoperto tutto per caso.
Credo che vogliano andarsene da qui. Il
problema è per andare dove”.
“Ma lui.. lo sa? Lo sa
che Oscar sta male?”
“No. Non credo che
gliel’abbia detto, altrimenti non le permetterebbe di continuare a fare la vita
che fa. Strano che non se ne sia accorto, certo... ma anche lui non sta tanto
bene, purtroppo. Non è in condizioni di accorgersi di diverse cose”.
“Mio Dio... ma allora
bisogna dirglielo, subito!”
“Hai ragione, François. È
la prima cosa giusta che ti sento dire”.
Marguerite chinò il capo,
addolorata e stanca, e lasciò suo marito accasciato sulla poltrona davanti a sé.
Andò ad aprire la porta del salottino in cui si trovavano, rispondendo al
bussare sommesso che aveva appena sentito. Fece entrare la governante, che si
fece avanti timidamente, portando una busta di carta, e prese dalle sue mani la
lettera di Oscar.
FINE
Dedicato a Luly, a cui ho pensato spesso
scrivendo
* Con un pensiero
affettuoso anche a Sydreana, perché a un certo punto mi son dovuta forzare a non
rileggere “Bees and flowers” mentre scrivevo, se no era un casino.
** Al momento della
scrittura del presente racconto ignoravo completamente i recenti sviluppi
introdotti retroattivamente nella storia del Generale e di sua moglie da Madame
Ikeda con le ultime gaiden, che contrastano palesemente con la mia lettura della
vicenda. Ma penso che, tutto sommato, non me ne farò un eccessivo problema.
pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2016
mail to: alessandra1755@yahoo.it