Controluce
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Nessuno se lo aspettava. Nessuno lo aveva capito, in tanti anni. Nemmeno chi ci stava vicino ogni giorno, chi ci vedeva parlare, guardarci. Lo scandalo è stato enorme, quando ci siamo scoperti.
Il legame che ci ha unito è stato combattuto, disprezzato, come se la sua semplice esistenza avesse qualcosa d’offensivo. Avrebbero accettato più facilmente l’idea della nobildonna che per capriccio si concede allo stalliere.
Ma così no. No. Non io. Non la figlia del generale Jarjayes che dona se stessa a un attendente, non il fiero comandante Oscar che si rifugia tra le braccia di un soldato... Sembrava volessero punirci del fatto che, davvero, io e te vivessimo l’uno per l’altra.
Eppure il nostro è stato vero amore.
Mi viene in mente la faccia di mio padre, quella sera, in fondo alle scale. “La tua vita è salva, Oscar”, diceva. Salva da lui. Aveva negli occhi lacrime di gioia. Sincere. “Sono contento”, diceva. E noi due, insieme, a guardarlo da sopra, senza parole da usare. Stava per ucciderci, poco prima. Non lo aveva fatto solo perché era arrivato quel messaggero, col perdono della regina. Era contento.
Quella notte facemmo l’amore quasi con rabbia, con disperazione. Entrammo insieme nella tua stanza senza nasconderci, senza le accortezze che usavamo da anni, per non farci scoprire. Mi baciasti spingendomi contro la porta, appena entrati, tenendomi stretta con le mani. Mi prendesti così, respirando forte. Poi scivolammo a terra.
Se dovessi misurare quanto ti amo dovrei partire da quella sera: dalla tua figura di spalle seduta a terra, davanti a me, dalla tua mano che deponeva la pistola. Dalla tua voce che rispondeva a mio padre e diceva: “Sì”, voglio sposarla. O morire prima di lei.
Dovrei partire dai nostri corpi uno dentro l’altro, quella notte come tante altre notti, da tanto tempo, ma col bisogno di gridarlo al mondo, da allora: perché in mezzo a tutto quel marcio noi eravamo acqua pura, cielo.
Eravamo fatti l’uno per l’altra, fin dall’inizio. Le nostre anime combaciavano già, quando per la prima volta qualcuno ci mise insieme. Quello che non avevamo dentro lo costruimmo.
Eppure ci volle tempo per riconoscerci. Soprattutto a me, perché a lungo credei ad altre cose, oltre a noi. A tutto quello che mi era stato insegnato. Mi ci volle tempo, e tu lo capisti.
Ci amammo come nessuno mai.
Ma a te dissero come osi, servo. Di me si parlò come se mi fossi gettata via.
Potevo fingere di essere un uomo, fare il colonnello, e andava bene.
Ma non potevo amare te.
Certo, se guardo a quel tempo, da qui, mi chiedo come abbia fatto a resistere. Come abbia fatto a lottare e proteggere quel nostro amore contro tutto, anche contro noi stessi, a volte. Ma poi penso allo sguardo che avevi al mattino, quando mi svegliavo vicino a te; al tepore della tua giacca sulle mie spalle, quel giorno che guardavamo fuori, alla finestra, e a me era venuto freddo; penso al tuo viso sulla mia pancia, in silenzio, con l’orecchio accostato e gli occhi che sorridevano.
E ricordo come.
Oh André... Non è stato niente il dolore che abbiamo avuto, se lo confronto con la gioia di amarti, con la felicità che hai saputo darmi. Che ci siamo dati per anni. Rubandola, prendendocela, a dispetto di tutto. E la complicità, il segreto, che era solo tra noi. Il comandante Oscar e il suo attendente, cresciuti insieme come due uomini di grado diverso: era normale per tutti vederci insieme. Era normale che passassimo giorni e notti fuori. Erano normali le nostre cavalcate che duravano un pomeriggio. Era normale che tu entrassi ed uscissi dalle mie stanze.
Non lo aveva capito nessuno.
Pazzi. Pazzi e ciechi.
C’è un’altra immagine che mi torna alla mente, adesso, mentre ripenso a quei giorni affannati e paghi.
E’ lo sguardo di Girodel a quel ballo dato in mio onore, quando mi vide in abito da sera, come una donna. Ci ero andata per proteggere noi, perché tu volevi rifiutarti di portarmici. Avevi guardato mio padre con un’aria sprezzante, indignata. Stavi per tradirti. Riuscii a fatica, con un’occhiata implorante, a ottenere il tuo silenzio. “Tu non andrai a quella festa”, mi dicesti dopo, nelle scuderie, fissandomi come se volessi racchiudermi nelle tue mani. Ti baciai, ripetei che ti amavo. “Ci andrò e tu mi porterai – ti dissi, e la tua bocca tremava, mentre parlavo -. E non accadrà nulla, devi stare calmo. Devi fidarti di me”.
Non voglio, mormorasti stringendomi. Non sopporto che tutti gli altri ti vedano come io ti vedo. Non sopporto di non avere diritti su di te, davanti a nessuno.
“Tu sei l’unico che ha diritti su di me – ti dissi abbracciandoti, infilando le mani sotto la tua giacca -. Perché sono io che te li ho dati. E nessuno mi vedrà mai come mi vedi tu”.
Ero triste, mentre mi preparavo, quella sera. Tu lo eri di più aspettandomi, con la carrozza. Ma quando scesi con quel vestito azzurro t’illuminasti lo stesso. “Sei bellissima”, trovasti il modo di sussurrare, mentre salivo, appoggiata al tuo braccio. Poi il tuo sguardo fu attraversato da un velo di dolore. “Vorrei che avessi messo quest’abito per me”, dicesti, piano.
“L’ho messo per te” risposi.
La sala era sfavillante di luce, quando vi entrai. C’era un’atmosfera di attesa, la musica. Tanti uomini che parlavano tra loro. Ricordo distintamente il silenzio irreale che si creò.
Mi guardavano con espressioni stupefatte. Gente che mi vedeva tutti i giorni, a corte.
Stupidi, pensai.
Si avvicinò Girodel, per primo. “E’ incredibile... - mormorò a malapena -. Non so cosa dire...”
“Non fatemi il saluto, capitano”, risposi, sorridendo tra me. Si confuse ancora di più. Una piccola rivincita, per quell’ansia che ci aveva creato.
“E ora come potrò dimenticarvi... – riuscì a dire, tornato padrone di sé, mentre mi offriva il braccio per danzare -. Mi avete imposto una cosa crudele”.
“Non temete – risposi pacata -. Non mi vedrete più così. Questa sera ho accontentato mio padre, non accadrà un’altra volta”.
“Dunque non sceglierete vostro marito, stasera...”
“Voi che ne dite?”, sorrisi.
Mi guardò. “No – sospirò rassegnato -. Credo proprio di no”.
Infatti. Non stasera, non qui.
Il ballo lo abbandonai presto, adducendo come ragione un malessere. Privilegio di donna, che sfruttai.
Fuori era fresco e ti vidi subito, ad aspettarmi. Eri seduto su un gradino, in disparte, non lontano dalla carrozza. Tenevi la testa tra le mani.
Ti raggiunsi da dietro. “Mi accompagnereste, signore?”, sussurrai con voce soave. Ti girasti di scatto, trovando il mio sorriso, tutto per te. “Andiamocene via - aggiunsi piano, in tono avventuroso -. Da qualche parte, soltanto noi due...”
Da qualche parte, dovunque, con te. Quando eravamo insieme avevo voglia di fare tutto. Mi faceva sentire bella, quell’abito. Volevo esserlo solo per te.
“Dove vuoi che ti porti?”, chiedesti, lo sguardo acceso, intenso.
“Dove vuoi tu...”
Lo dissi a bassa voce, chiudendo gli occhi, piegando un po’ il capo da un lato.
Mi facesti scendere in una radura, all’inizio del bosco. C’era silenzio. E la luna. E cantare di grilli. Prendesti le mie mani, con le tue, e alzandole lievemente apristi le braccia, per contemplarmi.
Poi mi cingesti la vita e ballammo a occhi chiusi, al suono delle foglie. Sempre più stretti. Non so se sia durato un minuto o tutta la notte.
Ricordo solo le tue labbra, poi, sulla mia spalla nuda, e le tue dita che sfioravano delicate il vestito, insinuandosi nella scollatura, lungo la linea del seno, lentissime. E come sembrava che avessi paura di gualcirmi mentre mi amavi, in un’estasi rapita e dolce, che mi dava alla testa.
Non ricordo quante volte mi dicesti ti amo.
Quella sera ci costò quasi il restare insieme. Ci addormentammo sull’erba, abbracciati, dimentichi di tutto ciò che non fosse noi. Fu il freddo della rugiada a svegliarci, ed era tardissimo, per qualsiasi scusa. Rientrammo in silenzio, a palazzo, dai giardini sul retro. Lasciammo la carrozza nella rimessa e scivolammo in casa dalla porta della servitù. Ci mancava il respiro, per le scale, dall’emozione. Ma quando fui al sicuro, nella mia stanza, mi invase un piacere complice, col sollievo.
Di solito stavamo più attenti. Era il mondo che avevamo intorno a renderci accorti, controllati. Sapevamo portare le nostre maschere, di fronte agli altri. Era il prezzo da pagare, ne eravamo coscienti.
Nessuno se ne accorse mai, finché non fummo noi a volerlo. Accadde quando la forza vibrante nei nostri cuori divampò all’esterno, impossibile da contenere. Quando non ci importò più che lo sapessero tutti, perché l’unica cosa che avevamo in mente era andarcene insieme, lontano da lì.
Ma quando gli altri lo seppero fu quasi la fine. La voce si sparse in un lampo dappertutto. Quell’unico giorno che mi recai a corte, per rinunciare ai miei gradi, dovetti passare in mezzo ad ali di bisbigli indiscreti. Di sguardi avidi, dita puntate, risate furtive.
Non
che non fossi abituata a sentirmi osservata: da sempre il comandante Oscar era
un’attrazione. Ma prima la curiosità era deferente, persino ammirata. Potevo
ignorare ogni cosa, senza posarvi gli occhi. Quel giorno, invece, vidi
espressioni di scherno ottuso, di soddisfatto disprezzo. Quasi come di vendetta.
Tutte le donne che non avevano avuto la mia libertà. Tutti gli uomini che avevo
battuto con la spada, o respinto. Sembrava fossero uniti nella rivalsa. Era
diversa da noi non perché era più in alto: le piaceva rotolarsi nel fango.
Non potevano farmi male, questo no. Ma avevo paura, perché potevano farne a te.
Al ritorno mi venisti incontro, e avevi del sangue sul viso, uno sguardo stravolto che cercavi di nascondere. Non mi volesti dire cos’era accaduto, ma lo seppi lo stesso, perché era l’argomento del giorno, per le cameriere. Ti eri picchiato con uno dei servitori. Allora raccontaci, ti aveva detto, com’è stare tra le gambe di un’aristocratica? Dev’essere una soddisfazione sbatterti la notte una che ti dà ordini tutto il giorno.
Tu non me ne parlasti mai.
Ma non era dei domestici, che mi preoccupavo.
Era il disonore per la famiglia, a farmi paura. Mio padre fuori di sé, che ancora non aveva fatto niente, e questo era strano e preoccupante. Il fatto che avrebbero potuto ucciderti, e forse lo stavano già preparando. Nessuno si sarebbe stupito, se fosse accaduto. Molti lo avrebbero ritenuto legittimo.
Era pericoloso, impossibile, restare lì. Dovevamo andarcene subito.
Quelle ore furono ore di angoscia vera.
Partimmo la notte stessa.
Fu la paura di perderti, di perdere quello che avevamo insieme, a farmi capire davvero cosa provavo per te. Fino ad allora sapevo di amarti, immensamente. Da allora seppi che non poteva esistere nulla, se non c’eri tu.
E pensare che per tanto tempo non lo avevo compreso. Eri come mio fratello, mio amico, passavo la mia vita con te come qualcosa di naturale. Come se fosse ovvio averti sempre accanto. Ti amavo già, questo lo capii dopo: ma non lo avvertivo, ancora. Tu invece sì, sapevi già tutto.
Ma capisti il peso che mi schiacciava, da sempre. E che non potevo riconoscerlo, sarei impazzita.
Mi rimanesti vicino per proteggermi.
In questo modo mi hai dato il tuo amore, fino a quel giorno.
Di quel giorno ricordo un’immagine, in particolare. Il tuo volto sorridente, abbronzato dal sole, il disordine delle ciocche che scendevano sulla fronte, il lieve ansare del tuo petto, dopo la corsa. Ricordo le maniche rimboccate della camicia, sui tuoi avambracci di uomo. E il brivido, inatteso, che mi percorse.
Non so perché provai tutto questo, all’improvviso.
Ma tu lo capisti subito, afferrasti al volo lo sguardo che ti rivolsi senza volerlo. Mi fissasti per un interminabile istante, senza ridere più.
Da quel momento tutte le frasi che ci dicemmo furono a caso. Stavamo seduti, sotto quell’albero, lasciando che il vento ci sfiorasse con l’emozione. I nostri occhi si cercavano per sfuggirsi. Quando col braccio mi avvolgesti le spalle, al tramonto, come tante altre volte avevi fatto, la sera, il mio corpo ti rispose da solo con un sussulto. Poi sentii il tuo respiro e le tue labbra, sul viso, e il mio respiro tremare insieme, impazzito, e il calore della tua bocca, dentro la mia.
Persi la testa tra le tue braccia, sotto i tuoi baci. E anche tu la perdesti. Ci baciammo per un tempo infinito, senza dire nulla. Poi la sera salisti in camera mia e ci baciammo ancora, a lungo, sul mio letto, con addosso i vestiti. Mi baciasti per tutta la notte, senza fare nient’altro.
Fu quella notte, avvertendo la mia natura di donna risvegliarsi in una frenesia incontrollata, e supplicarti con tremiti ebbri di non smettere mai, e chiamarti, sconfitta e felice, e chiederti quasi pietà, e sussultare alla fine di un piacere impensato, ignoto, al solo abbraccio del tuo corpo col mio, fu quella notte che compresi ogni cosa su di noi e su di me.
Ti avrei dato me stessa fin da quel primo giorno. Fosti tu ad aspettare ancora, perché volevi che fossi pronta, che lo volessi davvero. Perché amavi venire da me, nel mio letto, a baciarmi, a sfiorarmi per ore, ogni notte, ad accrescere prolungando l’attesa il tuo bisogno di me. Mi facesti quasi impazzire, ogni notte di più, ogni notte scoprendo carezze appassionate, estenuanti, nei respiri che sfioravano l’anima e la tendevano fino allo strazio, resistendo al desiderio spasmodico che t’invadeva, che vedevo e mi trascinava febbrile, senza darsi mai. Fosti tu ad aspettare, finché piansi di desiderio di te, e piangendo t’implorai di farlo, con parole travolgenti e impetuose che non conoscevo, che mi uscirono dalle labbra frementi terminando in un grido.
Solo allora ti desti a me, con amore infinito.
E conobbi che cos’era, l’amore. Sentirti gemere, in me.
Eravamo noi due e i nostri cuori. E che importava se per tutti gli altri era inconcepibile, se quel legame sarebbe parso un assurdo, a chi stava intorno. Ero tua, tu eri mio, non c’era nient’altro.
Facevamo l’amore, tutte le notti.
La prima volta, dopo averlo fatto, sembravi quasi smarrito. Guardavi il soffitto, disteso, tenendomi stretta. Eri serio, non dicevi parola. Quando cercai di alzarmi il tuo braccio mi fermò e mi trattenne, mi riportasti sul tuo petto ancora, stringendomi. “Dimmi che mi ami”, dicesti sottovoce, con gli occhi chiusi, come se la tua vita dovesse dipendere dalla mia risposta.
Al mattino, andando a Versailles, restammo in silenzio. Presi servizio e diedi i miei ordini, come sempre. Sentivo il tuo sguardo su me, e per un istante la mia voce tremò. Pensai al filo d’erba con cui avevi sfiorato il mio viso, in giardino, un’ora prima, quando ero scesa da te e mi avevi visto in uniforme, e mi avevi rivolto un sorriso protettivo, colmo di una gioia intensa e quieta.
Fui felice. Tanto felice che sentii il desiderio di chiudere gli occhi, in mezzo ai soldati, nella piazza d’armi.
Non fu facile far finta di niente, quei primi giorni. Si era come accesa una luce, dentro di noi. Appena soli ci sfioravamo furtivi, ci baciavamo in fretta, e rimaneva il sapore, sulle labbra umide, quando poi entrava qualcuno e noi parlavamo, indifferenti. Mi sembrava quasi che quel bacio si potesse vedere, tanto lo sentivo, ancora, su me. E allora portavo alle labbra le dita, per nasconderlo.
A esercitarci con le armi andavamo ancora, da soli. Ma le pistole rimanevano chiuse nella custodia, la spada nel fodero poggiata a terra, accanto ai vestiti.
Ci rifugiammo nella capanna deserta degli attrezzi, un giorno. Chiudemmo tutto, porte e finestre, filtravano solo raggi di luce dalle fessure, in una rete disegnata nell’aria dentro quel buio. E noi nudi in mezzo alla stanza, ad accarezzarci. A guardarci. A conoscerci sempre più, a scoprire intimità nuove, con sempre meno timore.
La notte, tardi, entravi da me, quando la casa dormiva. Una volta portasti vino frizzante. Lo apristi sorridendo e tirasti fuori i bicchieri. Poi non li usammo. Persi la testa bevendo dalle tue labbra.
Imparavamo carezze nuove, scoprendole insieme: perché né io né te sapevamo niente, all’inizio. Ma diventammo bravi, prestissimo.
Era come se fossimo nati per farlo insieme.
Tu eri meraviglioso. Sembrava che la tua gioia fosse tutta nel farmi felice. Imparai ad amarti e a darti piacere, imparai i ritmi del tuo corpo e del tuo respiro, piena d’amore e di gratitudine insieme.
Eri dolcissimo e forte.
E fosti sempre attento. Anche all’inizio, quando non ci pensavo.
Fu una vacanza, che durò settimane. Settimane vissute come volando. Il nostro amore illuminava la casa: c’era un’atmosfera lieta, di cui nessuno intendeva il perché.
Fu un periodo meraviglioso. E finì.
C’era un uomo, il popolo lo chiamava Cavaliere nero. Prendeva di mira le case dei nobili e portava via oro, gioielli. Poi li regalava ai poveri di Parigi. In breve tempo non si parlò che di lui: incarnava le frustrazioni, le speranze, l’ansia di giustizia di tutti coloro che nei sovrani vedevano solo, ormai, continuità con un passato di stenti.
Nei palazzi aristocratici, alle feste, l’argomento era soltanto questo: come se una nuova minaccia non permettesse a nessuno di restare tranquillo.
Un ladro. Ma qualcosa di più, forse. Un ladro con degli amici dietro. Che avevano interesse a esasperare i conflitti, ad acuire le tensioni tra la monarchia e il paese.
Pensai questo, mentre pensavo a come catturarlo.
Decisi di travestirmi come lui, per attirarlo in trappola. Mi procurai un abito nero, un mantello, una maschera.
“I tuoi capelli sono troppo biondi”, dicesti vedendomi abbigliata così. Mi cogliesti di sorpresa, entrando nella mia stanza, mentre mi osservavo allo specchio. Venisti alle mie spalle e mi posasti le mani intorno alla vita. “Hai un corpo troppo esile e snello”, mormorasti sfiorando in un bacio la mia guancia. Ma sentii vibrare un tremito d’apprensione nel tono tenero e protettivo che usasti. Tu sapevi che era la mia vita, quella. Non volevi condizionarmi. “Hai avuto una buona idea – dicesti allora, semplicemente –. Ma è un ruolo che si addice più a me”.
Quel travestimento lo indossasti tu.
Ho maledetto quel giorno per tutti i giorni che ho vissuto da allora.
Il Cavaliere nero... lui sì, lo catturammo. Ma ci fu un duello, tra voi, e io non seppi aiutarti. Non ero sicura di distinguervi, al buio, non sapevo su chi mirare. Così non sparai. Tu fosti ferito a un occhio, e lo perdesti.
Se penso al dolore di quella notte, allo strazio che provai nel vederti a terra, alla mano che portasti sul viso, insanguinata e contratta; se penso alla paura di tutti i giorni a seguire e al rimorso atroce che mi invase da allora, al sapere che ero stata io, col mio progetto assurdo, a provocare questo; se penso a quello che misi in gioco e persi, quel giorno, e in cambio di cosa; se ci penso adesso, che pure è passato tanto tempo e siamo riusciti a uscirne, a uscire da tutto, sento salire una rabbia impotente, dentro, e lacrime agli occhi, e voglia di morire.
Ma questo sentimento tu non l’hai mai condiviso.
Ferito, sul letto, a casa, con la fasciatura sull’occhio, mi dicesti che eri contento che fosse accaduto a te, non a me. E quando piansi, poggiando il capo sulla tua mano, e ti chiesi di perdonarmi, mentre sentivo che io per prima ero incapace di farlo, tu carezzasti i miei capelli e dicesti piano: “Perdono di cosa? E’ successo, Oscar, non è certo colpa tua. Non devi pensare questo, ti prego, non voglio. Io ti amo”.
Eppure da allora ci fu un velo di tristezza a dividerci. E anche quello fu colpa mia. Tu mi chiedesti di liberare quell’uomo. Io protestai e alla fine lo feci. Diventaste amici, non riuscii a capirlo. Avrei dovuto starti vicino, renderti felice ancora più di prima, e invece non sapevo far altro che tormentarmi e odiare me stessa. E anche te, in fondo, perché mi amavi.
Avevamo ripreso i nostri incontri notturni, ma non era più come prima. C’era silenzio, dolore, e un giorno ti disperasti, e mi chiedesti se facevo l’amore con te perché mi sentivo in colpa. Io soffrii atrocemente, e dissi che non mi capivi.
Poi cominciasti a non venire più, e io non ti raggiunsi, nella tua stanza.
Ero giovane, impulsiva, e non conoscevo la vita. Mi ripetevo che avrei potuto evitare ciò che era accaduto. Rifacevo con la mente ogni attimo di quella orribile notte, e ogni volta ne cambiavo il finale, e volevo riscriverlo, e sapevo esattamente cosa fare, allora, e come impedire che tu fossi ferito. Volevo rifare il passato, e provavo un dolore sordo, rabbioso, al pensiero che non era possibile. Un dolore con cui non sapevo convivere.
Ti amavo. Anche quello era il mio modo d’amarti. Immaturo, egoista.
E ci fece male.
Presi in odio la corte, i nobili, i loro gioielli. Non sopportavo di tornarci ogni giorno. Ti impedivo di accompagnarmi nelle missioni. Ero terrorizzata dall’idea che potesse succederti qualcosa. L’unico pensiero che mi calmava era saperti a casa, al sicuro, al mio ritorno. Ti dissi che dovevi curarti, riguardarti, che non volevo che rischiassi per me.
Ti tenni lontano.
Non capivo che facendo così ti davo un dolore profondo, molto più grande della ferita che avevi.
Durò per mesi, e tu diventavi sempre più triste. Più solo. Ti vidi anche ubriaco, una volta.
Pensasti che non ti amavo più, che provavo solo pena per te. Pensasti che volevo escluderti dalla mia vita.
E lo pensasti ancora di più quando ti comunicai che avevo lasciato la Guardia reale per un nuovo incarico. Non devi più occuparti di me, ti dissi. Non devi più rischiare la tua vita per proteggermi.
La tua reazione fu violenta, disperata. Mi baciasti con rabbia, mi spingesti sul letto, incurante del mio rifiuto. Le tue labbra tremavano di collera, di dolore. Erano calde. Mi strappasti i vestiti e mi bloccasti le mani. Erano mesi che non mi toccavi, e il contatto dei nostri corpi ti fece perder la testa. Era come se non potessi fermarti: entrasti dentro di me senza parlare, senza incontrare il mio sguardo sconvolto, attonito. Non c’era nient’altro che tu riuscissi a sentire: solo il tuo dolore immenso e il tuo amore.
Li sentii anch’io, ma con sorpresa, non con paura. Avevo pensato solo a me stessa, tutto quel tempo, ai miei rimorsi e alla sofferenza che il tuo soffrire mi dava. Non a te. Concentrata su quell’assillo, mi ero chiusa a ogni altra emozione: non riuscivo più a ricordare di noi, la profondità del nostro legame. Fino a quando non ti avvertii addosso a me, e, per un paradosso assurdo, in quel tuo gesto disperato e furente io riconobbi all’improvviso solo il tuo amore. E ritrovai tutto il mio.
Mi prendesti senza guardare il mio viso.
E così non vedesti i miei occhi chiudersi, nel sentirti in me. Non ti accorgesti che le mie mani a un certo punto smisero di lottare e strinsero le tue. Non per scacciarle. Non capisti il motivo del mio silenzio, del mio corpo immobile, soggiogato dal tuo, in un’offerta muta. Non ti accorgesti del mio piacere, che mi vinse in un flutto crescente, in un remoto stupore.
Quando ti alzasti da me era come se fossi annientato. C’era sgomento e incredulità, sul tuo viso. Non avesti neanche la forza di dire perdono, e cadesti in ginocchio davanti al letto, piangendo.
Allora venni a terra, con te, e piansi anch’io e abbracciai le tue spalle, e ti passai le mani tra i capelli, baciando le lacrime sul tuo viso. Singhiozzasti disperato, senza difese, il corpo scosso da sussulti violenti, nello sfogo doloroso, sfinito, di un tormento troppo a lungo represso. Ti tenni stretto fino a che non passò.
Fui io che chiesi perdono a te.
E dopo tanto tempo riuscii di nuovo a dirti ti amo.
Volli che tu dormissi con me, quella notte, e ti strinsi per allontanare il rimorso che ti faceva tremare. Ci mettesti tanto tempo a prendere sonno, e anche nei giorni dopo, nonostante il mio amore, ti fu difficile ritrovare il coraggio di guardarmi negli occhi.
Fu una prova che dovemmo affrontare.
Ti arruolasti tra i soldati della Guardia, per restare con me.
Non fu facile, non lo fu affatto. Quei soldati erano uomini del popolo, che odiavano la nobiltà e rifiutavano di prendere ordini da una donna. Il primo periodo fu molto duro, sia per me che per te. Un giorno ti pestarono in cinque, perché avevano saputo che eri stato per anni mio attendente. Ti accusarono di essere una spia inviata da me per controllarli.
Fu atroce. Quando ti vidi a terra sanguinante, in quello stato, mi sembrò che una mano di ferro mi avesse afferrato lo stomaco e lo stringesse. Ti avevano riempito di pugni, calci, tenendoti ferme le braccia. Avevano usato anche il calcio del fucile, per percuoterti. Ed era stata una cosa lunga, perché tu ti eri battuto allo stremo, rispondendo ai loro colpi.
La pena più dolorosa fu non poterti abbracciare, non poter accarezzare il tuo viso, dover usare un’espressione grave e frenare le lacrime mentre il mio cuore gridava, dover ordinare a qualcuno di portarti in infermeria, invece di curare io le tue ferite, nel nostro letto; dovermi occupare di punire i responsabili, invece, col piglio severo del comandante che dà una pena esemplare. Per la prima volta, davvero, sentii di non poter più andare avanti. Per la prima volta compresi che dovevo abbandonare tutto, e fuggire da quel mondo, con te.
Fosti tu ad impedirlo. Sapevi che non era il momento giusto, che era ancora troppo rischioso per noi. Fui sul punto di farmi riprendere dalle stesse paure, ma avevo imparato e resistetti, stavolta. Eravamo di nuovo insieme, e affrontammo ogni cosa.
Tu trovasti anche un amico, tra quei soldati. Era una specie di capo, per loro, si chiamava Alain. Intuì che c’era qualcosa di personale, tra noi, lo intuì vivendoti accanto. Ma pensò che fosse un sentimento impossibile, che tu mi amassi inutilmente. Strinse un rapporto cameratesco, con te, e gli altri lo videro. Così ti inseristi tra loro. Poi cominciarono a stimare anche me, dissero che ero un buon comandante. “Perché lo sei, Oscar”, commentasti tu, serio.
Passò altro tempo.
Ma per la Francia erano mesi difficili, e lo furono anche per noi. Dovevamo garantire l’ordine, ma era un ordine che schiacciava i diritti di una popolazione vessata. Sentivamo sempre di più nel nostro cuore che non ci trovavamo dalla parte giusta. La nostra uniforme difendeva quel mondo che trovava inconcepibile il nostro amore.
A corte, intanto, tutto sembrava stagnare. L’eco di quello che avveniva a Parigi, la reale portata della situazione non arrivavano nei salotti, nei balli. Le vedevamo noi, nelle strade.
A casa andavamo sempre di meno, tanto eravamo presi dal dovere. Erano bei momenti, allora, quei pochi che trovavamo per noi. Sempre più brevi, come ritagli preziosi di vita vera in mezzo a un teatro in rovina.
Ma non sopportavamo di fingere ancora, ci pesava sempre di più. Soprattutto dopo che, ormai, avevamo fatto la nostra scelta. Da quel giorno, dal mio rifiuto di cacciare i rappresentanti del popolo dalla sala dell’Assemblea, da quella notte spaventosa in cui mio padre voleva uccidermi per punirmi del tradimento, per lavare il disonore della famiglia, e tu glielo impedisti minacciandolo con un’arma e capì che volevi fuggire con me; da quella notte meravigliosa in cui facemmo l’amore nella tua stanza, senza preoccuparci che qualcuno potesse vederci entrare, e per la prima volta ci lasciammo andare alla passione che c’invadeva, e ti abbracciai mentre mi prendevi e ti tenni stretto, e ti sentii godere, dentro di me; da quel momento tagliammo i ponti con tutto il resto, e pensammo solo a noi due.
Fu così che ci lasciammo scoprire, e ci scoprì mio padre.
Avvenne settimane dopo, in quella stessa casa. Era di sera ed eri venuto da me, avevamo parlato nella mia stanza, davanti alla finestra aperta, guardando il cielo stellato di luglio. Parlavamo di noi, dei nostri progetti insieme, della scelta da fare. Del futuro che ci attendeva. Eravamo in piedi, di fronte, e mi stringesti la vita, e mi accarezzasti con la mano la nuca, passando le dita tra i miei capelli. E mi desti un bacio dolcissimo, lungo, davanti a quel cielo, mentre il mio corpo ti abbracciava affidato, le mani allacciate, intorno a te.
Fu in quel momento che mio padre entrò, e ci vide.
Non avevo mai visto un’espressione così, sul suo volto. Sembrava diventato di pietra. Il movimento che aveva fatto nello scorgerci mi diede l’impressione che per un istante avesse pensato di uscire, tanto era forte il suo turbamento. Ma era tardi e rimase lì, immobile, davanti a noi. Io e te ci eravamo staccati, ma continuavamo a tenerci la mano, guardandolo, seri.
Non avevamo paura, in quel momento, e anche lui sembrava non avere nessuna forza.
“Come hai potuto...”, riuscì infine a dire, rivolto a me. Io non risposi, continuai a guardarlo negli occhi. Nella mia mente passavano i ricordi dolorosi della mia infanzia, dei suoi tentativi di farmi sentire un maschio, di come mi chiamava figlio, delle carezze che non mi aveva mai fatto, mentre io non vivevo che per meritarle, e non le meritavo mai. Pensai al suo maldestro tentativo di rimediare a tutto molti anni dopo, proponendomi il matrimonio con un uomo qualsiasi, purché nobile come noi; alla sua spada alzata pochi giorni prima sopra di me, pronto ad uccidermi per cancellare l’onta di una scelta giusta fatta contro di lui. Pronto ad uccidere un uomo che amavo più della vita. Pensai a quanto mi era costato trovarmi, e a chi mi aveva aiutato a farlo.
“Non dite niente, padre – risposi allora con voce bassa, serena e triste -. Non trattatemi come una donna adesso. Non mi trattate come una figlia. Non l’avete mai fatto”.
“E’ un servo – disse, e sentii la tua mano chiudersi, nella mia - Ti sei data ad un servo. E’ una cosa oltraggiosa, anormale...”
“Mi sono data all’uomo che amo - replicai -. E cosa sapete voi della normalità? E’ stato normale chiamarmi Oscar?”
Tacque, disarmato. A lungo.
“Fino a che punto la cosa è grave...”, chiese poi, cereo, senza quasi voce, come se volesse rendersi conto fino in fondo della sua disfatta.
“Fino al punto che aspetto un figlio suo”.
Non aveva mai capito, mio padre. Non avrebbe capito più, e non mi aspettavo che lo facesse. Ma rimase così sconvolto dall’accaduto che per un po’ fu del tutto incapace di agire. Io credo che fosse anche un senso di colpa profondo, che lo logorava da tempo, e che non avrebbe mai ammesso. In un suo modo incomprensibile e assurdo mi amava, e il fatto di vedermi così sicura, realizzata dalla mia scelta, lo fermò. Non ne ero certa, allora: ma adesso, da qui, penso che sia stato questo.
Andammo via il giorno dopo, quando tutti ormai sapevano di noi.
I soldati della Guardia si ribellarono al re, e noi con loro. Io li guidai, sulla strada per Parigi. Pazzi, incoscienti, combattemmo alla Bastiglia. Oggi mi sembra una follia, ma allora fu come se non potessimo fare a meno di essere presenti, a batterci per la nostra vita. Anche per nostro figlio, che era con noi. Il destino ci risparmiò.
Dopo il 14 luglio partimmo, e nessuno ci vide più.
Sono passati cinque anni, da allora. Sono tua moglie, e viviamo in una casa non grande, ma luminosa, in un villaggio tranquillo e lontano dai clamori della storia. Indosso abiti da donna e ho imparato a cucinare, perché è bello quando sediamo a tavola insieme, la sera. Nessuno sa che mi chiamo Oscar, a tutti ho detto che il mio nome è Françoise, e tu di solito mi chiami amore. Abbiamo avuto una bambina, che gioca con noi e ride e riempie ogni giorno della nostra esistenza. Io desideravo un maschio, all’inizio: era stato troppo doloroso per me il cammino per accettarmi, e non volevo che soffrisse anche lei. Ma poi capii che era questa l’occasione meravigliosa che mi era stata offerta, insegnarle ad essere una vera donna, imparando la vita.
Tu l’adori, e lei adora te: lo vedo anche adesso che sono qui, davanti al nostro letto, e vi guardo dormire vicini, e la sua manina è stretta attorno al tuo dito, mentre sospira con la boccuccia socchiusa.
Mi assomiglia. Ha i capelli biondi, le guance rosee e gli occhi azzurri proprio come i miei. Ma ha il tuo sorriso, e solo questo conta.
Fine
Postilla
La scrittura non andrebbe spiegata ed i titoli ancor meno di lei. Ma c’è una ragione per cui questo racconto s’intitola “Controluce”, e forse vale la pena dirla. Il cammino della vita è disseminato di scelte: compiendole noi prendiamo una direzione, e diventiamo quello che abbiamo scelto. Ogni volta che lo facciamo rinunciamo a qualcosa. E’ così che si cresce, si cambia, in meglio o in peggio che sia.
Ma talvolta ci sono scelte che la vita compie per noi, o decisioni in cui le due alternative sono entrambe compatibili con la nostra natura e col nostro cuore. Così noi siamo, alla fine, solo una delle persone possibili che saremmo potute divenire, e la nostra vita è solo una delle tante vite che avremmo potuto conoscere. Migliori o anche peggiori, spesso. Per questo, se guardiamo in controluce il nostro passato, talvolta possiamo scorgere i tratti sfumati di altre esistenze. Non vissute, o non pienamente. E senza rimpianti, magari. Ma che non ci sono estranee perché anch’esse erano abbozzate nella nostra anima, fin dall’inizio.
Ho voluto provare ad approfondire questa riflessione. E cercare di capire cosa sarebbe accaduto se Oscar e André avessero riconosciuto il loro amore in tempo per permettergli di realizzarsi nella sua pienezza. E vedere se, anche così, le loro nature sarebbero rimaste le stesse, i loro caratteri compatibili con quelli che abbiamo conosciuto nella loro “vera” storia. Per farlo mi sono affidata alla convinzione di Pirandello che un personaggio, una volta creato, inizia a vivere di vita propria, e non puoi fargli fare cose che siano in contrasto con la sua natura, con la sua individualità già definita. Sta a voi giudicare, dopo aver letto questo racconto, se quello che dico è vero. Se ci sono riuscita.
Io li ho solo guardati controluce, ed è così che ho visto quello che scrivo qui.
Alessandra
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