Un'altra stagione
(dopo Autunno)
parte settima
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Non era facile, per André, abituarsi a non vedere Arras. La casa, ma soprattutto fuori. Era quando uscivano che Oscar sentiva la tristezza del rimpianto stare in agguato dentro di lui: ed era soprattutto in quei momenti che gli stava vicina. André amava Arras di un amore che non poteva spiegare.
In casa aveva trovato presto le misure, anche se all’inizio aveva avuto più bisogno di lei. Dormivano nella stanza di Oscar, e lui aveva riconosciuto gli spazi, la posizione dei mobili, come se li avesse disegnati nella mente. Si era avvicinato al baldacchino del suo letto, il primo giorno, e in silenzio aveva passato una mano sul legno, alla base di una delle colonne, vicino al cuscino. Aveva sorriso, senza dire niente.
“Cosa c’è?”, gli aveva chiesto. Siccome non rispondeva, Oscar era andata a vedere, sollevando la tenda pesante del letto. Quasi invisibili, su quella colonna, c’erano delle lettere incise. Ci aveva passato sopra le dita: c’era scritto “André”.
“Oh, amore – aveva detto abbracciandolo -, sei stato tu... E quando l’hai fatto?”
Lui aveva alzato le spalle, in un sorriso quasi autoironico: “Mah... avrò avuto dodici o tredici anni...”
Oscar si era sentita malissimo. Ma lui l’aveva circondata in un modo tenero: “E’ che questo letto mi è sempre piaciuto molto: lo volevo io...”
L’aveva baciata mentre lei rideva tra le lacrime. “E come vedi l’ho ottenuto...”, aveva aggiunto a bassa voce, spingendola col suo corpo sulle coperte.
Si svegliavano presto. Ma spesso rimanevano in camera, e facevano l’amore nella luce tenue del primo albeggiare, sentendo il torpore delle membra assonnate diventare brivido, e l’abbandono dolce del riposo trasformarsi in piacere. Oscar teneva gli occhi chiusi, quando lui la prendeva così, e lo faceva fare, offrendosi completamente. Non controllava i gemiti che salivano alle sue labbra, allora, in un moltiplicarsi di sospiri che trascinavano i suoi, e diventavano grida. Non cercava più di dominarsi, perché André impazziva, quando lei faceva così, e trasformava le carezze in un abbraccio veemente, quasi spietato, che non le dava tregua finché di quelle grida non restava che un lamento sommesso, prolungato, cui lui si abbandonava unendovi il suo piacere.
Poi si riaddormentavano, felici.
E quel soggiorno diveniva sempre più bello, come se essere di nuovo in quei luoghi avesse per loro il potere di rifare il passato, di unire ai ricordi dolcissimi di un tempo la gioia intensa di un presente appagato. Come se il periodo che stava in mezzo non esistesse più, e il loro amore potesse sognare una vita armoniosa, senza fratture, dal primo sorgere alla pienezza completa dell’oggi. Non era vero e lo sapevano: ma non avevano mai sognato, insieme, e si presero questo lusso.
Spesso stavano soli, vollero stare da soli, all’inizio. Andavano al fiume: ce n’era un tratto dove si toccava, nella terra rimasta a Oscar, circondato da alberi e pieno d’ombra. Si stendevano là, sulla riva, portandosi qualcosa da mangiare, e ascoltavano la brezza stormire tra le foglie godendosi gli ultimi giorni di sole che la stagione offriva, nei raggi filtrati quietamente tra i rami. Oscar gli leggeva dei libri.
Un giorno insolitamente caldo si tolse le scarpe e le tolse a lui. Poi – nonostante le sue proteste - volle portarlo a camminare nel fiume. L’acqua fredda della corrente lambì rapida le loro gambe, mentre posavano con cautela i piedi sulla ghiaia del fondo. “La prossima estate torneremo e faremo il bagno qui”, gli disse stringendosi forte alla sua mano. Poi bagnò le dita e fece cadere gocce sul suo viso, passandogli le mani tra i capelli. Gli baciò le labbra fresche, mentre il fresco del fiume le accarezzava la pelle. Tornarono a riva, bagnati, pieni di desiderio.
La sera cenavano vicino al camino, poi rimanevano insieme davanti al fuoco, a progettare la giornata successiva. A baciarsi.
La vivevano, quella felicità, e sembrava a entrambi incredibile.
Una mattina Oscar, svegliandosi, non lo trovò nel letto. Si guardò intorno spaesata, poi si alzò e uscì dalla stanza senza nemmeno vestirsi, con una coperta sulla camicia da notte.
“André?” ripeté alcune volte, esitante, mentre scendeva le scale a piedi nudi. Nel salone al piano di sotto non c’era nessuno, ma nel camino era stato acceso il fuoco, con poca legna che crepitava già. Percorse i lunghi corridoi, fino ad affacciarsi alla porta che dava fuori. “André...”. Mise un piede sulla pietra fredda dell’ingresso, non sapeva bene cosa fare. Poi si girò, e vide.
Era lì, davanti alle scuderie, si muoveva tranquillamente intorno a due cavalli. Erano sellati, e lui accarezzava il muso di uno. A guardare la scena così, da distante, non si sarebbe mai detto che non vedesse.
“André!”
Gli corse incontro felice, sull’erba bagnata. Gli si buttò tra le braccia. “André!”.
Lui l’accolse, in una stretta muta, il viso sul suo collo, sotto quella coperta, a sentire l’odore del suo corpo uscito appena dal letto. Sentì i piedi nudi sugli stivali, e la sollevò con le braccia intorno alla vita, in un empito di tenerezza. “Ciao”, disse, dandole un bacio lieve.
“Cosa stai facendo, amore...”. Era piena d’emozioni, quel mattino. Rassicurata, per averlo trovato. E intensamente felice, per quello che aveva visto.
“Era una sorpresa...”, rispose lui, quasi con timidezza. “Ecco... io ho fatto questo tutta la vita, anche qui ad Arras. Non è stato così difficile”.
“Sono due...”
“Sì... Ho pensato che potevamo... una passeggiata... se tu tieni le redini...”
Gli gettò le braccia al collo di nuovo. “Oh, André! Sì, certo... certo che possiamo... E’ meraviglioso, André”.
Davvero è meraviglioso, pensò, cacciando indietro lacrime di gioia mentre lo stringeva. E’ meraviglioso che tu abbia ritrovato questa fiducia, amore mio. Questa voglia di fare le cose.
“Ehi, ma non siamo un po’ troppo nudi e digiuni per stare fuori?”, le sussurrò sfiorandole con un dito le guance bagnate. “C’è la colazione, in casa”.
Fu
al ritorno da quella passeggiata, all’ora di pranzo, che trovarono la lettera
di Bernard.
Annunciava che sarebbe venuto ad Arras entro una settimana, insieme ad Alain. E nel plico c’era un messaggio dell’avvocato, che si era recato fino in Inghilterra per rintracciare Girodel. Informava Oscar che le cose procedevano bene: il marito non aveva fatto opposizione - anche se l’idea del divorzio lo aveva un po’ sorpreso, all’inizio - e aveva acconsentito a inviare un documento autografo e autenticato che la liberava, affermando che non v'era più comunione d'intenti e di vedute, che la separazione perdurava da tre anni e che lui risiedeva all’estero quasi dallo stesso periodo. Questo, spiegava l’avvocato, semplificava molto le cose e – se non ci fossero state novità o intoppi – in breve tempo si sarebbe potuti arrivare al divorzio. Sarebbe stato uno dei primi casi, dall’approvazione della legge.
Proprio per portarle i documenti, che era meglio non inviare per lettera, Bernard sarebbe venuto ad Arras.
Oscar
scorse attentamente quelle righe, la grafia ordinata che annunciava senza
scomporsi tante buone notizie: e fu piena di gioia, invece. Anche se si sentì
bruscamente riportata, da quel linguaggio giuridico e dalle sue casistiche, con
i piedi per terra. E provò un’intima amarezza, che nascose.
Poi,
guardando bene nel plico, trovò la lettera di Victor.
Mia
cara Oscar,
ho
ricevuto la tua lettera e il tuo avvocato e, come ti avranno certamente detto,
ho acconsentito a tutto.
Non
ho intenzione di crearti delle difficoltà, se questo è quello che vuoi. Se
mettere la parola fine a un matrimonio che non ti ha mai reso felice può
restituirti il sorriso. Mi dispiace soltanto che, nel tempo che abbiamo avuto,
solo questo sia stato ciò che ho potuto fare per darti una gioia. Allora
credevo di poter fare molto di più.
Ma
pensavo che il mio amore potesse bastare per tutti e due, che chiedere la tua
mano e portarti nella mia casa fosse sufficiente per costruire un’unione con
te: sono stato presuntuoso e stolto, e questa è la mia colpa.
Perdonami,
allora, e non accusare te stessa più di quanto tu non debba accusare anche me:
abbiamo sbagliato in due. E se questo divorzio può in qualche modo rimediare a
tutto il male che ci siamo fatti, allora forse è una buona cosa.
Eppure,
nonostante tutto, il pensiero di non saperti più mia moglie mi addolora. Ma è
un sentimento con cui farò i conti da solo, non preoccuparti.
Mi
hanno detto che adesso sei felice.
Mi
hanno detto che hai ritrovato André Grandier, che vivi con lui. Mi hanno detto
che ha perso la vista. Dio, Oscar, di quanto amore può esser capace una donna
come te...
Perché
tu lo ami, ne sono certo. Lo sapevo anche prima, quando ti ho portato via a lui.
Quando la sola idea che esistesse amore, tra voi, nel nostro mondo sembrava
assurda e ridicola, e per questo non le ho mai dato il peso che dovevo darle.
Non era un’idea assurda, era la realtà: e noi sbagliavamo a ignorarla.
A
volte, pensando a questo, capisco il perché della tua scelta di passare coi
ribelli. Di lottare contro la tua nascita nobile, contro di me. E penso che
forse hai avuto ragione, Oscar, perché la vita che hai dovuto fare nel nostro
mondo non era quella che avevi scritta nel tuo cuore.
Hai
avuto tanto coraggio da andare fino in fondo. E allora non incolpare ancora te
stessa per il passato, per gli errori commessi: so che lo hai fatto, ma non devi
più.
Quel
tempo è finito, ed è stato un tempo infelice. Adesso è giusto che venga un
altro tempo.
Addio,
Oscar, credo che noi non ci sentiremo mai più. E’ per questo che ho voluto
scriverti questa lettera, anche se non serviva e non mi era stata chiesta.
Perché
quando il tuo pensiero cadrà sul nostro passato vorrei che tu non dovessi
scacciarlo con dolore. Perché tu possa riconciliarti con te stessa. E anche con
me, nei tuoi ricordi. Non si deve aver bisogno di dimenticare, per perdonare
davvero.
Sii
felice, io lo sono per te.
Victor
Oscar chiuse quella lettera in silenzio, e la strinse nella mano trattenendo una lacrima. Forse era proprio vero che stava arrivando un altro tempo.
Era notte. André si svegliò all’improvviso, e lei lo sentì, perché si era staccato dal suo abbraccio. Seduto sul letto, respirava a fatica. Oscar accese una candela, e vide il suo sguardo spaventato, nel vuoto.
“André... Cosa succede?”, chiese posandogli una mano sulla gamba.
Lui non rispose per qualche istante, poi chiuse gli occhi, e s’impose un respiro più profondo.
“Un sogno... soltanto un sogno”.
Si accorse che solo per un attimo aveva desiderato non doverglielo chiedere: “Che sogno, André?”
Non si poteva spiegare. Era un sogno buio, senza personaggi. Eppure non ne faceva mai così. Anzi, di solito c’erano tante cose, in quelle visioni notturne: colori, immagini, la Oscar che ricordava, con le parole di adesso. E vedeva anche se stesso, a volte. Quando si risvegliava, allora, e la sentiva fra le braccia, gli sembrava quasi che quello fosse un risarcimento per il dolore di non vederla di giorno.
Ma stavolta non era stato così.
“Non lo so, Oscar. Era vuoto, non c’era niente”.
Non lo interruppe. Lo vide stringere i pugni, cercare di afferrare, di liberarsene.
“Non c’era niente. C’ero solo io, sapevo di esserci... e nient’altro, Oscar. Vuoto e buio, come quando è successo la prima volta. Proprio nello stesso modo...”
La prima volta che la vista l’aveva abbandonato, e lei non c’era. André lo ricordava bene. La stessa paura, lo stesso smarrimento, lo stesso desiderio di essere abbracciato da lei. Ma questo non glielo disse.
“Sono qui, André. Sono qui”. L’aveva stretto, gli circondava la vita.
Lui chiuse gli occhi e fece cenno di sì col capo. Più volte. Sospirò.
“Non lasciarmi mai, Oscar. Non farlo mai”, mormorò a voce bassa, ascoltando il suo abbraccio. E cedette a quella debolezza: “So che non dovrei chiedertelo, lo so. Ma tu non lasciarmi, Oscar”.
Li aspettavano per l’ora di pranzo, e tardarono di poco. Arrivarono a cavallo, e li videro sotto il portico della casa, seduti. Lei appoggiava il capo alla sua spalla.
“André, Oscar!”, gridò da lontano Alain, agitando il braccio.
André sorrise. Era sempre contento d’incontrare Alain. Si alzarono.
“Visto? Sono venuto anch’io – disse Alain mentre si stringevano le mani -. Volevo proprio vederla, questa famosa Arras”.
“Perché, ne avevi sentito parlare?”, chiese Oscar.
“Sì comandante – rispose con un sorriso vago, fingendo noncuranza -. Me ne parlava un compagno d’armi, anni fa...”
Oscar lo fissò, e sentì stringersi il cuore. Poi anche lei sorrise.
“Alain era a casa nostra quando progettavo il viaggio - spiegò Bernard -, e ha proposto di accompagnarmi”.
“Mi avevate invitato, no?”, disse prendendo sottobraccio André. Poi lo portò dentro, bisbigliandogli all’orecchio: “E poi ci sono un sacco di cose che devi raccontarmi, vecchio mio: non penserai che mi accontenti di un paio di frasi smozzicate su una terrazza...”. André rideva, e faceva segno di no col capo.
La cena passò allegramente, come tante altre cene che avevano avuto insieme. Con l’unica differenza che Oscar aveva voluto preparare lei, senza chiamare nessuno in aiuto dal villaggio, e portava personalmente le pietanze in tavola. Bernard e Alain la guardavano, e quasi non riuscivano a restare seduti, perché a ogni suo movimento volevano aiutarla.
“Comandante, sapete che siete un’ottima cuoca?” disse alla fine Alain.
“Non mi hai mai visto con un ago in mano...”, rispose lei.
“Ah no! E non ci tengo, grazie, se i vostri ricami sono uguali a quelli che fate con la spada”.
Risero tutti, e André posò la sua mano su quella di Oscar, che lo lasciò fare abbassando le ciglia.
Alain sorrise senza dire nulla.
Dopo cena restarono a parlare e a bere cognac, seduti al tavolo sparecchiato. Poi Bernard tirò fuori i documenti per Oscar, glieli fece vedere. Loro due invece si spostarono un poco distante, davanti al camino.
“E’ davvero bello qui, André. Avevi ragione”.
“Sì – rispose -, lo so. Talmente bello che avevo paura di tornarci”.
Alain restò in silenzio. Capiva.
“Ma è ancora bello, sai?”
“Ne sono felice, André”.
Lui si appoggiò allo schienale della poltrona, e bevve un sorso di liquore. Alain lo guardava senza parlare.
“E’ una vita nuova – disse infine André, lentamente -. Tu ci avresti mai creduto?”
Io sì, pensò Alain. Io me lo sentivo. “Dovevate ritrovarvi”, disse.
“Sì, è vero. Doveva succedere”.
Poi Alain non seppe trattenersi: “E lei... com’è?”
André sorrise. Sapeva che l’amico, pur avendogli fatto questa domanda, non si aspettava che gli rispondesse. Così lo sorprese, con le sue parole.
“Profuma di latte”.
Lo aveva detto in un modo talmente intimo che Alain tacque, confuso.
Era solo una frase, isolata. E André non diceva mai cose come questa.
Ma quella notte, nella loro stanza, si svegliò di nuovo, all’improvviso. Oscar non se ne accorse subito, perché era rimasto in silenzio, facendo attenzione a non svegliarla. Intuì il movimento del suo corpo e nella penombra vide ancora il suo profilo seduto sul letto, accanto a sé. C’era un affanno trattenuto, nel suo respiro.
“André...”
Scosse la testa, le prese la mano per tranquillizzarla: “Scusa, ti ho svegliato di nuovo, Oscar”.
“Cosa c’è?”
“Niente... non lo so... come l’altra notte”.
La prese tra le braccia e si rimise giù, con lei. “Dormiamo”, disse tenendola stretta.
Alain e Bernard si sarebbero trattenuti ancora qualche giorno ad Arras.
C’era un’atmosfera serena, tra loro quattro, ma Oscar era inquieta, benché cercasse di nasconderlo. La lettera di Victor, pensava. Dev’essere stata quella.
Oscar non l’aveva letta ad André, ma le era sembrato onesto riferirgli che l’aveva ricevuta, e riassumerne i contenuti. André aveva ascoltato in silenzio, e non aveva detto niente. Forse non dovevo parlarne, si disse. O dovevo leggergliela. Ma tra quelle righe ce n’erano alcune che aveva voluto risparmiargli. Che non si era sentita di infliggergli, pur sapendo che così correva il rischio di turbarlo e renderlo nervoso.
“Mi
hanno detto che hai ritrovato André Grandier, che vivi con lui. Mi hanno detto
che ha perso la vista. Dio, Oscar, di quanto amore può esser capace una donna
come te...
Perché
tu lo ami, ne sono certo. Lo sapevo anche prima, quando ti ho portato via a
lui”.
Oscar non voleva che dovesse soffrirne. Non contava più nulla, ma a lui avrebbe fatto male.
Forse era per questo che si era incupito, negli ultimi giorni.
Una sera si ritrovò a parlarne con Alain, seduti al tavolo in casa, mentre André e Bernard stavano sotto il porticato, discutendo della situazione a Parigi.
“Siete preoccupata, comandante?”
“Non chiamarmi così, Alain. Chiamami Oscar, e dammi del tu. E’ tanto che siamo amici”.
Alain chinò il capo e sorrise: “Sì, è vero. Ma farò un po’ di fatica a perdere l’abitudine”.
Poi la fissò: “E’ per André, vero?”
Oscar alzò il viso stupita: “Te ne sei accorto anche tu...”
Erano solo pochi giorni che stavano lì. Ma se n’era accorto.
Sospirò. “Non dovete... non devi stare in pena, Oscar - disse con un tono di voce che la rincuorò -. Io l’ho visto tante volte così, ma ora davvero non gli succede quasi più. Sono solo momenti. Passeranno anche questi. E’ solo uno strascico, Oscar, nient’altro”.
Prese il bicchiere, e bevve lentamente un sorso.
“Io... vorrei aiutarlo”. Aveva chinato il capo, una ciocca bionda le scendeva sul viso.
“Ma lo state aiutando... lo stai aiutando, Oscar. Tu... l’hai salvato”. La guardò negli occhi, serio: “Gli hai ridato una vita”.
“Dopo aver distrutto la sua”.
La fissava. Era bellissima e desolata.
“No Oscar, non devi tormentarti. Non devi accusare te stessa. Lui non lo fa”.
Guardava in basso, piena di tristezza.
“Ma perché, perché non posso evitargli questi momenti? Io cerco con tutte le forze, ogni istante...” Alain capì che stava per piangere. Posò subito una mano sulla sua, la strinse: “No, non farlo. Potrebbe accorgersene, e ne soffrirebbe”, disse a bassa voce.
Poi sentì che doveva dirglielo, anche se si era ripromesso di non parlarne a nessuno, mai.
“La ferita di André è molto profonda, Oscar”.
Lei sollevò il viso a guardarlo.
“Perdonami Oscar, non voglio che tu ti senta ancora più in colpa, ed è per questo che non volevo dirtelo. Ma forse devi sapere. Devi capire. Forse così potrai guarirlo davvero, per sempre”.
“Cosa devo sapere, Alain...”
Tacque per alcuni istanti, non sapeva quali parole usare.
“André stava per uccidersi, Oscar. E’ stato un caso se l’ho fermato io”.
Alzò gli occhi, a incontrare sul viso di lei l’effetto delle sue parole. La vide impallidire come non aveva mai visto.
“Quando...”. Non aveva avuto la forza di continuare.
“Poco tempo dopo aver perso la vista. Nella casa di Parigi”.
Aveva la scena ancora vivissima in mente. Era da poco che con Bernard gli avevano trovato una casa. Alain aveva lasciato temporaneamente i soldati, in quel momento convulso, per andare da lui tutti i giorni. I primi tempi dormiva persino là, sopra il divano.
“André non parlava mai in quei giorni. Mai. Non diceva una parola”. Se lo ricordava: era come se gli fosse indifferente qualsiasi cosa. Lasciava che loro lo aiutassero, gli stessero intorno, ma non partecipava. Pieno di sofferenza, d’umiliazione.
Un giorno Alain era uscito a comprare qualcosa da mangiare. Ma aveva dimenticato il denaro, ed era tornato indietro. Entrando non lo aveva visto, e l’aveva cercato sulla terrazza. Era lì, di spalle. Aveva scavalcato il parapetto, teneva il viso sollevato nell’aria, gli occhi chiusi.
Se non fosse stato un militare non ce l’avrebbe fatta a salvarlo: lo aveva pensato più volte, in seguito. Ma l’abitudine alle situazioni di pericolo gli aveva dato d’istinto la reazione giusta. Era arrivato dietro di lui di corsa, senza chiamarlo, e l’aveva afferrato per le spalle all’improvviso, tirandolo indietro con tutte le forze.
Poi, per terra, mentre lui disteso ansimava, gli aveva detto, quasi gridato: “Ma cosa fai, André!”
Non aveva avuto risposta. André si era seduto sul pavimento, ma era come se non fosse cosciente. Poi si era ripreso, ed era stato peggio.
“Cosa fai, André...”
“Cosa faccio”, aveva ripetuto tornando in sé. “Cosa faccio...” e si era portato le mani al viso, aveva iniziato a tremare. Alain non aveva mai visto piangere un uomo adulto. E soprattutto André, che era sempre così controllato, così capace di non far trapelare le sue emozioni. Ma adesso il suo amico stava piangendo.
Lo aveva abbracciato, gli aveva fatto poggiare la testa sulla sua spalla. Lo aveva lasciato sfogare.
“Scusami Alain - aveva detto poco dopo sciogliendosi, rialzandosi in piedi -. Scusa”.
“André...”
“Non ha più senso”, lo aveva sentito rispondere, come parlando a sé, ma anche come se volesse spiegargli. “Non ha più senso. Niente. Niente...”. Poi aveva girato il viso verso di lui, gli aveva messo una mano sulla spalla: “Mi dispiace, Alain. Non sono stato forte”. Si vergognava.
Lui gli aveva passato un braccio intorno alla vita, senza rispondere, e aveva guidato dentro casa i suoi passi ancora incerti, perché era poco tempo che non vedeva più.
Era rimasto per tutta la notte in casa, ad ascoltare le sue parole. Gli aveva parlato di lei, per la prima volta.
“Io... io non lo sapevo”
“Nessuno lo sa, Oscar”.
“E non me l’ha mai detto...”
“Cosa doveva dire, come faceva a spiegarlo a te? André ti ama, Oscar, io so tutto di voi due, dalla vostra infanzia, me l’ha raccontato lui quel giorno. Non poteva dirtelo”.
Poi la guardò serio: “Ti ama, e la sola idea che tu soffra lo uccide. Ha sempre voluto proteggerti, anche da te stessa. Lui non vuole che tu ti senta in colpa, Oscar. E non vuole la tua pena. Vuole soltanto il tuo amore. Dagli soltanto quello”.
Non aveva mai sentito Alain parlare in modo così serio, con quella profondità nel tono. Lo guardò mentre le teneva la mano, non trattenne le lacrime che le scorrevano sul viso, in silenzio.
Anche lui la guardava, la guardò piangere silenziosa per tutto il tempo. La guardò senza dire nulla, con le labbra chiuse.
Pochi giorni dopo, di prima mattina, Bernard e Alain se ne andarono.
Uscirono con loro, per salutarli, restando sulla porta. Abbracciati.
Quando Oscar rientrò in casa, e si chinò sul camino per accendere il fuoco, fu presa da un disgusto improvviso all’odore della cenere spenta. Si portò una mano alla bocca, per non rimettere.
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