Agenzia matrimoniale

parte quarta

 

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Dove due intrepide e caritatevoli autrici si avventurano nell'arduo e periglioso cimento di un'impresa mai tentata prima: dare una risposta plausibile all'insoluto enigma dell'eremitaggio di Alain. E, spinte da pietosa misericordia nel constatare che il Nostro si ritrova alla fine inesorabilmente solo e sperduto ad onta dell'ipertrofia cardiaca e del metraggio pettorale, nell'impossibilità tecnica di procedere a un'adozione congiunta, si mettono d'impegno nella parimenti impossibile missione di trovargli una moglie.

La vicenda – per evitare sacrileghe profanazioni della storia originale e conservare un minimo di decenza - è ambientata ai giorni nostri, e si dipana lungo le pagine di diario vergate simultaneamente dai protagonisti ignari di quali trame si svolgano alle loro spalle. La responsabilità di quanto contenuto nel diario di Alain è da addebitare a Elisa, quella del diario della di lui presunta metà ricade invece in toto su Alessandra.

 

 

23 novembre 2002, sabato.

Adesso sono a casa. Malconcia, tutta un cerotto, ma sono a casa. I medici hanno detto che è stata una fortuna. Sarà… io non mi sento tanto fortunata, ora come ora. Ma in effetti è vero, poteva andarmi peggio. Ho fatto solo cinque giorni d’ospedale e mi hanno dimesso: non è molto per una che è stata investita. E pensare che attraversavo pure sulle strisce, diligente come sempre… ecco a che serve l’osservanza delle regole, a far prendere meglio la mira ai pirati della strada. Oddio, questo non era un pirata… era una vecchietta di ottant’anni su una Bianchina anteguerra, con dentro la macchina pure il gatto. Non è che non l’ho vista arrivare, è che mi spostavo per evitarla e lei sterzava dalla stessa parte. Ci ho provato due o tre volte, come quando cammini per strada e incroci qualcun altro a piedi, e tutt’e due vorreste cedere il passo, ma invece vi venite incontro. Solo che quella era in macchina e io no, e alla fine invece che frenare ha lasciato il volante e si è messa le mani sul viso urlando. Ma io dico, perché danno la patente alle trisavole miopi? Per fortuna andava a trenta all’ora, non di più, e io mi sono spostata abbastanza perché mi prendesse di striscio, così ho preso una bella botta alla gamba, escoriazioni assortite, ma insomma niente di vitale. Solo che se mi guardo allo specchio mi viene un magone…ho più ammaccature di Rocky dopo l’incontro con Ivan Drago. Ci mancava solo che mi dicesse: “Ti spiezzo in due”…Comunque il viso non è messo malissimo, e il dottore ha garantito che in pochi giorni torna tutto a posto. Speriamo.

Ma si può essere più sfigati di così? E poi, se proprio una dev’essere investita, almeno un po’ di dignità… non pretendevo di finire sotto una Ferrari, ma insomma… ci sarà pure una via di mezzo tra una Ferrari e la bisnonna di Fantozzi, no? Una cosa ingloriosa, davvero. Comunque dev’essere stata una scena divertente, vista da fuori, con questa vecchia coi capelli viola che urlava, il gatto che saltava dappertutto e io proiettata a tuffo sull’asfalto come Buffon ai mondiali, con tutte le meringhe alla panna che volavano in aria dal pacchetto che avevo in mano. Gliel’ho detto pure a Nicola, che doveva essere stato divertente, ma lui non c’è riuscito a ridere, era appena successo. Io volevo sdrammatizzare un po’, ma lui era pallidissimo, mi teneva la mano, e tutte le volte che vedeva un dottore passare gli andava dietro per sapere se era tutto a posto. Si è tranquillizzato davvero soltanto oggi che mi hanno dimesso.

Poverino, l’ho fatto preoccupare. E pensare che mi ero fermata in pasticceria per comprare le meringhe, così dopo cena ce le mangiavamo, che le meringhe alla panna che fanno qui sono una libidine fuori dal normale. Ma lasciamo perdere la libidine, che è meglio… Porca miseria, io pensavo che uno di questi giorni… sì, insomma… andava proprio bene, stavamo sempre insieme…non è che non ci pensavo a quello che poteva succedere… e invece guarda che roba, invece che un completino di pizzo mi tocca mettermi la maglietta della salute, e già m’è andata bene che non sono fasciata come la mummia.

Per fortuna Nicola sembra non farci caso. Ha persino voluto passare la notte in ospedale con me, quel giorno. Poi ce l’ho fatta a convincerlo che non serviva, che poteva tornare a casa. Non mi va che mi veda come un’invalida, insomma. Sono due notti che passiamo insieme e la prima volta gli ho fatto fare la baby sitter, la seconda l’infermiera. No, non se ne parla, come se già non fosse il tipo che si carica sulle spalle tutto il mondo, ci manca solo che si carichi anche me. No, non voglio diventare uno dei suoi assistiti, non è così che mi sento, con lui. E per fortuna che posso fare da sola, adesso che mi hanno portato a casa, sennò l’invasione dei miei non me la levava nessuno, e a loro ho dovuto dire che mi avevano dimesso subito per evitare che mia madre si piazzasse qui per un mese a cucinarmi brodini. No no, l’unica cosa certa è che in questo modo sto più tranquilla e di sicuro guarisco prima.

E poi ci sono anche Manuela e Andrea che mi vengono ad aiutare, oltre a Nicola. Lei mi fa la spesa e passa qui ogni volta che finisce il turno. Lui… beh… se non c’era lui mi sa che a Nicola lo spavento gli veniva molto peggio di come gli è venuto. Andrea ha saputo subito cos’era successo, prima di lui, perché gli ha telefonato un collega che era sul luogo dell’incidente a fare i rilievi: ha visto me, ha riconosciuto che ero quella che passeggiava con Nicola quel giorno al parco, e per non preoccupare Nicola ha pensato di chiamare Andrea. Vedi che significa avere degli amici carabinieri in una città piccola… Una vera fortuna. Così Andrea si è precipitato sul posto, ha visto quel che era successo, ha preso la mia macchina ed è andato a prendere Nicola, che sapeva che era a piedi, quel giorno, perché al lavoro l’aveva accompagnato lui… Io non ero troppo in sesto per spiegarglielo, in quel momento, ma gli ho detto che mi aspettava davanti alla caserma e lui ha capito. Oddio, quando Nicola ha visto arrivare Andrea sulla mia Panda si è preoccupato lo stesso, ma insomma, meglio così che saperlo per telefono, o non saperlo affatto, visto che non era affatto detto che informassero lui… insomma, mica è mio marito, o mio fratello… Fortuna che c’era Andrea, sì. Con me è stato grande, ero un po’ spaventata in quel momento, e ha saputo farmi coraggio, mi ha sorriso in un modo che mi ha rassicurato. E pure con Nicola è stato bravo, sono sicura. Anche se poi, quando sono arrivati in ospedale e lui mi ha visto ridotta in quel modo, con tutti quei lividi, ha fatto una faccia che sembrava quasi si stesse per mettere a piangere. Ma solo un attimo, perché ha capito che sennò avrebbe fatto piangere me.

Insomma, ora sono a casa e più o meno va tutto bene. Ho preso due settimane di malattia, al lavoro, e ho tutto il tempo per rimettermi in sesto. Tempo libero ne ho, anche per scrivere questo diario, che mi ci sono affezionata. Sempre se riesco a rimanere sola in casa, perché Nicola ha preso una settimana di ferie e praticamente sta sempre qui, gli ho dato anche le chiavi. Oggi non ha sentito ragioni, e ha preteso di portarmi a casa in braccio, perché non facessi le scale da sola. Oddio, io le scale le potevo fare benissimo, ma in braccio a lui ci sono stata molto meglio…

Ora mi do una sistemata, prima che torni, non voglio che mi veda in camicia e vestaglia. Uffa… Parola mia, appena passa questo momento, giuro che spendo una fortuna in biancheria e cosmetici e mi metto in tiro più di una star del cinema, e poi lo invito a cena fuori. Voglio proprio vedere se riesco a fargli l’effetto che dico io.

 

 

30 novembre 2002

Che gran rottura di palle. Cazzo che sfiga cazzo che sfiga. Nadia due domeniche fa è stata investita dalla trisavola di Fantozzi. E già, vabbè. Lì per lì mi sono impanicato perché c’ho una certa età e dopo tante traversie certi traumi di gente all’ospedale non li reggo più. Ma non è questo l’importante. Cioè, è importante ma non adesso. E’ che non ho scritto per una settimana perché sono stato sempre a casa sua. Mi potevo mica portare il diario da quindicenne a casa della mia donna? Matto sì, deficiente no. E poi, insomma, lei sta benone ormai, e stasera io pensavo di concludere qualcosa Sì, insomma, ho dormito nel suo letto tutta la settimana e, insomma, mica sono di ferro. Lei manco, per fortuna. Insomma, dopo un po’ alla fine uno si lascerà pure andare, uno c’avrà pure il diritto di lasciarsi andare. Mica che a 30 anni passati uno può passare il suo tempo a pomiciare all’infinito. E che cazzo. Poi lei mi fa morire dal ridere, che se ne andava in giro per casa col coraggio da indiana Jones traballante e la camiciona da notte con la mucchina. Cioè, “la mucchina” la chiama lei, perché questa camicia c’ha stampata una mucca che ride e tiene un fiore in bocca sul davanti e sul dietro c’è il sederone della stessa mucca. Fa ridere. C’ha tutte ‘ste cose buffe così, Nadia, per stare dentro casa. E poi ridevamo di tutto, pure delle mucchine e dei conigliotti e delle pantofolone. E poi ormai eravamo entrati proprio un confidenza. Lei m’ha pure detto che appena esce di casa si va a comprare qualcosa di decente per il sotto. Ma io gli ho detto di no, che tanto è uguale, perché le mucchine e i conigliotti morbidosi mi mettono di buonumore e che comunque tanto poi glieli levavo lo stesso e che quindi non faceva mica differenza. E invece arriva l’amico frizzi a salutarla. L’amico quello suo, Francesco. Un tempismo allucinante. Mandarlo in albergo per far rimanere me lì non pareva il caso, farlo dormire sul divano e io nel letto faceva brutto, fare l’inverso manco a parlarne, e allora ho sloggiato. Alla fine era la soluzione più logica, considerando che ‘sto tipo non lo sa... Insomma, Nadia si è dimenticata di dirglielo perché è un bel pezzo che non lo sente e a lei non gli è passato manco per l’anticamera del cervello di chiamarlo perché c’aveva altro in testa. Io ho capito, io. Ma all’amico frizzi non gli poteva mica venire il dubbio di chiamare, prima di salire sul pullman fino qui. No. Però a me mi deve venire l’idea di sloggiare. Eh, beh. Che poi sto fine settimana ho pure fatto sloggiare Sorma che voleva venire a trovarmi e io gli ho detto di no che avevo da fare. E poi è pure tanto che non la vedo e le ho detto di no per stare con Nadia. Per una volta che ne trovo una, di donna, che non mi tira delle manfrine lunghe una quaresima e che c’ha pure il senso dell’umorismo e puoi scherzare, dico, me la tengo stretta, finché dura. Che poi ‘sto Francesco non pare neanche antipaticissimo. Cioè, se almeno avvertiva prima mi rimaneva di sicuro più simpatico, però... E quindi, in conclusione, mi ritrovo il sabato sera a casa da solo, che:

1)      Potevo stare a sgaribaltarmi nel letto con Nadia

2)      Potevo stare con mia sorella che mi ha pure detto che voleva venire per chiacchierare. Ma stai a vedere che appena posso la vado a trovare io.

3)      Andare a fare bisboccia.

Anzi, adesso vado a rompere le palle ai due. Così almeno non sono il solo a soffrire per il terzo incomodo.

Ma ‘sta gente, perché non si trova una donna sua invece di andare dalle amiche? Non ho mica capito, io.

 

 

Domenica 1 dicembre 2002. Sera tardi.

Nicola non ha ancora chiamato, e io non riesco a trovarlo. Lo fa apposta a non rispondere, lo so. E io non posso uscire. Non potrei, il dottore me l’aveva proibito… Oddio, cosa starà pensando, adesso? No, no, non è possibile… una volta tanto che mi capita una storia che funziona, che funziona proprio bene, una volta che mi sento così, che ci sentiamo così tutti e due… perché mi deve capitare di tutto nel giro di due settimane? Prima la vecchietta killer, poi Francesco che mi piomba in casa senza preavviso e si mette a fare il pretendente che era arrivato prima quando è una vita che siamo amici, e davanti a Nicola si mette a darmi i bacini sulla guancia e a strizzarmi l’occhio che quando siamo soli non lo fa mai, non l’ha mai fatto, e adesso all’improvviso reclama lo ius primae noctis… cazzo che stronzo, stronzo, brutto stronzo testa di cazzo, l’ho sbattuto fuori da un’ora e lo andrei a riprendere per dirgli ancora una volta quant’è stronzo. E poi non è vero niente, non è successo niente, ma Nicola chissà che pensa, adesso, c’è rimasto malissimo ed è andato via senza nemmeno cenare, che stasera lo avevo invitato e c’era pure Francesco, e di sicuro pensa di aver fatto la figura dell’idiota che si fa prendere in giro ancora prima di concludere con la donna che gl’interessa… e adesso non risponde, il cellulare suona, suona ma non risponde, e a casa pure non riesco a trovarlo, ma dov’è andato, dov’è andato, dove…

Francesco si è comportato male, malissimo. Stasera a cena ha dato il peggio di sé. Era tutto il giorno che con me faceva discorsi strani, ma non ci avevo tanto fatto caso… discorsi strani ne fa sempre, tipo le punzecchiatine sul fatto che dovremmo dormire insieme qualche volta… ma io avevo chiuso l’argomento subito, stavolta, gli avevo detto di lasciar perdere che proprio non era il caso. Lui c’era rimasto un po’ male ma era stato zitto. Poi stasera invito Nicola a cena e Francesco si mette a fare lo stupido con me, prima ancora di metterci a tavola: bacini, buffetti, frasi allusive come se tra noi ci fosse chissà che. E io, idiota completa, che ci rimango così male che non sono capace di reagire subito. Poi mi ha chiesto scusa, ma che me ne faccio delle scuse adesso? Era mortificato quando l’ho mandato via, e ci credo, stavo pure piangendo, e mi ha persino detto che si vede che me la son presa di brutto, per Nicola…Ma ha detto che lui pure, però, non lo sa cosa gli è successo, forse se l’è presa di brutto pure lui per me, da quella sera sul divano tanto tempo fa o forse prima, e non aveva il coraggio di dirmelo perché non sapeva, perché siamo amici, perché non credeva che mi trovassi qualcuno, credeva di aver tempo, e c’è rimasto male quando ha visto Nicola e tutta la sua roba sparsa per casa… E allora, appena stasera Nicola è arrivato, s’è messo a fare il confidenziale davanti a lui che non se l’aspettava proprio, ma che ovviamente ha capito subito anche più di quel che c’era da capire. E visto che ieri se n’era pure tornato a casa sua e ci aveva lasciato soli la notte prima, di sicuro ha pensato che l’abbiamo passata a fare orge.

Sono disperata. E arrabbiata, perché non ho fatto niente di male, sono sette diconsi sette anni che non vado a letto con nessuno, con tutte le storie idiote che mi son capitate, e ora ci faccio pure  la figura della troia. Ma cosa c’ho, porca puttana, mi s’è attaccata la sfiga addosso? Mi ha fatto la macumba qualcuno? Ora mi metto a fare la troia davvero, così almeno mi diverto un po’ e sto più contenta, senza tutte ‘ste paranoie. E Nicola non chiama, non risponde. Niente da fare, mi va tutto male. Domani vado a farmi benedire, magari serve a qualcosa.

Sì, sono anche dispiaciuta per Francesco, perché l’ho mandato via così, l’ho trattato malissimo, e ancora lo picchierei se ci penso… ma se ci penso meglio mi viene solo tanta tristezza, che all’improvviso mi si è messo a piangere pure lui e non la finiva più di chiedermi scusa per come si era comportato, e ha cercato di spiegare cosa gli era passato per la mente e per farlo ha tirato fuori un album di tanto tempo fa che si era portato per regalarmelo, un album di quando eravamo all’università, con un sacco di foto di me e di noi insieme che non avevo mai visto, e un sacco di commenti, di battute scritte a pennarello, di frasi su cui ridevamo e che non mi ricordavo più…le bustine dello zucchero che avanzavano perché al bar ne prendevo sempre due per paura che una non bastasse, anche se poi bastava ogni volta… e lui le ha conservate, quelle che rimanevano chiuse, nel piattino. Incredibile, ha conservato le bustine dello zucchero e le ha messe in mezzo all’album… e tutti i post-it che gli attaccavo per casa quando studiavamo insieme per fargli ricordare le cose, che ha sempre avuto una memoria colabrodo, e su quell’album c’erano tutti i giallini coi paradigmi dei verbi e le rotazioni consonantiche, e gli orari degli autobus, che li perdeva sempre quando veniva a fare gli esami… ed era pieno di ragazze, cazzo, c’ha avuto pure la donna fissa per un anno mentre studiavamo insieme, non mi si è mai filato di pezza, anche perché a me non mi veniva proprio in mente di filarmi lui… ma poteva pure dirmelo, insomma, sono dieci anni che ci conosciamo, la maggior parte da single, tra l’altro, anche se, sì, io con le mie seghe mentali per i miei grandi amori mancati e lui con le sue cubiste e le sue fighette supertirate che se me le ricordassi tutte sarei il computer dell’anagrafe, gliel’ho pure detto… e invece me lo dice stasera, mi tira fuori l’album e insomma sembra che è innamorato di me da dieci anni e che da quella sera sul divano di casa mia che poi l’ho chiuso in camera non ha fatto che pensarci, e pensare come poteva dirmelo per non rovinare tutto, tutta la nostra amicizia, e che lo sapeva che aveva perso troppo tempo, ormai, che lo dice sempre anche ai suoi amici che non si devono tirare in lungo le cose ma che con me non gli è riuscito di applicare la regola, e che gli dispiace perché comunque mi vuole bene e gli dispiace davvero se per colpa sua ho litigato con Nicola, che si vede che ci tengo davvero e pure lui a me…

Mi ammazzerei, ora come ora.

Lo dovrò pure richiamare, sì, lo devo richiamare, l’ho trattato proprio male, l’ho mandato via piangendo, dicendo che non m’importava niente di lui e dei suoi album e dei suoi giallini e delle sue bustine dello zucchero e della sua presunzione di arrivarmi in casa senza avvertire pensando che stessi lì da una vita ad aspettare lui e non avessi una vita mia, invece…Ma io ero sconvolta, non me l’aspettavo, non mi aspettavo niente di tutto questo: non lo sono neanche stata a sentire bene tanto ero sconvolta, tanto volevo cercare Nicola e spiegargli che non era vero quello che pensava, che io voglio bene a lui, solo a lui, che stasera io credevo saremmo stati insieme da soli, avrebbe dormito da me finalmente non solo per dormire, e ci scherzavamo pure, in questi giorni, e lui diceva che non dovevo comprarmela, la biancheria di pizzo, che tanto poi me la levava, e a me al solo pensiero mi vengono i brividi anche adesso che chissà dov’è e chissà se vuole rivedermi più…ma io voglio rivederlo, ho bisogno di rivederlo, non è possibile che non mi voglia rivedere più, io ho bisogno di lui, di lui, solo di lui, non posso fare a meno di lui, e se perdo lui non so proprio cosa fare, non ce la faccio più a fare niente, niente…

Basta, non ci riesco a stare qui a cercarlo per telefono, ora esco e vado a cercarlo a casa, o a casa di Andrea e Manuela, anche se è tardissimo, non importa, lo capiranno, io una notte intera con quest’ansia non la passo, non ce la faccio a passarla, non ce la faccio.

Ma perché nella vita è tanto difficile capirsi, dirsi le cose? Perché?

 

Domenica primo dicembre.

Non so più nulla.

Non so neanche se sono incazzato.

No, credo di no, in fondo.

Lei chiama ancora, è l’ennesimo squillo, questo. Non si stancherà tanto facilmente, figuriamoci. Ma sono stanco io. Tanto stanco. Non mi sono mai sentito così stanco come stasera. Adesso squilla il telefono di casa: è sicuro lei.

Non mi sento solo stanco, mi sento vecchio e patetico.

Ecco, l’ho detto: vecchio e patetico.

Non avrei più l’età per storie tutte core e amore, guardiamoci negli occhi e sospiriamo. In verità storie così non le ho avute neanche quando l’età sarebbe stata quella giusta. Vecchio e patetico. Infilarsi in una storia tutto amore e sentimento. Io! Cretino io che c’avevo quasi creduto. Ancora Nadia al cellulare: non demorde. Che mi chiami per dare spiegazioni o per averne, non ho voglia di sentirla. Non adesso almeno.

Patetico che sono: c’avevo creduto e già mi manca. Ancora! Continua! Si stancherà prima o poi? Dovrebbe essere a dormire a quest’ora, dovrebbe riposare.

Mi sento patetico, non c’è niente da fare. Trovo una donna con cui mi piace stare sul serio, questa donna la viene a trovare un suo vecchio amico. Ci sta anche che sloggi io visto che da lei c’ero stato una settimana intera e che comunque avevo un altro posto dove dormire. Ci sta anche che lei mi chiami per fare cena assieme il giorno dopo e conoscere questo suo amico. Ci sta anche questo.

Dai, Nadia, è un’ora che chiami, possibile che non lo capisci ancora che non ho voglia di parlarti?

Poi lo stronzetto me se la prende, me la sbaciucchia, me la spupazza. Che cazzo! Lo so che sono amici da tanto, mi ha raccontato Nadia. Ma, porca puttana, anche io sono amico di Manuela, ma non vado certo a spupazzarmela a piacimento davanti ad Andrea; e neanche dietro. E neanche Andrea, che prima di mettersi con lei era ufficialmente solo amico, si permetteva tutte quelle confidenze bacino bacino, mano sulla vita-pacca sul sedere, con Manuela. Amichevole la pacca sul sedere, certo, però... E Nadia che si guardava attorno stralunata. La cosa più patetica è che all’ultima battutina l’ho preso per la maglia, l’ho alzato, l’ho abbassato e me ne sono andato. Tre anni fa per una donna l’avrei preso a pugni per molto meno. Patetico. Poi ho sentito Nadia che mi urlava per le scale di ritornare. Non se ne parla. Avrei preso a pugni il mondo e soprattutto mi sarei preso a pugni io.

In fondo non lo so manco se è davvero la mia donna: quella notte sul divano non l’ho mica sentito cosa mi ha risposto di preciso. Poteva anche avermi detto “scopiamo in amicizia”, per quello che ne so io. C’avevo creduto. Gran testa di cazzo che sono.

Non ce l’ho con lei. No, davvero, non mi sento arrabbiato. In fondo di ‘sto Francesco mi aveva parlato e mi aveva detto che gli voleva molto bene. Me ne ha parlato quel giorno al mare. E poi, non lo so, lei non sembrava gradire particolarmente tutte quelle affettuosità. Ma, in ogni caso, il problema non è se lei con lui c’ha fatto qualcosa prima o ieri sera. Cioè, sarebbe anche quello il problema, ma se mi fosse capitato qualche anno fa avrei preso a pugni lui, dato della zoccola a lei e tutto sarebbe finito lì: di donne ce ne stanno tante. Il problema è che mi sono invecchiato. E che c’avevo creduto davvero. E, sia come sia, ci sono rimasto male comunque, qualunque cosa sia poi davvero successa. Se lei m’ha fatto o meno le corna non lo so davvero, in fondo. Ma ci sono rimasto male comunque solo a pensarlo, solo a pensarlo. Patetico, mi sento solo un vecchio patetico.

E’ un po’ che non squilla il telefono: si sarà stufata. Meglio così, in fondo. Non me la sentirei di parlarci adesso, riuscirei soltanto ad essere cattivo. Anzi, non cattivo. Non mi viene la parola. Come il wishky invecchiato. Sì, potrei essere come il wishky invecchiato. E, nel caso ci fosse ancora qualche cosa da recuperare, di sicuro a lei gliene farei perdere la voglia. Me lo diceva Manuela, quando Diana stava male, che quando sto così per avvicinarmi bisogna prima  passarci con la ruspa. Non ho voglia di sentirla, non adesso. Perché se adesso mi viene a richiedere che cosa mi hanno fatto io le dico che non mi hanno fatto niente e che sono solo vecchio. E i vecchi puzzano e bisogna passargli alla larga.

Sono contento che almeno ha fatto amicizia con Manuela e così c’ha lo stesso qualcuno che le va a fare la spesa e che se c’ha bisogno di qualcosa l’aiuta. Meno male. Perché io non sono davvero la persona adatta a... non lo so più a fare che. Però sono contento che non sta da sola. A me è meglio passarmi lontano.

Cazzo il citofono! Spero che sia solo qualcuno che non c’ha niente da fare di notte e si diverte a suonare i campanelli. Cazzo suona ancora. Al prossimo, se c’è, mi alzo e se è quella matta di Nadia  le calo le braghe e la sculaccio perché il dottore le aveva detto che doveva rimanere in casa.

 

2 dicembre, lunedì. Prima dell’alba.

Ora sono le cinque e sono seduta al tavolo della cucina, fuori c’è ancora un po’ di luna. Se accendo la luce della cappa ci vedo abbastanza per scrivere. Ma tra poco vado via, prima che si svegli.

Devo andare via, anche se non vorrei. Perché non posso decidere al suo posto, deve farlo lui. Sono un po’ triste ma anche calma, ora che sono riuscita a parlargli. Ora che mi ha creduto.

Non ero così calma poche ore fa, quando sono arrivata qui, a casa sua, ancora sconvolta da quello che era successo, e con in testa così tante cose da dire che poi, quando l’ho visto e ho visto la faccia che aveva, non me n’è venuta più in mente nemmeno una.

Perché non era solo il dispiacere, l’equivoco. Non era solo Francesco e la scena penosa a casa mia, e io che non ho avuto la reazione pronta, tanto ero sorpresa dall’accaduto, e la sua, di reazione, ovvia, di andarsene subito. Non era solo quello. Era che è stanco.

 A un certo punto me l’ha anche detto, ma non serviva, e non serviva neanche che mi spiegasse cosa intendeva, perché l’ho capito subito, appena l’ho visto. Appena mi ha aperto. Non rispondeva al telefono ma era qui, a casa, e quando ho suonato non mi ha fatto aspettare.

Ha detto che era stanco. E poi, molto dopo, quando ormai parlavamo con calma, ma era sempre triste, ha detto vecchio e patetico. Me lo ha detto così, in un modo sincero che non aveva mai usato, come con l’anima sulle labbra, senza pensare a nascondersi.

All’inizio non voleva proprio parlare, non voleva neanche starmi a sentire. Mi ha risposto male, alle prime cose che ho detto, come se non gl’importasse niente di me. Me l’ha anche ripetuto: “Non me ne importa, non devi spiegarmi niente”, e io mi sono sentita come se tutto quello che avevo pensato di dire mentre andavo da lui fosse inutile, stupido. Senza senso, come la prima frase che ho detto entrando: “Niente di quello che hai visto stasera è vero”. Che stupida, a dire una frase come questa, come se dovessi scusarmi di qualche cosa, come se il punto fosse chiarire che non c’entravo niente…un equivoco sorto per caso con un amico – ex amico, ormai – che all’improvviso si mette a fare il pretendente geloso mettendomi in mezzo. Come se si trattasse di quello, solo di quello.

Non si trattava di quello, si trattava di noi. Di ciò che prova e di ciò che provo, di quanto conta questa cosa che ci è successa. Di che cos’è veramente. Del perché non abbiamo ancora fatto l’amore, e, fino a stasera, né io né lui volevamo ammettere cosa sentivamo. Da tempo, ormai, forse dal primo giorno che ci siamo visti. E in tutti i giorni dopo. Ogni minuto di ogni singolo giorno da quella volta.

Da stanotte non più. Stanotte gliel’ho detto. L’ho detto a lui e nello stesso tempo a me stessa, perché è la verità. E non importa, non m’importa niente se nel gioco delle coppie non si fanno queste cose, se dovevo aspettare perché era ancora presto, se c’erano ancora troppe paure da vincere, troppi dubbi da chiarire. Gliel’ho detto e sono felice di averlo fatto. Non sono mai stata più sicura, nella mia vita, di aver fatto bene a fare una cosa.

Ora dipende da lui, se prova lo stesso e se vuole. E se non vuole soffrirò, sì, moltissimo, ma rimarrò calma, come sono adesso, e non passerò più la vita a interrogarmi su dove sbagliavo, se c’era qualcosa che potevo fare e non ho fatto, o qualcosa che ho fatto e non dovevo fare. Non dovevo fare niente di diverso. Io lo amo, e da stanotte lo sa.

E mi viene quasi da ridere, se ci penso, perché eravamo sul suo letto e mi stava baciando, quando l’ho detto. Ci stavamo baciando e stavolta mi ero proprio lasciata andare, senza trattenerlo e senza pensare a niente, senza chiedermi se facevo bene o no, e fino a che punto si poteva arrivare prima di fermarsi, e fino a che punto voleva arrivare lui. Era bellissimo, ed eravamo insieme davvero.

Mi viene quasi da ridere, se ci penso, perché se non glielo dicevo credo che stanotte lo avremmo fatto. Sono sicura di sì. Lo volevo tantissimo, e lui voleva me. Invece poi è cambiato tutto… certo… è diventato un abbraccio diverso, e mi sono ritrovata con l’orecchio sopra il suo petto in silenzio, a contare i battiti del suo cuore.

Non ha risposto niente. Ma io non gli ho chiesto di farlo: certe cose non vanno dette come risposta, per educazione. Non mi aspettavo che dicesse qualcosa: lo so che l’ho sorpreso, ormai so com’è. Ma non sono delusa. E, per la prima volta, non mi aspetto niente. Non ce l’ho con lui, non ce l’ho con me stessa. Sono serena. Qualunque cosa accada, anche se da stanotte è finita e basta.

Per questo mi sono alzata dal letto poco fa, quando sono stata sicura che dormisse, che non si sarebbe svegliato. Avevo finto di dormire io, per non costringerlo a trovare frasi, parole adatte, perché il silenzio che è sceso su di noi dopo che l’ho detto è durato a lungo, abbastanza da potergli far credere che avevo preso sonno, abbandonata e felice tra le sue braccia. In queste settimane abbiamo passato la notte insieme tante volte, ed è stato sempre così che mi sono addormentata.

Ma ero sveglia, sono rimasta sveglia per tutto il tempo.

Forse doveva andare proprio così. Doveva succedere che venisse Francesco  a casa e fare quella scena, che lui pensasse tutte quelle cose che nemmeno mi ha detto, che io mi precipitassi qui, a cercarlo, a pregarlo prima di credermi, poi di dimenticarmi, e guardarlo senza più cercare di convincerlo di niente, perché ero stanca, ero stanca anch’io.

E’ stato questo che lo ha fatto cambiare, forse: il fatto che ero stanca anch’io. E che a un certo punto, dopo aver pianto e aver pregato, mi sono seduta accanto a lui asciugandomi le lacrime e ho smesso di insistere, di ripetere che non ne sapevo niente, che le cose accadute stasera avevano sconvolto anche me. Gli ho detto solo che quella era la verità, ma non avevo altro modo per raccontarla. Che solo lui poteva decidere se credermi o no. Che dipendeva dalla fiducia che sceglieva di darmi, da quello che provava per me. Solo da quello, in fondo. Perché è questo il punto, soltanto questo.

Io non è che non lo capisca. Lo capisco bene. Sono arrivata al suo stesso dolore anch’io. Alla sua stessa solitudine, anche se per una via opposta: io credendoci troppo, lui troppo poco. Gliel’ho raccontato, come l’avrei raccontato a un amico, così ora sa tutto di ciò che sono stata prima di lui. L’ho fatto come se dopo dovessi dirgli addio, perché volevo che comprendesse davvero, in qualunque caso. E ho detto che non è l’unico a sentirsi vecchio e patetico, mi è perfino venuto un sorriso mentre lo dicevo e mi scendevano le lacrime, perché ci ho pensato e praticamente è la storia della mia vita: sentirmi prima troppo matura, poi troppo vecchia. Poi non sentire più niente.

Finché ci siamo incontrati.

Gli ho detto che gli volevo bene davvero, e che nemmeno lo avevo scelto di volergli bene. Che avevo anche cercato di sfuggire a quello che sentivo, per paura. Paura. Una paura immensa. Credevo fosse paura di farmi male, fino a stasera. E invece no, era paura di vivere. Forse come la sua.

Poi sono uscita, e mi sentivo sconfitta e senza nessuna voglia di combattere ancora. Gli ho detto che forse, sì, era meglio che dimenticasse, che smettessimo di crearci illusioni tutti e due, se non avevamo abbastanza coraggio per crederci. Gli ho detto addio, e in quel momento pensavo davvero che non l’avrei più visto.

Invece, semplicemente, mi ha seguito per le scale e mi ha preso per la vita, da dietro. Mi ha riportato dentro. Non ha detto niente, Nicola non è un tipo che lo spiega parlando, quello che ha dentro. Ha solo chiuso la porta della sua casa e ha preso le mie braccia e ha voluto che gliele portassi al collo, e mi ha dato un bacio.

Poi siamo finiti a letto, e gli ho detto che lo amo.

Ma adesso è l’alba, e devo uscire, prima che si svegli. Non voglio che al risveglio mi trovi qui. Esco, è un giorno nuovo e il cielo è sereno, e io da oggi ho finito di piangermi addosso.

E’ lunedì, ma non lavoro ancora: oggi è il mio primo giorno da guarita. Credo che andrò al bar qui sotto a fare colazione con le brioches calde e il cappuccino. Da sola. Poi prendo la macchina e guido fino al mare, voglio veder sorgere il sole sulla spiaggia.

 

 

Lunedì 2 dicembre 2002

Ecco, lo sapevo, è successo. Me lo sentivo per le ossa. C’avrei scommesso che prima o poi me lo avrebbe detto. E adesso?

4 dicembre 2002 mercoledì

In questi giorni non è che sia successo granché. Al lavoro tutto regolare. Questo è periodo d’occupazione alle scuole e mi è toccato andarne a controllare una. Quasi quasi mi sono anche divertito: tutti ‘sti ragazzetti a cazzeggiare con convinzione fanno morire dal ridere, quando non si mettono in mente di spaccare tutto.

Nadia non l’ho più sentita. So che Manuela la va a trovare, perché lei è ancora in malattia. Manuela è un po’ di tempo che mi guarda strano, e anche Andrea. Hanno provato anche ad attaccare discorso ma gli amici sono una gran bella cosa tranne quando tu ti vuoi fare i fatti tuoi e loro anche. Gliel’ho detto a tutti e due, così, sugli amici che si fanno i fatti tuoi. Non è per cattiveria. E’ che... non lo so. Non ho voglia di parlare né di spiegare. Un po’ sono contento, un po’ sono triste. Non è la prima che me l’ha detta una cosa del genere, però questa, Nadia, me l’ha detto sul serio e non come ultima cazzata per farmi rimanere incollato alle sue sottane. Poverina: di tutte, lei era l’ultima a cui avrei augurato una disgrazia del genere. Per lei sono sicuro che non è un bell’affare: tutto da perdere e niente da guadagnare. Non so che farci. Ma davvero non lo so. Tanto, qualunque cosa facessi lei ci starebbe male. Sia che sia sì, sia che sia no. E tra le due comunque non lo so. Non me lo aspettavo. Cioè, me lo aspettavo ma non è stato come me l’ero immaginato. E’ stato diverso. Quasi quasi lo rifarei, come un giro sulle montagne russe che quando è finito il giro vuoi tornarci ancora per riprovare la stessa sensazione. Però mi dispiace se lei ci sta male. E comunque ci starebbe male qualunque cosa facessi. Davvero non so che fare, anche se di quello che ho fatto rifarei tutto.

Ho sentito mia sorella questa sera. Abbiamo chiacchierato del più e del meno e lei mi ha detto che vorrebbe tanto rivedermi ma che in questo periodo non ha tempo di spostarsi, visto che tra poco cominciano anche le vacanze di Natale. E allora le ho detto che potevo andare io da lei questo fine settimana se per lei non era un problema. Tanto mi basterebbe chiedere solo qualche ora di permesso per riuscire a fare il viaggio, stare lì una giornata e ritornare per il lavoro. Le ho detto che domani vedevo quello che potevo fare e poi le facevo sapere. Lei è stata contenta e ha detto che mi avrebbe fatto conoscere un po’ di gente e che avrebbe organizzato le cose in grande a casa sua per farmi festa. Spero solo di non rompere le scatole alle sue coinquiline. Ma tanto quella casa è un porto di mare: mi porterò il sacco a pelo per dormire così non si devono smuovere troppo per farmi spazio. E poi sono proprio curioso di sapere chi deve farmi conoscere assolutamente.

 

Giovedì 5 dicembre

Ho avuto quei permessi. Sabato all’ora di pranzo prendo il treno e me ne ritorno qui domenica sera tardi. Non vedo l’ora. Mi ci vuole un po’ di cambio d’aria. Se sto qui finisce che giro sempre attorno alle stesse cose e mi viene o il giramento di testa, o la vertigine. Nessuna delle due cose vanno bene per pensare. Per riflettere bisogna farlo con la mente sana. E io adesso c’ho bisogno di riflettere. Bene bene.

 

 

7 dicembre.

Oggi per pranzo ho preparato la pasta con le noci. Era tanto tempo che non la facevo più. Non è difficile, però bisogna scegliere le noci bene, perché sennò il sapore si perde. E poi bisogna stare bene attenti a togliere tutti i pezzettini di guscio, senza lasciarne neanche uno piccolo piccolo, altrimenti ci si rompe un dente masticando. Ci ho messo mezz’ora per scegliere bene i gherigli, ma tanto non avevo fretta, ed è venuto buono. Manuela ha detto che era buono. E’ passata da me a vedere come stavo e l’ho invitata a mangiare.

Ieri i bambini mi hanno mandato una busta piena di lettere, con i loro disegni, con scritto quando torni. Non lo so, potrei anche tornare dopo Natale, ma mi sa che l’ultima settimana rientro. Mi mancano. Simone nella sua lettera ci ha disegnato un albero pieno di luci e la stella cometa, con un pacco grande grande sotto e la maestra Nadia che spuntava aprendo il coperchio infiocchettato, vestita da Babbo Natale. Tipo “birthday girl”. E’ dolce, Simone, ed ha il senso dell’umorismo.

Thomas invece è ancora arrabbiato con la vecchietta, e la madre gli fa leggere troppi Dylan Dog: ha disegnato un camion a rimorchio che investiva la Bianchina della signora, con lui al volante.

Giorgia non disegna perché dice che non è capace, e a me questa cosa mi ha sempre impressionato tanto: come si fa a otto anni ad avere una consapevolezza del genere, al punto di astenersi anche dal tentare, dicendo che non verrà fuori niente di buono? Mi ha sempre turbato, Giorgia. Forse perché mi sembra che mi somigli, ed è per questo che io la incoraggio sempre, invece, e le sorrido quando lei per farmi un favore personale accetta di prendere in mano i colori e di disegnare qualcosa. Le dico sempre che i suoi disegni sono bellissimi, e lo penso: c’è qualcosa di strano nei suoi disegni… non lo so… L’ultima volta ha disegnato un sole nero in mezzo a un cielo rosa. Un rosa antico. Ha detto che era per me, e me lo sono portato a casa. L’ho messo sulla scrivania. Ma guardarlo mi fa un po’ male, non so perché.

Oggi però mi ha mandato una poesia. È l’unica che quando scrive “perché” ci mette l’accento giusto.

 

Sono andata nel negozio più caro della città ed ho comprato un completino di pizzo bianco panna, bellissimo. Non avevo mai comprato una cosa così, l’ho pagata un capitale. Però si vede quando la roba è buona, fa un effetto diverso solo a toccarla. Me lo sono anche messo, un giorno che sono uscita.

Ieri sera ho acceso lo stereo e ho messo un CD di Vasco Rossi, poi ho spento quasi tutte le luci, mentre lo sentivo, tranne la lampada nell’angolo del salotto. Bevevo il tè. A Stefano piaceva tanto “Toffee”. Mi chiamava sempre con questo nome. Chissà che fine ha fatto, è un secolo che non ci sentiamo più. Ma cosa potremmo dirci, che non ci siamo già detti…Però lui è stato sempre contento di sentirmi, anche dopo tanto tempo. Chissà se poi si sposa, con quella ragazza. Ce lo vedo a fare il padre, c’è stato sempre portato. Mi ricordo, anche se noi eravamo due marmocchi, allora.

 

È venuta qui mamma un paio di giorni. Dice di andare a casa per le feste. Ma non so se lo farò, le ho detto che forse facevo un viaggio con un’amica. Magari vado a casa il giorno di Natale e poi parto davvero, sono andata anche in agenzia. Però da sola, in uno di questi posti tipo Caraibi, dall’altra parte del mondo, pieni di gente abbronzata che fa windsurf e animatori cocainomani con gli occhiali a specchio. Ho sempre sognato di andare al mare col costume quando qui è inverno. A me non piace l’inverno. E’ che non mi piace il freddo.

 

L’altro giorno è stato qui Andrea, da solo. Voleva sapere come stavo, mi ha chiesto tante cose. Anche di Nicola. Andrea è un uomo meraviglioso. Mi capisce, anche se non lo dice. Forse anche più di Manuela. Stanno bene insieme, è bello vederli, perché si amano, e non è una cosa che succede spesso. Ne parlano tutti dell’amore, dovunque ti giri, ma raramente la gente lo prova davvero. Loro fa piacere vederli.

 

Ci hanno provato tutti e due, comunque, a tirar fuori il discorso. Separatamente l’uno dall’altro, e non credo sia una cosa fatta apposta. Ci tengono, si sono affezionati a me. Ma io non posso parlarne.

Non posso e basta, chiuso il discorso. Basta. Mi dispiace per tutti e due, si vede che vorrebbero fare qualcosa, che vorrebbero… non so… Andrea, me l’ha anche detto, l’altro giorno: “Vorrei fare qualcosa”. Io ho alzato una mano in aria prima che finisse, forse sono stata anche brusca, ma è che non so se andava avanti come potevo reagire. Gli ho detto scusa, gli ho detto di non fare niente, assolutamente niente. Ero serissima. Poi però gli ho sorriso.

Sorrido sempre col cuore, adesso. Che strano. Cioè, non è che sia strano di per sé, è strano per me. Per un sacco di tempo sorridere mi ha fatto male. Adesso invece no. Mi rende quasi felice.

 

Ho fatto una torta al cioccolato. E’ nel forno e manda un buon odore per la  casa.

Mi sto rileggendo tutto Stefano Benni, mi ero dimenticata quanto mi piacesse. Me lo sto gustando come se fosse la prima volta.

Sto facendo la brava.

La brava, sì.

 

Domenica 8 dicembre

Sto in treno, sono quasi le otto e manca ancora un’ora per arrivare. Mi viene da piangere. Dio mio se mi viene da piangere. Che faccio anche fatica a scrivere. E per fortuna lo scompartimento è vuoto. Non con lei. Non con lei. Non adesso, non proprio adesso. Ho passato tutta la settimana a pensarla. Pensavo solo a lei. E sono stato da mia sorella per poterci pensare più liberamente. E manco il fatto che Diana si è trovata un bravo ragazzo che le vuole bene m’ha fatto smettere di pensare a Nadia. E pensavo che sarebbe stato bello se anche io avessi fatto a Nadia lo stesso effetto che il ragazzo di mia sorella ha fatto a lei. Le donne quando sono innamorate, e sono contente, diventano così belle! Cristo mi viene da piangere e non ce la faccio quasi a trattenermi. Cretino che sono! Non c’è stato solo un attimo che non l’ho pensata e non gliel’ho fatto sapere che la pensavo. Non gliel’ho fatto sapere.

L’ho chiamata. Le ho chiesto come stava, se ci vedevamo. Lei prima è stata in silenzio tanto tempo poi mi ha chiesto che ci vedevamo a fare se non sentivamo le cose allo stesso modo. Io subito non ho saputo che rispondere, lei mi ha detto: “lo vedi?”. Poi mi ha salutato e a me mi si è gelato il cuore. Non voglio perderla.

 

 

Domenica 8 dicembre.

Ho ancora il telefono in mano. È una settimana che me lo porto dietro per tutta la casa come una specie di amuleto: non ci credo ma non so farne a meno. E sì che non è grande, casa mia, non corro certo il rischio di non sentirlo.

Ora non riesco a lasciarlo.

Ha suonato davvero, cinque minuti fa, e io me lo guardavo nella mano, con quel numero illuminato, e non facevo niente. Avevo paura di quello che mi avrebbe detto, qualsiasi cosa fosse. Quasi preferivo l’incertezza, tanto avevo paura.

Ma l’incertezza non poteva durare. Lo sapevo anche questo.

 

Nicola è sul treno. Sta venendo in città. Torna da casa di sua sorella e vuole vedere me. Ha detto che vuole vedermi. Perché vuole vedermi, dopo una settimana, e in una settimana non ha mai voluto? Mai? Nemmeno una parola, nemmeno un messaggio, niente, solo questo silenzio assordante dappertutto che parla di lui? Anche adesso?

Anche adesso…

Anche se mi chiudo le orecchie per non sentirlo… anche così…

Io ho sperato ogni giorno, ogni minuto, Ogni secondo che è passato ho sperato. Ho messo tutta me stessa dentro quei secondi che passavano, e ogni volta che ne ho perso uno mi sono sentita morire.

 

Che senso ha che mi vuole vedere ora?

Forse dopo una settimana si può cambiare discorso, e fare finta di non aver sentito?

Ma no, questo no… questo no…Perché ora ho pensato questo, Dio mio…

Vedi, Nicola? Ti sto già odiando. Penso di te queste cose. Non voglio odiarti, ti prego. Scusami. Non chiamarmi più, ti prego. Divento cattiva quando soffro. Cattiva e vecchia, anch’io. No, vecchia io lo sono già. Lo sono stata sempre.

 

Però il telefono non lo lascio… non ce la faccio a lasciarlo…

 

Voleva vedermi.

Ma quando gli ho detto che senso aveva vedersi se non sentiamo le stesse cose, lui non ha risposto niente. Più chiaro di così. Ragiona, Nadia, più chiaro di così…

Per tutti questi giorni non ha mai chiamato. Mai. Nemmeno una parola, come poco fa.

Più chiaro di così.

Avevo capito, me lo aveva fatto capire bene. Perché adesso ingarbuglia tutto di nuovo? Se continuava a non chiamare avevo il tempo per riuscirci… almeno il necessario per trovare la forza di non rispondere al telefono…Poi cosa facevo dopo non lo so. Proprio non lo so. Ma almeno potevo impedire questa cosa penosa. Ti voglio bene, Nicola, cerca di capire. Cerca di capire anche tu, adesso. Se io ho abbastanza forza per capire te, per te non dovrebbe essere tanto difficile.

Non essere crudele, ti supplico. Si è tanto crudeli quando non si capisce.

 

Invece telefona dal treno, e io rispondo. E mi vuole vedere. Ma perché mi vuole vedere? Non è stato mica lui quello che ha detto: “Ti amo”, tutto convinto, col cuore in gola, e poi se n’è andato via in silenzio, e sperava, quasi credeva davvero di essere inseguito. Ci credeva, sì.

Non è stato mica lui. Non è mica lui che da una settimana va in giro col telefono anche al bagno, anche nella doccia, tutto avvolto in un sacchetto di plastica, nel portasapone.

Dio, sto bagnando tutto l’inchiostro di lacrime, adesso. Anche il telefono, oh no… ci voleva il sacchetto pure qui…

 

Se schiaccio il tasto della memoria sul display compare ancora il suo numero, come una traccia del suo passaggio.

Sei uno che lascia il segno, va bene, credevi che non l’avessi capito? L’ho capito fin dall’inizio, se è per questo, non ci provo nemmeno a negarlo.

Ma perché, Nicola? Perché?

Certo, tu non me l’avevi promesso che mi avresti amato. Sei sempre stato sincero con me. Come potevi sapere cosa avresti provato? Come si fa a prevederlo prima?

Ma allora perché io lo sapevo fin dall’inizio? Fin dall’inizio?

Perché?

 

L’avevo messa in conto che poteva anche esser finita, e quel mattino al mare da sola ero quasi felice.

Ma quel mattino uscivo dal tuo letto, e non è lo stesso.

Ero quasi felice mentre il sole sorgeva, e mi sentivo una forza immensa. Ho sempre troppa fiducia nella mia forza.

Incredibile quanto si può soffrire. Incredibile. Non ci credo che sto soffrendo così. Mi viene addirittura da ridere tanto mi sembra incredibile.

 

 

LETTERA DI NICOLA A NADIA, 8 dicembre sera.

Non so come cominciare: scrivere non è che mi venga molto bene. Anzi, non ne sono per niente capace, e comunque mi sembra che tutto quello che faccio o potrei fare per te mi venga male. Qualunque cosa, anche tenerti lontana dal male che potrei farti. E’ inutile prendersi in giro. Ti ho pensata tutto il tempo, non c’è stato un attimo che non ti ho pensata, ma non te l’ho fatto sapere perché credevo che, se te lo facevo sapere, ti avrei fatto venire speranze che forse non potevo appagare, e allora ci saresti rimasta troppo male per perdonarmi. Dimmi: tu lo sai se è meglio sperare e poi essere disillusi oppure se è meglio vivere disperati e non correre certi rischi? Dimmi, lo sai? Io credevo di saperlo ma poi oggi ti ho sentita al telefono e ho cambiato idea.

Non so come spiegarti quello che sento adesso. Sono in macchina sotto casa tua e non so come ho trovato questo foglio, che è sporco, va bene, ma è meglio di una pagina di elenco telefonico strappata con atto di vandalismo. E non so come spiegarti quello che ho provato in questa settimana senza di te. Ma voglio provarci, e se poi non mi crederai, ti capirò, e forse sarà meglio per te soffrire un po’ adesso piuttosto che legarti a un tipo come me. Ma l’amore per me sei tu e tu sola, e tutto quello che c’è stato prima di te non sono state che prove e tentativi, perché questo mondo è cattivo e la solitudine spaventa. E se è vero che l’amore sul serio è quello che ti capita quando non lo cerchi, e lo si trova solo in chi non cerchi, allora è vero, perché io non ti ho cercata, quando ci siamo conosciuti, ma adesso sei dentro di me che non me ne sono neanche accorto come hai fatto a entrare così tanto che non posso più mandarti via neanche se volessi. Ho passato la vita a dirmi che non ne avevo bisogno, che potevo farne a meno, che potevo stare da solo così come stavo, e mi raccontavo balle, e non chiedevo mai nulla. E poi arrivava l’illusione e si nascondeva sempre di più e non riuscivo a stanarla e mi confondeva con le stesse parole sempre dette piano, e tutto quello che desideravo era sciocco desiderarlo e tu lo sai cos’era, anche se non te l’ho mai detto. Era solo un’illusione perché l’obiettivo eri tu e tu soltanto anche se forse lo so in ritardo. Ti prego non cacciarmi via. Perché anche se credo che sarà un amore disperato, io lo so che sarà bello, se anche tu vorrai ancora, per tutto l’amore che non ti hanno mai dato. Lo so. E mi sembra così strano dirti queste cose e parlarti di quello che sento, perché mi sembra che tu queste cose le abbia sapute sempre meglio di me, e che la mia storia la possa raccontare tu al posto mio, come se la sapessi a memoria. Perché sei la sorella della mia anima e l’amante del mio cuore.

Ti lascio questa lettera sotto alla porta perché ho ancora le chiavi del portone e tu non me le hai richieste. Fino alle otto del mattino ti aspetterò in macchina sotto casa, poi devo andare a lavorare, ma ti aspetto lo stesso.

Nicola.

 

 

9 dicembre.

Vorrei chiudere gli occhi per vederti ancora, ma questa stanza è piena di luce, adesso, e ci sono raggi che filtrano dalle persiane sopra il cuscino e su di me. Mi disegnano attorno una trama nuova, silenziosa, che continuo a guardare perché qui dentro non riconosco più niente di quel che c’era prima. Vorrei chiudere gli occhi perché con gli occhi chiusi potrei ricordarti com’eri questa notte, ma le mie mani si muovono ancora carezzando il lenzuolo dove dormivi tu. Scivolando piano, perché è dolce il tepore che il tuo corpo ha lasciato dentro questo letto.

Ora non ci sei.

Io non volevo che andassi via, stamattina, ma ti ho fatto andare. Non lo so perché ti ho fatto andare. Forse perché ero troppo felice, e volevo dimostrare alla mente che la gioia che provavo era una cosa vera, che poteva fare parte di una serie di cose vere, come l’alzarsi, andare al lavoro, tornare a casa dopo la fine del turno. Forse perché volevo restare qui ad aspettarti sola. Per sentire ancora, quando fossi arrivato, la mia voce tremare nel dirti ciao.

Ora non ci sei, ma non è vero che non ci sei.

Ci sei sempre stato, questo lo sapevo, anche prima di questa notte. Ci sei perché ogni pensiero non può fare a meno di fermarsi su te, e perché adesso è come se fermandosi ti potesse parlare, ascoltare quello che senti.

 

Ieri sera non volevo aprirti, non volevo scendere. Anche se la tua lettera era bellissima. Il motivo era che non riuscivo a crederci. Non riuscivo a credere che potessi scrivermi quelle cose, che dicessi di amarmi. Forse non potevo credere che qualcuno mi amasse, e soprattutto tu. Per tanto tempo ho cercato di immaginare come sarebbe stato, l’emozione che avrei provato. E non ero capace, nonostante i miei sforzi, perché non c’era niente tra le mie emozioni che si potesse rapportare al tuo amore. Parole come le tue io non le conoscevo. Per una vita le ho desiderate e quando le ho avute, ieri, non mi sembravano vere. In fondo il dolore del rifiuto era una cosa più familiare, e mi stupiva meno.

 

Soffrire brucia le mani, a volte, e le rende incapaci di stringere.

 

Così stavo per non aprire, per lasciarti lì ad aspettarmi tutta la notte.

Stavo per restare lì, seduta a quel tavolo, e rinunciare a te. Per aspettarti tutta la vita,  poi, senza che tu arrivassi mai più.

 

Ma ho guardato meglio quel foglio, e ho visto che era quello che avevi usato, quel giorno al mare, per avvolgere la conchiglia che avevamo trovato. La conchiglia che è rimasta lì, dentro la tua macchina, dimenticata apposta perché ti ricordasse che c’ero.

È stato a me che ha ricordato tutto, invece. E solo allora, quando ho visto su quale carta era scritta, ho capito che era una lettera vera. La tua unica lettera per me. L’unica, perché nessun’altra lettera potrà esistere dopo questa.

 

Ma non lo so se è stato davvero quel foglio o se era deciso da sempre che ieri sera dovessi aprire d’impulso la porta della mia casa, mentre già ti piangevo, e scendere per le scale di corsa e uscire per venire da te, senza sentire il freddo. E che tu mi vedessi dietro il finestrino e scendessi subito per venirmi incontro, e poi restassimo fermi, così di fronte, senza cose da dire. Non lo so se è meglio sperare e poi essere disillusi oppure vivere disperati e non correre certi rischi. Non lo so, amore. So solo che non pensavo niente di tutto questo, con te davanti, perché averti davanti era l’unica cosa che contava, ieri sera.

 

Stamattina all’alba ho aperto gli occhi e la prima cosa che ho visto è stata la tua schiena nuda vicino a me. Mi sono fermata con lo sguardo su un punto, tra la spalla e il collo, proprio sotto il tuo viso affondato nel cuscino, sotto le labbra dischiuse che intuivo dal respiro leggero. Un punto particolare, nella luce pallida e un poco brusca che carezzava il tuo sonno. L’ho fissato a lungo. E ho pensato che quel punto della tua schiena non lo avevo mai visto, che per conoscerlo veramente avrei dovuto fissarlo per un tempo infinito. Che ogni punto del tuo corpo e del tuo cuore era come quello, e probabilmente non sarei mai riuscita a conoscerti davvero.

Ma ho sorriso per la prima volta, a questo pensiero, e ti ho abbracciato piano, da dietro, dandoti un bacio lieve proprio su quel punto, e ho sentito il caldo della tua pelle.

Sono rimasta così, dopo averlo fatto, passando le braccia sotto le tue. Tu hai risposto, senza quasi svegliarti, con un mugolio sonnolento e felice. Hai stretto piano le braccia, perché non potessi lasciarti.

 

Sei stato tu a impedirmi sempre di lasciarti, adesso lo so. Io credevo di essere quella che inseguiva, tra noi, ma non era vero. E se per mesi ho continuato a desiderarti in ogni istante del giorno, sei stato tu che hai reso reale il mio desiderio, che mi hai fermato impedendomi di fuggire ancora. Che mi hai insegnato cosa significa amare. E non lo so dove hai imparato, per insegnarlo a me, perché credo che neanche tu lo sapessi, prima di stanotte.

 

Ma è stato così, come ieri sera, qui sotto casa, che sono scesa e mi sono fermata davanti a te, e dopo avere fatto questo, senza pensare, sono rimasta senza sapere cosa volevo. Tu volevi che entrassi in macchina, ma ho detto no. Poi ho avuto freddo perché ero uscita senza niente sopra, e mi hai messo la tua giacca, allora, anche se rifiutavo, e mi hai costretto ad entrare insieme dentro il portone.

Così, dentro l’ingresso di questo palazzo dove c’è una casa presa in affitto che da poco tempo è  casa mia, alla luce elettrica delle scale che dura solo un minuto, siamo stati a guardarci in silenzio, da soli, e io avevo gli occhi gonfi perché avevo pianto ma non m’importava che si vedesse, perché non m’importava più di niente, ieri sera, forse neanche di noi.

Tu l’hai capito, e per questo non parlavi, standomi davanti.

Poi però è scattato il timer e la luce si è spenta, e ho allungato la mano verso l’interruttore, perché era buio, e anche tu l’hai  fatto nello stesso momento ed è per questo che si sono incontrate, le nostre mani.

 

Ma non lo so se il merito poi è stato davvero del timer, o di quel pulsante rosso luminoso nel buio. Stamattina, in questo letto che adesso è nostro, e non solo mio, penso che anche il tuo abbraccio improvviso, in realtà, era una cosa scritta da sempre, e io la stavo aspettando.

Perché non è stato come se toccarti fosse una cosa che non volevo, e la mia mano non si è ritratta quando ha incontrato la tua, quando ha sentito le tue dita chiudersi piano. Esitanti, all’inizio, perché anche tu non sapevi che lo avresti fatto, e poi tenere, e calde, e grandi come le tue braccia, come il tuo viso sul mio, come il bacio che mi hai dato, che era un bacio disperato, amore.

Per questo, e per tutte le cose che mi hai detto mentre mi baciavi, per come è stato meraviglioso ascoltarle, per tutte le volte che me le hai ripetute, senza che ti chiedessi di farlo, come se già lo sapessi quanto bisogno ne avevo; per questo, per quel buio e quel silenzio senza parole, e per come mi hai tenuto stretta mentre piangevo, per come hai detto: “Saliamo in casa, ti prego”, senza aggiungere altro, perché quella era la sola cosa da dire, la sola cosa da fare; per come mi hai circondato la vita per le scale, guidando i passi che facevamo, con la luce spenta, e per come hai trovato tu la chiave per aprire, in mezzo alle mie, per tutto questo io ti amo, adesso, e per questo, stanotte, ho fatto l’amore con te.

Quanto tempo, amore, quanto tempo è servito perché ti trovassi, quanta strada e quanti sbagli ho dovuto fare, quante volte mi sono convinta che la via giusta non l’avrei mai trovata. Ora so perché è successo: per poter capire, con le tue labbra e il tuo respiro addosso, stanotte, che tutto quanto, le speranze, i giorni, erano solo gradini che portavano qui.

Ma ora è già un passato lontano, e me lo hai detto tu che non devo più pensarci. Quante cose c’erano di me nelle tue carezze, e com’è stato naturale scoprire sul tuo corpo chi eri. Come se lo avessi sempre fatto, anche se non sapevo più niente, non l’avevo mai  saputo. Come se per te fosse la prima volta, e potessi insegnarti io.

Come se il sonno non potesse venire, tutte le ore che siamo stati svegli, a guardare insieme il soffitto e le ombre fioche proiettate sul muro dall’abat-jour, a sentire i nostri corpi vicini e rimanere così, ad abbassare le ciglia in silenzio e poi chiuderle, ancora.

Hai saputo amarmi e travolgermi, questa notte, e se anche tu hai pianto non te lo dirò mai, te lo giuro. Cercherò di farti sorridere, quando torni. Poco a poco, un bacio per volta, ho iniziato già stamattina. Finché non potrai farne a meno, perché sei meraviglioso quando sorridi.

Come un’ora fa, poco prima di vederti uscire, già incapace di sopportare la tua mancanza. Ti ho infilato le mani sotto la giacca per salutarti, stretta contro i tuoi vestiti nella mia felpa extralarge. A piedi nudi sul letto ti ho guardato dall’alto in basso. “Non mi muovo di qui”, ti ho informato, e tu hai sorriso senza dire niente, chinando il viso. Ti sei staccato soffrendo un poco e hai preso le mie chiavi sul comodino. “Non puoi, ti chiudo dentro”, hai risposto mentre andavi via.

 

 

Continua

mail to: imperia4@virgilio.it & brumilde@libero.it

 

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