A casa

 

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Si era fatto tardi, ormai, la notte era scesa in silenzio sul palazzo. Un silenzio che si poteva ascoltare. Le lampade accese erano poche: Oscar preferiva così, da quando le cose intorno non poteva guardarle senza dolore. Solo il fuoco nel camino rischiarava il salone, mandando bagliori sul cristallo del calice di cognac. Si sentì un tuono, in lontananza.

Un temporale che arriva, pensò. Uno di quei temporali estivi che spazzano via tutto, e scompaiono. Domani sarebbe stato sereno.

Era passato tanto tempo, ed era sola.

 

Poter essere spazzata via con la pioggia. A che serve, il sole, domani?

 

C’era questo di buono, nella casa vuota, che si poteva rimanere alzati fino a tardi, fino al giorno dopo, senza doverlo spiegare a nessuno. Da quando la nonna era morta nessuno più le rivolgeva i rimbrotti amorevoli che un tempo la facevano sorridere, e adesso le inumidivano gli occhi. Se n’era andata anche lei, dopo André.

 

André.

 

La lacrima traboccò dalle ciglia, le rigò il viso. La lasciò scorrere, insieme alle altre, in silenzio. Una morì sul bordo del bicchiere.

 

Addio, addio per sempre, le aveva scritto. Ed era andato via davvero, per sempre. Quella lettera era l’ultima cosa che aveva avuto di lui, l’ultimo contatto con lui, l’ultimo appiglio cui potersi aggrappare. Da due anni. Per sempre.

Averlo accanto ogni giorno, da una vita. E poi, dal giorno dopo, mai più.

L’assenza. Totale, immediata. Il vuoto più completo, senza risposte.

 

Non c’è.

 

Non “se n’è andato”, “è partito”, come se quell’azione potesse essere legata ad altre, inserita in una catena di prima e dopo, spiegata razionalmente, accettata. No. Quella perdita era una montagna innalzata su un deserto, una cosa che esisteva da sola, che si toccava senza relazione con altre.

Non c’è, adesso. Un adesso il cui significato era sempre. Non c’è. Adesso e per sempre. Come aveva promesso.

 

La legna crepitò nel camino: tra i bagliori le scintille sprizzavano rincorrendosi verso l’alto. Le vennero in mente i fuochi artificiali, quel giorno, quando il popolo festeggiava la nascita del delfino. Portami a bere, André. Erano andati a Parigi insieme.

Quanto tempo passato insieme e perduto. Era quella, la vita, e non l’aveva riconosciuta.

 

La riconosco adesso, da qui.

 

All’inizio... Oh, all’inizio ne era rimasta schiacciata. Il suo cuore aveva ceduto di schianto quando la mente aveva realizzato che non l’avrebbe fermato.

Era scomparso. Semplicemente scomparso, dopo quella lettera. Oscar l’aveva cercato, inseguito dovunque. Aveva percorso, perlustrato, frugato ogni luogo in cui era stata con lui. Aveva chiesto, scongiurato, insistito. Aveva interrogato tutti, fino all’ultimo: con dolore, disperazione violenta, giungendo a rivelare i suoi sentimenti, piangendo, senza frenarsi.

 

Se la ricordava, la faccia di Alain, quella sera.

“Ah, se n’è andato...”. Con questa frase l’aveva accolta, quando, di notte, si era precipitata al palazzo del Corpo di guardia, nelle stanze dei soldati, l’aveva tirato giù dalla branda intimandogli di seguirla nel suo ufficio. “E’ partito, allora. Cosa vi aspettavate...”, aveva detto con una smorfia sarcastica, in piedi, di fronte a lei.

Poi Alain era impallidito – mai visto impallidire un gigante – e le sue braccia erano scattate a sorreggerla. Le avevano ceduto le gambe, il mantello era scivolato a terra e lei con le ginocchia sopra, e aveva alzato un viso stravolto, inondato di pianto. “André...”

“No, cosa fate, aspettate - e quel tono di rimprovero era svanito dalla sua voce -. Non so dove sia ma lo troveremo, state calma”.

 

Le aveva scostato i capelli dal viso con delicatezza, come si sfiora una donna.

 

“Voi lo amate”, aveva detto poi. Quasi incredulo, fissando nei suoi occhi qualcosa che era rifratto al di là di lei. “Aveva ragione lui... voi lo amate”.

 

 

Sì, aveva ragione lui. Lo amava e lo sapeva bene, oramai. Ma non gliel’aveva detto. Per timore, per inesperienza e riserbo: sentirsi così era qualcosa che non aveva provato mai. Non lo sapeva, come si comporta una donna.

Chissà cos’aveva aspettato, lasciandosi vivere giorno per giorno con lui senza che nulla cambiasse, come se il giorno nuovo da solo potesse dare una svolta alle cose.

Era come rimasta bloccata in un’inerzia smaniosa.

Forse doveva ancora accogliere tutto quell’amore nel cuore: sentirlo e comprenderlo a fondo, nei più segreti recessi, avvertirlo e avvertirne l’urgenza schiacciante.

 

L’urgenza, la privazione, il bisogno. Quello che da due anni le serrava il cuore senza un istante di tregua. Da due anni, dall’esatto momento in cui aveva letto la parola “addio” nella sua lettera, con la grafia spezzata, scomposta, come se non gli avesse retto la mano, in quel punto.

 

Non l’aveva ancora compreso, in quei giorni lontani: era più uno stupore turbato, a dominarla, da quando aveva esclamato: “Il mio Andrè”, in quel terribile istante, in quel vicolo buio di Parigi, e la frase le si affacciava alla mente confusa, ogni volta, all’inizio di ogni nuovo pensiero.

Non c’era ancora arrivata, a capire la fretta, la necessità del suo abbraccio.

 

Così aveva perso altro tempo. Come se ce ne fosse ancora, da perdere.

 

André, naturalmente, non poteva saperlo. E proprio mentre per loro due si apriva lo spiraglio atteso una vita, la sua fede si era spezzata sotto il peso di un dolore schiacciante.

 

Non potrei accettare da te nulla di meno.

Ti do un’ultima prova di quanto ti amo lasciandoti libera.

 

Dio mio, André, ma dove hai trovato il coraggio?

 

Lei, di coraggio, non ne aveva più. Era finito in quei giorni convulsi, quando con Alain aveva rivoltato Parigi, per trovarlo. Avevano parlato con mille persone, ma nessuno sapeva. Rosalie, Bernard, gli amici che lei conosceva e quelli invece che non aveva mai  visto. Quelli li conosceva Alain, ed erano tanti. Un intero mondo di cui lei non sapeva nulla. Il pensiero la fece soffrire, ma fu con se stessa che se la prese. Non lo conoscevo abbastanza, non sapevo niente di lui.

Sono stata cieca e sorda.

 

Ma nessuno aveva visto André, nessuno. Le notizie più recenti le aveva lei nelle mani, in quella lettera consumata dagli occhi, dalle dita che ne stringevano i fogli, quasi per rovistarli, a cercare tra le righe qualcosa che potesse portarla dov’era.

Anche in questo mi ha dimostrato il suo amore. Sono stata l’ultima a saper qualcosa di lui.

 

Era entrata in camera sua, disperatamente, aveva cercato dovunque. André aveva portato via poche cose, quante ne entravano nella sacca di tela, che non c’era più.

Era rimasta una camicia sul letto, con ancora dentro il suo odore. Lo conosceva bene. Era il profumo del suo corpo vicino, il calore morbido che le stava accanto ogni giorno. Vi aveva affondato il viso a occhi chiusi, per sentire l’aroma del suo petto, delle sue braccia che infinite volte si erano aperte per lei: per proteggerla, per salvarla da tutto, per farle scudo.

Erano le mie, quelle braccia, quelle che potevano avvolgerti e consolarti e spiegarti...

Potevano, sì, da sempre. Dio, André, quanto era vero tutto quello che hai scritto... In ogni singola parola e accento della tua lettera mi sono riconosciuta e ho pianto.

Li aveva imparati a memoria, quei fogli, a forza di rileggerli. Ne aveva sulle labbra le frasi, ogni istante, se li ripeteva per non essere sola, come una preghiera.

La camicia l’aveva presa con sé. L’aveva stretta, sulla sua bocca, la notte, per impedire ai singhiozzi di uscire fuori senza conforto e di vagare nella stanza, come lupi affamati. L’aveva stretta per tante notti sul viso, finché l’odore si era confuso col suo.

 

Alla fine la nonna gliel’aveva tolta, quasi strappata, per lavarla.

“Smettila di tormentarti così, bambina mia”, le aveva detto con le lacrime agli occhi, carezzandole il capo accasciato sul letto.

“Ma come fai a non odiarmi, nonna! Sono io che l’ho cacciato via...”

La nonna aveva sorriso, un sorriso triste e dolcissimo. “Come potrei mai odiare, piccola, qualcuno che ama tanto il mio André...”

E davvero come una bambina Oscar aveva pianto, allora, sulle ginocchia dell’anziana Marie.

 

Non è colpa tua. Tutti le dicevano questo. Le parole di André.

 

Persino suo padre, che era stato sul punto di ucciderli, un giorno.

 

Era vecchio, il generale, era stanco. “L’unico colpevole è davanti a te – aveva ammesso triste -: è stata colpa mia, ogni cosa”.

Solo se stesso accusava, di tutto. Quella figlia così forte e tenace, che l’aveva riempito di un orgoglio folle, perché aveva saputo fare di una donna un soldato più abile di qualsiasi uomo; quella splendida creatura bionda che fin da piccola amava più della vita, cui non aveva fatto mai una carezza per non renderla debole, fiacca; quella donna che aveva imparato da sola a convivere con la propria natura, e glielo aveva detto con dolcezza, un giorno, mentre lui, piangendo, le chiedeva perdono; quella donna ora era come annientata, poteva vedere nei suoi occhi un’anima dispersa in mille frammenti inerti.

“Non potrai mai perdonarmi, Oscar. Neanche io lo potrò. Io sono un uomo di un altro tempo, un uomo stolto, egoista... Ma non accusare te stessa, ti prego”.

Reagisci, le aveva detto commosso.

E poi aveva smosso mari e monti per ritrovare Andrè. Aveva usato tutta la sua influenza, le sue amicizie. Non c’era comando, compagnia, reggimento che non avesse allertato. Dove va un uomo disperato, se non a arruolarsi?

Gli avrebbe dato la figlia con gioia, addirittura, adesso. Era da tempo che l’aveva capito, che si era reso conto di quanto Oscar dipendesse da lui; ma solo ora si accorgeva davvero di come tutto quell’edificio costruito anni fa, per la sua unica erede, tutta quella vita che le aveva tagliato addosso per un assurdo capriccio, tutto quanto si fosse retto in piedi solo perché c’era André.

Non c’entrava niente, proprio niente, la volontà ferrea del generale Jarjayes.

 

E aveva fatto progetti, per quando l’avesse trovato. Aveva tante tenute, nel paese, poteva dargliene una. Quella di Arras, magari, che era da sempre la loro preferita. Non era nobile, André, no, ma c’erano tanti titoli da assegnare, in Francia: Luigi XV ne trovava uno per ogni puttana di cui s’invogliava. André certo lo meritava, e la regina avrebbe fatto qualunque cosa per Oscar. Si sarebbe risolto tutto, al più presto.

 

L’aveva letta anche lui, quella lettera che André aveva lasciato a sua figlia. L’aveva trovata, un giorno, sullo scrittoio di Oscar, aveva visto la firma alla fine e non era stato capace di resistere al desiderio di sapere. Cos’è che ti ha sconvolto tanto, Oscar?

Ma quanto dolore, quanto amore c’erano in quelle righe. E quanta passione... Mai lo avrebbe creduto capace di cose simili... il buono, il fidato André: “Io ricordo ogni attimo di te, ogni parola, ogni abbassarsi delle tue ciglia nel silenzio che sapevo parlare, ricordo ogni bacio che non ti ho dato...”

Vide Oscar con gli occhi di lui, fu uno splendore accecante.

 

Era questo che combattevo? Idiota, imperdonabile idiota. Come si può lottare contro la felicità di una figlia? Era così evidente, tutta in quei fogli, la fortuna che aspettava Oscar.

 

Lei aveva trentatré anni, senza nemmeno una gioia.

 

Certo, André non era stato tenero con lui: “La follia di tuo padre...”. Ma non aveva ragione, forse? Non era stato forse folle a pretendere quello che aveva preteso?

Ora però tutto sarebbe cambiato, sarebbe stato finalmente un buon padre, per lei. Avrebbe riparato a ogni cosa.

“Ci ritroveremo insieme, Oscar. Insieme come il tuo cuore ti suggerisce...”

 

Tutto questo, però, Oscar l’aveva saputo solo più tardi. Quando anche il generale si era dovuto arrendere. Non aveva rintracciato André, neppure lui. In nessun luogo.

 

Era successo tanto tempo fa.

 

La casa, adesso, era vuota: tutti erano andati via. Dallo scoppiare della Rivoluzione era cambiata ogni cosa. Il generale era dovuto partire, col suo rimorso e senza sua figlia, inviato in Austria in missione diplomatica dal re. Oscar non ne sapeva più nulla da allora: non aveva ricevuto alcuna notizia. Non si poteva certo contare sui corrieri postali, in tempi come quelli...

 

E poi – le venne alle labbra un riso beffardo, quasi compiaciuto della propria amarezza – difficilmente le avrebbe scritto, dopo aver saputo le sue ultime imprese.

Forse per diseredarmi...

 

Oscar aveva lottato dalla parte dei rivoltosi.

Dopo una vita da ufficiale, finalmente si era decisa e aveva gettato l’uniforme alle ortiche.

Non esattamente nel modo che mio padre voleva...

Aveva scelto di lottare col popolo. Aveva tradito, per tutti i nobili come lei.

 

Ma per lei non era stato un tradimento. No.

Era stata la prima scelta che aveva compiuto perché la sentiva. La prima volta nella sua esistenza che aveva deciso di ascoltare il suo cuore. Certo, non sapeva che farsene, della vita senza André, e non le pesava molto il pensiero di poter morire. Ma gli ideali, quegli ideali per cui combattere... quelli valevano il sacrificio di sé. La libertà di essere uguale alle persone che amava, la capacità di guardare alle cose imparando a vederle. Una sensibilità nuova, da poter gridare. Andare avanti senza dover camminare in mezzo ai frantumi del dolore degli altri. Dell’ingiustizia. Di una vita consumata a bruciare tutte le gioie ricevute in dono... Era per questo che aveva lottato, quel giorno, quell’unico giorno alla Bastiglia.

 

Era sempre stata questa, la sua vera natura.

Ed era quello che avrebbe fatto André.

In fondo, la sua era stata una scelta d’amore.

 

“Il fuoco si sta spegnendo, non te n’eri accorta?”

Lo rivide, chino davanti al camino, che smuoveva i ceppi per ravvivare la fiamma. Ma che ti succede, André..., gli aveva chiesto. “Perché esci la notte e non torni mai?”. E a te che cosa succede, Oscar - aveva risposto, decifrandola con un’occhiata -. Perché non riesci a dormire?

Poi si era seduto lì accanto, come tante altre volte, e le aveva sorriso. Gli bastava sorridere per farla sentire più al caldo. “Vorrà dire che saremo in due, a soffrire d’insonnia”.

Erano rimasti così, in silenzio, davanti al fuoco. Avevano sempre saputo stare in silenzio insieme.

 

Dov’era, dov’era adesso...

Non sapeva se stava bene, non sapeva neanche se era vivo o era morto. Lo strazio si rinnovò nel petto, lancinante: lo stesso strazio di quando il dottore le aveva detto.

André presto perderà anche l’altro occhio...

L’altro occhio... Non avrebbe più visto!

Anche a questo aveva rinunciato per lei.

Non gliel’aveva nemmeno scritto, nella lettera: non voleva che lo sapesse, che ne soffrisse. Non voleva la sua pietà.

Oscar si era inginocchiata in silenzio, le mani per terra. Un grido cupo le era nato da dentro, un grido profondo, continuo, di animale ferito. E dove andava, da solo, cieco?

A quella parola non riusciva a dar forma. A pensarla.

L’avevano travolta i singhiozzi, lì, per terra, sul pavimento del medico. Egli si era chinato su lei, pietoso e stupito, le aveva preso le mani e l’aveva rialzata.

Nel suo mestiere si imparava a confortare il dolore. Ma per quella ferita, lo capì sull’istante, non c’era cura.

 

“No, vi prego, non possiamo dirlo con certezza assoluta - aveva soggiunto -. La sua vista si è affaticata tanto, negli ultimi mesi...”

Che opportune, commoventi bugie. Come che dalla tisi si possa guarire...

Oscar la verità la sapeva, l’aveva sentita con chiarezza in quei giorni, ogni volta che un colpo di tosse improvviso le squarciava il petto, che le mancavano il respiro e le forze. Che si avvertiva svenire, per il dolore, soffocata dal sangue che le inondava la bocca. Sei mesi da vivere, ancora. Che si facesse presto, almeno.

 

Eppure, incredibilmente, lei era guarita.

 

Prodigio, miracolo. Queste erano state le parole usate allora per lei. Non da questo, ma da altri dottori. I dottori del  popolo, che a mani nude curavano i feriti  della Bastiglia.

 

Una vita tranquilla, alimentazione adeguata... Oscar rise al ricordo di quei consigli. In quei giorni convulsi neanche i cimiteri stavano in pace. E lei era malata, e senza André.

Decise di fare la sua ultima scelta, prima di non poterne più fare alcuna. Di concentrare nell’estrema sua azione tutto il senso di una vita intera.

Alla Bastiglia...

Aveva guidato all’assalto i suoi soldati della Guardia. Per meglio dire, loro avevano guidato lei. Avvolgendola come in un abbraccio, fatto di devozione e cameratismo. Il loro comandante. Una donna. Che per la prima volta, davvero, in quei giorni, avevano trattato come comandante e donna, senza che più una cosa dovesse escludere l’altra. Con rispetto e fedeltà cieca nell’obbedirla, e petti schierati per difenderla.

Quei soldati demotivati e straccioni avevano preso a cannonate una fortezza, quando sembrava ancora che farlo significasse votarsi al suicidio.

Che forza immensa sprigionava il coraggio, negli uomini.

 

Ma Oscar, questo, lo sapeva bene.

 

Si era presa tre pallottole in corpo ed era entrata nella leggenda, quel giorno. Ricordava ancora le stampe che circolavano su di lei, con la spada alzata e i capelli al vento, in quel glorioso 14 luglio: “L’eroina della libertà”, c’era scritto.

Un bel modo di diventare eroi, aveva pensato allora: con il corpo ridotto a un colabrodo e il morale a brandelli. Ma gli eroi non sono tutti fieri e incorrotti?

O meglio, questo l’aveva pensato non subito, ma mesi più tardi. Dopo che aveva riaperto gli occhi e si era vista davanti una Rosalie felice e piangente, e l’aveva sentita chiamare, dire: “Si è svegliata...”.

Piangeva sempre, Rosalie.

Curioso, era stato questo il primo pensiero che era riuscita a formulare.

E poi: “Sono viva”.

Poi ancora più nulla, aveva vegetato per altri mesi in un dormiveglia tra colpi di tosse e panni caldi, e dolori atroci e un andirivieni di facce e dottori da un sogno all’altro, e solo un pensiero piantato nel cuore come un paletto. Dove sei, Andrè.

 

Poi era sorto il sole, un mattino, e lei si era sollevata su un gomito per guardarlo.

 

Due anni passati, da quel 14 luglio. Allungò le gambe sullo sgabello, davanti al fuoco, slacciò i polsini della camicia. Vestiva ancora con panni maschili, non aveva mai smesso. Che senso avrebbe avuto, ormai, indossare una gonna?

 

Le cose erano cambiate, fuori. Ma lei non era cambiata allo stesso modo.

L’eroina della libertà... In un universo stravolto. In una Parigi in cui tutti esultavano ed uccidevano, in cui la gente si ubriacava e danzava, dove i cadaveri nelle strade gridavano perché, e la giustizia diventava vendetta, ed i fiori della libertà germogliavano su campi di sangue, in quella Parigi Oscar non si riconosceva più.

Le cose avevano preso una brutta piega. Una piega disumana. Il popolo voleva le sue vittime e le cercava con sempre più furia, uccidendo i bambini dei nobili. I moderati stentavano a controllare le frange estreme dei giacobini. Il re non aveva polso, e non si accorgeva, non sapeva cogliere le poche opportunità che ancora gli si offrivano. E la regina...

Oh, la regina si era chiusa in una rocca di orgoglio e superbia. D’incomprensione per tutto. Aveva assunto posizioni che mai le aveva visto prima. Faceva politica, faceva scelte dannose, cercava l’appoggio di paesi stranieri contro il suo Paese. “Lo Stato sono io”: non era questo che aveva detto Luigi XIV, quasi un secolo prima? Anche Maria Antonietta ne era convinta. Non capiva, continuava a non capire...

Non avrebbe capito mai, forse.

 

Solo per Oscar, chissà perché, aveva avuto parole d’affetto. Nonostante tutto. Non aveva più chiesto  di vederla, ma continuava a volerle bene.

“Io ho lasciato da tempo la Guardia reale, maestà”. Le aveva detto questo, anni prima, il giorno del loro addio. E la regina aveva accettato. Le aveva lasciato seguire quella strada che non capiva, senza nemmeno giudicarla. Non aveva mai usato, per Oscar, la parola tradimento. Lei, forse la sola che ne avrebbe avuto ragione.

Ma la regina aveva nel cuore Oscar come una sorella.

 

Prese a fissare la fiamma che fluttuava: una lingua di fuoco lambiva un ramo ancor verde. Ne usciva un sibilo di vapore. Era rimasta a Palazzo Jarjayes a dispetto di tutto: vi era voluta tornare per forza, una volta guarita, nonostante fossero in tanti a sconsigliarla di farlo. Lei era un’eroina, ma era sempre una nobile. E le cose degeneravano, rapidamente.

Eppure era rimasta lì, ostinatamente, si era aggrappata a quelle mura e a quei mobili senza sentire ragioni. Aveva perso tutto, la Rivoluzione le aveva lasciato solo la sua casa.  Per ora. Oscar vi era rimasta da sola, un giorno dopo l’altro, ad aspettare.

Quel palazzo era l’unico appiglio che la legava ad André. L’ultima speranza che potesse ancora tornare, l’unico luogo in cui lui avrebbe potuto cercarla. In un mondo sconquassato e diverso, in cui niente rimaneva lo stesso, se André fosse ritornato da lei avrebbe potuto trovarla lì.

La mia vita è iniziata qui, Oscar, ed è iniziata con te.

Anche la mia vita è iniziata con te, André.

Amore mio.

Amore mio, amore mio, e che gioia poter ripetere quelle parole piangendo, a occhi chiusi nel buio, da quel giorno che, disperata, sfinita dalla vana ricerca, era tornata proprio lì, in quel salone, e la passione l’aveva invasa, come una marea. E finalmente le lacrime erano uscite dai suoi occhi impietriti, in un pianto dirotto e consolatorio. E per la prima volta gli aveva detto amore.

E’ così dolce poterlo fare. Anche se da sola.

Era stato quel giorno, lo sapeva col cuore, che aveva iniziato a perdonare se stessa. Che aveva iniziato ad sopportare il suo errore, e aveva accolto nell’anima la pienezza del sentimento per lui.

Quanta forza aveva, quel sentimento. Quanta gioia, nel dolore, era in grado di darle.

 

Ora riandava con la mente al passato, quel passato che avevano insieme. C’erano stati momenti luminosi e felici, e ora poteva, finalmente, richiamarli al ricordo.

Prendi la spada, André, ti darò una lezione! Erano assalti accaniti, era un gioco in cui metteva tutta se stessa. “Adesso basta”, diceva  lui in uno slancio, e parava e le veniva vicino, dietro le lame incrociate: poteva avvertirne il respiro ansante e la forza nell’impugnare la spada, ma André non la usava mai tutta, era da sempre un tacito accordo tra loro. Vuoi dare un morso a questa mela? E sorrideva e la lucidava sul braccio, gliela tirava e poi affondava i denti anche lui, dove lei aveva morso. Andiamo a fare una cavalcata, dài, e quante albe viste sorgere insieme, tra le colline di Arras, mentre i cavalli pascolavano quieti e non c’erano impegni da assolvere, e ogni giorno era una vacanza per loro, di cui non perdevano nemmeno un istante.

E le insegnava a sdrammatizzare, André. Persino nei periodi inquieti della passione tra Fersen e la regina, quando i cortigiani sparlavano e lei non sapeva come farli tacere. “Cosa dovrei fare – diceva esasperata -, minacciare con la spada tutti quelli che malignano su di loro?”. “E’ una buona idea, perché non ci provi, Oscar?”

Allora lei rideva e trovava il modo di risolver le cose.

 

Anche nei momenti peggiori, di sgomento e incertezza.

Prima del duello col duca di Germaine, quando avevano passato la notte, in segreto, insieme, nella stanza di lei.

“Resta con me, ti prego”, gli aveva chiesto. Tante volte lo avevano fatto, da bambini. Ora siamo grandi, aveva risposto lui. Ma era restato. Si era disteso sul letto con lei, nel buio, senza più nemmeno cercare di dissuaderla.

“Onore! Qualunque cosa sia non vale la tua vita!”, le aveva gridato poco prima, fuori di sé, per distoglierla da quello scontro.

Ora invece l’abbracciava in silenzio, immobile e sveglio: e lei pian piano si era assopita, la testa poggiata sul suo petto, al ritmo dei battiti del suo cuore. Era trasalita nel sonno, quella notte, più volte. E ogni volta le braccia di lui l’avevano stretta, pronte e sicure. Si era riaddormentata, ogni volta.

 

E quel giorno che André si era tolto la fasciatura all’occhio, per venirla a riprendere, al Palazzo Reale di Parigi... Sapeva che cosa stava rischiando, e non aveva esitato. “Ma perché, perché hai voluto farlo, André...”, gli aveva detto coi pugni stretti contro il suo petto, in un pianto flebile, addolorato: lei lo conosceva, il perché.

“Impazzivo, senza sapere dov’eri...”, aveva risposto a bassa voce, carezzandola piano.

 

Era la vita di due anime che si amavano, questa. Era così chiaro.

La felicità che mi era stata donata, dalla culla. E non l’avevo riconosciuta.

 André sì, invece.

Era questo che la straziava di più: che André se ne fosse andato pensando di non essere amato. Avrebbe voluto dirglielo all’infinito, adesso.

Ed era successa una cosa strana, il contrario di quanto accaduto fino ad allora: le era venuta una fede incrollabile, la stessa che aveva perso André.

 

Non posso morire senza avertelo detto, amore.

 

 

E lo aspettava. Lo aspettava a casa. Sarebbe rimasta ad aspettarlo là, finché non fosse tornato. “Se non dovesse accadere mai...”, aveva chiesto Alain, sinceramente preoccupato per lei, cercando di convincerla a scegliere un altro posto, un posto più sicuro. Gli aveva sorriso, e lui aveva abbassato lo sguardo.

“André mi ha dato trent’anni della sua vita – aveva risposto a voce bassa e tranquilla -. Gliene devo  ancora ventotto, almeno...”

Solo a casa, a palazzo Jarjayes, avrebbe potuto trovarla. E che senso aveva andare via di là per una vita sicura, se andare via significava impedirsi di vederlo per sempre?

 

Suonò il campanello che aveva sul tavolino, per chiamare la  cameriera. Era una domestica nuova, una brava donna che Rosalie le aveva inviato perché non fosse del tutto sola. Una persona discreta e gentile. Quel lavoro era una buona cosa, per lei, che aveva lottato da sempre con la fame. Anche adesso che c’era la libertà.

E in quella casa non c’era molto da fare. Una volta, forse.

 

“Dite pure”, mormorò premurosa.

 

“Ti prego, vorrei che spegnessi tutte le luci. Io resterò qui ancora un po’”.

 

“Certo, come desiderate – rispose -.  Mademoiselle...”

 

“Sì?”

 

“E’ appena arrivato un uomo a cavallo. Ha chiesto di voi, ha delle carte”.

 

L’aveva dimenticato del tutto. Quel giovane che voleva scrivere la sua biografia. Aveva insistito tanto perché leggesse i primi capitoli. “Ma a chi serve una storia della mia vita?”, aveva obiettato perplessa. “E poi ci sono personaggi più popolari, oggi...”. Lui però non si era dato per vinto, voleva parlare proprio di lei, del suo coraggio... Gli scintillavano gli occhi, nel dirlo. Quell’entusiasmo l’aveva colpita, era il fervore di chi crede ancora nelle cose.

Così, dopo mille preghiere, aveva ceduto. E va bene, aveva sospirato alla fine. Portameli una sera di queste, li leggerò. Ma è una sciocchezza... E poi non sono ancora morta...

 

Se n’era scordata.

 

“Adesso è tardi, però – comunicò alla donna -. Digli di lasciarteli pure, quei fogli. Assicuragli che li leggerò, e ne avrò ogni cura”.

 

“Certo, come volete”.

 

Rimase sola di nuovo, si alzò dal divano. Un bravo giovane, pensò. Speriamo non gli dispiaccia. Stasera proprio non me la sento di incontrare qualcuno.

Quand’è che te la senti mai, Oscar?

Andò alla grande vetrata, quella che dava fuori, sul giardino. Tutto era cupo e buio, c’era vento. Solo in alto alcune stelle, lassù, si vedevano ancora.

 

“Non sei cambiata, Oscar”.

 

La voce era venuta dal fondo della stanza, dalla penombra. All’improvviso la sorpresa, e il cuore che martellava e le gambe che non reggevano più. Poi, come rallentato, il bicchiere cadere a terra dalla mano aperta, i vetri sparsi sul pavimento, e ai suoi piedi il liquore versato, nel ronzio indistinto delle sue orecchie. Non sei cambiata, Oscar.

Gli stivali, neri. Come la persona. Una figura nera nel buio, una sagoma disegnata dal chiarore del fuoco. Con quella voce. Non sei cambiata, Oscar.

E ora lì, più vicino. Da lei, da poterlo vedere, ed i capelli ed il profilo del viso e la bocca, e le mani. E lo sguardo, il suo profumo.

“André!”

 

Era lui, lui. Così, senza che nulla avesse preparato il suo arrivo, in quell’unico istante nel quale il pensiero non era fisso su lui.

André, proprio uguale a se stesso, a un soffio dal sentire il suo viso, con lo sguardo che brillava. André...

Poi l’abbraccio, e non ricordò mai l’attimo prima di toccare il suo corpo, il movimento che avevano fatto per riprendersi l’un l’altra, nel buio.

“Sei tornato, sei tornato... André!”.

Sei tornato, era solo questo che riusciva a ripetere ancora, e il suo nome rinnovato più volte sulle labbra, come fosse sortilegio capace di creare, render concrete le cose. La sua presenza, improvvisa, lì, a colmare il respiro. André.

 

Dimmi, che sei tornato, parlami ancora... parla, perché riconosca di nuovo il versarsi della tua voce nel cuore, dammi la prova che è vera questa stretta delle tue braccia su me, le tue mani avvolte intorno alla vita, la pressione intensissima e lieve delle tue dita serrate, adesso, sulle mie spalle, e trascorse, ora, sul  mio collo, e tra i capelli, e sul viso... Oh, sei tornato, sei tornato, André...

 

“Oscar, la mia Oscar, sei tu...”, e la sua voce, che s’incrinava nel dire, ed i contorni, conosciuti, del volto, dentro le mani, e l’aroma, della sua pelle, nell’incavo tra il suo collo e la spalla, dove poter abbandonare il viso a occhi chiusi, aggrappata, in un palpito fragile.

 

La mia Oscar.

Oh, sì, la tua Oscar, André, ma non è vero che non sono cambiata. Senti il tremare di tutto il mio corpo affidato al tuo, ascolta delirare il mio cuore, non lasciare le mie mani... ti prego. Non è vero, non sono più come prima, sono cambiata e mi hai cambiato tu. Sei tornato, finalmente. A casa. Ti aspettavo, ti aspettavo da tanto.

 

Basta, non parlare più, ora. Non esistono discorsi da fare, io non voglio ragionare e pensare, penserò dopo, ma adesso... non dirmi altro. Non mi spiegare, non cercare di tradurre in parole questa gioia che prorompe nel petto, fai durare questo istante in eterno, voglio sapere soltanto che tu sei qui.

Oh, piangi, tu piangi, André... Sono lacrime, queste che scendono sul tuo viso, le sento sulle mie guance, sulla mia bocca, volgo le labbra per seguirne il cammino sulla tua pelle, vi poso le ciglia perché si possano mescolare alle mie.

Sono lacrime dolci, finalmente, amore. E che miracolo, cancellano il tempo. Non c’è più tutto quel peso, sul cuore, non sono più stanca, esausta, vissuta.

E nemmeno tu. Mi stai stringendo come se volessi invadermi, occuparmi il petto e la mente, e il tuo corpo è fasciato al mio corpo. Siamo tornati indietro, di anni, e questa vita è nuova. Tutto il dolore del vuoto si colma, e l’amarezza è diventata un torrente che mi trascina e riscrive tutto. Questa vita è nuova, e io ho la forza ed ho di nuovo il coraggio per viverla tutta da capo.

 

Non può più succederci nulla, André, le nostre attese palpitanti si uniscono, le nostre anime si ritrovano e sono qui, al di sopra di noi, a parlarsi nella lingua che è loro, che da sempre solo loro conoscono. Non può succederci nulla, adesso, perché il mio cuore si sta spezzando di gioia, e le tue labbra tremano, sulle mie, e lo so, non l’avevamo deciso, ma è questo fremito che ci travolge e ci porta, e tu sei tenero e prepotente, mentre mi baci. E c’è una fiamma, che mi brucia e mi scioglie, io lo sapevo, che era questo, l’amore.

Ti ho aspettato, e sto per dirti che ti amo, non c’è più niente da guarire, ci amiamo. Non smetteremo, non smetteremo più.

 

 

Continua (forse)...

mail to: imperia4@virgilio.it

 

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