Novità

 

 

ANNUNCIO:

Il 23 maggio 2003, alle ore 15,15, a TORINO, presso il Centro di Studi Religiosi Comparati Edoardo Agnelli (via Giacosa, 38), padre SAVA JANJIC, del monastero di DECANI in Kosovo, parlerà sul tema:
"La Chiesa ortodossa serba all'inizio del XXI secolo: le molteplici sfide e le vicissidutini attuali in Kosovo".

Un'occasione unica per sentire un testimone.

 

 

 

Forse qualcuno, anche in Italia, comincia a rendersi conto

della situazione insostenibile dei pochi Serbi rimasti nel Kosovo...

 

 

Da: “30 GIORNI” - Febbraio 2003

Intervista con il vescovo Artemije, capo della comunità serbo-ortodossa del Kosovo

Vittime dell'umanitarismo

Intervista con il vescovo Artemije, capo della comunità serbo-ortodossa del Kosovo

di Gianni Valente

Anche Artemije, il vescovo di Raska e Prizren che guida la comunità serbo-ortodossa del Kosovo, condivide la vita sotto assedio della sua gente. Non può lasciare la sua abituale sede di Gracanica per celebrare in altri luoghi le sante liturgie senza la scorta dei blindati della Kfor.

I suoi interventi, e anche le risposte dell'intervista che segue, non sono immuni dal tono drastico di chi non fa le opportune distinzioni all'interno della controparte albanese ed è poco incline a tentare più equilibrate suddivisioni dei torti e delle ragioni che si mischiano nell'aggrovigliato dopoguerra kosovaro. Ma testimoniano comunque le sofferenze reali di un intero popolo su cui il sistema mediatico internazionale e uno sdegno umanitario à la carte sembrano aver steso il velo dell'oblio.

1) A tre anni e mezzo dal suo inizio, qualcuno dice che quella dell'intervento internazionale in Kosovo è una missione riuscita. Lei cosa ne pensa?

ARTEMIJE:

Chi sostiene questo dice solo una mezza verità. Fino ad ora, questa affermazione è corretta solo se si riferisce alla situazione degli albanesi del Kosovo, visto che con l'inizio della missione Onu loro hanno ottenuto tutto: il ritorno alle proprie case (dopo un mese, erano già tornati 700mila profughi), la totale sicurezza e libertà di movimento, l'opportunità di assunzione e di impiego, il sostegno economico per la ricostruzione e il restauro delle case e delle moschee distrutte o danneggiate durante la guerra, la costruzione ex novo di migliaia di case, moschee, complessi industriali e uffici. Inoltre, gli albanesi hanno ottenuto organismi di governo che affrontano e risolvono solo le urgenze che interessano loro. Ma non basta. Dopo che le operazioni di guerra erano finite, ossia una volta che era stata stabilita la 'pace' dalla missione Onu, è stato loro consentito di espellere dal Kosovo Metohija più di 250mila serbi, ossia due terzi di quanti ce ne erano prima della guerra, e 30mila altri kosovari di nazionalità non albanese. Hanno potuto anche saccheggiare, occupare o distruggere circa 80mila case di proprietà dei cittadini serbi, e distruggere completamente centinaia di villaggi serbi. Hanno abbattuto o danneggiato gravemente più di 110 chiese e monasteri serbo-ortodossi, di cui molti costruiti tra il XIII e il XV secolo. Hanno dissacrato molti cimiteri serbi e distrutto monumenti di importanza storica. Tutto ciò è accaduto sotto gli occhi della comunità internazionale, in una terra sottoposta al governo dell'Onu e senza che alcuno dei responsabili di questi atti terribili fosse mai identificato e arrestato. In aggiunta, bisogna tener presente che i 130mila serbi rimasti continuano a vivere chiusi in piccole e grandi enclave, privati di tutti i diritti umani, come la libertà di movimento, il diritto a lavorare e a godere i frutti del proprio lavoro, il diritto a disporre di condizioni normali di educazione e di assistenza sanitaria. Anche i programmi per consentire il ritorno dei serbi espulsi non sono mai andati oltre la fase preliminare, e finora dei 250mila profughi ne sono tornati solo un paio di centinaia.

 

2) Perché la violenza prende di mira con particolare accanimento le chiese?

ARTEMIJE:


Non ci può essere nessuna ragione che giustifichi la distruzione degli edifici religiosi, a qualsiasi nazione o gruppo religioso appartengano. Eppure sta accadendo proprio questo nel cuore dell'Europa all'inizio del terzo millennio della cristianità. Se c'è una ragione, essa va cercata nelle menti di chi commette questi atti criminosi.

Ossia nelle menti di certi leader del popolo albanese, che da più di 130 anni inseguono il sogno della grande Albania che oggi si intreccia con la richiesta del Kosovo 'indipendente'. Seguendo questo mito, terroristi e criminali albanesi, quando pure era già in vigore il protettorato Onu, sono disgraziatamente riusciti a ripulire etnicamente dai serbi quasi tutte le città del Kosovo Metohija (dalla parola greca metoh, che significa 'proprietà della Chiesa'). E oltre alla pulizia etnica hanno pianificato di cancellare ogni traccia dei monumenti che per secoli hanno testimoniato la presenza del popolo serbo in questi territori. Sanno bene che le chiese e i monasteri sono il segno di una testimonianza perenne che non può essere cancellata dal Kosovo serbo. Ecco perché c'è tanto furore contro essi. Ecco perché non appena vengono rimossi i check-point e i presidi di sicurezza intorno ai nostri monasteri e alle chiese, essi vengono subito distrutti. Gli ultimi attacchi ai luoghi santi serbi sono stati perpetrati nel novembre e nel dicembre 2002.

3) Recentemente hanno creato allarme le voci di una smobilitazione dei presidi militari posti a protezione delle chiese.

ARTEMIJE:

Gli alti rappresentanti dell'Unmik e della Kfor hanno finora espresso la loro ferma determinazione a non lasciare questi territori finché non saranno ristabilite le condizioni per una vita normale e sicura per tutti i cittadini del Kosovo, senza discriminazioni di nazionalità o di religione. Un simile proposito viene espresso da tre anni e mezzo, ma purtroppo finora è rimasto una promessa. A giudicare dalle sofferenze a cui siamo stati esposti anche in presenza del personale della Kfor e dell'Umnik, meglio non pensare a cosa succederebbe se loro se ne andassero prima che sia stata raggiunta una soluzione che configuri un Kosovo multietnico e democratico, secondo quanto è disposto nella risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

4) Come giudica l'atteggiamento del Vaticano riguardo alla situazione in Kosovo?

ARTEMIJE:

Posso dire che nella grande maggioranza del nostro popolo è diffusa l'opinione che il Vaticano sia stato largamente implicato negli eventi accaduti nel territorio dell'ex Repubblica Federale Socialista Iugoslava, e non solo in Kosovo, durante gli ultimi 10-12 anni.

5) Di recente sono apparse sui giornali voci su un possibile viaggio a Belgrado del Papa, che potrebbe allungare in questo modo la sua prossima visita in Croazia. Cosa pensa di questa ipotesi?

ARTEMIJE:

Non abbiamo finora ricevuto alcuna notizia ufficiale o ufficiosa su questa eventualità. Quindi, non vorrei addentrarmi in speculazioni riguardo a questo. Inoltre, se tale possibilità divenisse reale, una posizione a nome della Chiesa ortodossa serba sarebbe espressa non dal solo Pavle, il nostro patriarca, ma dall'intero concilio degli arcivescovi. Allo stesso tempo crediamo che gli arcivescovi terranno in considerazione l'intima convinzione della Chiesa, ossia del popolo credente, su questo argomento. In merito ai benefici che la Chiesa ortodossa serba potrebbe ricevere da una tale ipotetica visita, non mi trovo nella posizione di vedere quali potrebbero essere. Al contrario, temiamo che potremmo riceverne ulteriore danno riguardo alla fede e alle cose spirituali, perché una tale visita provocherebbe nuove divisioni e spaccature nella stessa Chiesa ortodossa serba. Comunque, sono convinto che una tale visita non avrà luogo, a dispetto delle chiacchiere.

 

6) Dopo l'11 settembre tanti opinion makers occidentali si sono lanciati nella propaganda per riscoprire le radici cristiane della civiltà occidentale, davanti al 'nemico' islamico. Ma nessuno di costoro dice nulla sulla distruzione delle chiese in Kosovo. Lei come spiega questo singolare silenzio?

ARTEMIJE:

Non abbiamo gli strumenti per seguire la sfera dell'alta politica internazionale e analizzare in essa gli avvenimenti che si succedono, soprattutto dopo l'11 settembre.

Abbiamo già troppi problemi di cui occuparci nella realtà che ci circonda da vicino. D'altro canto, è inspiegabile il silenzio dell'Europa 'cristiana e democratica' quando crimini di tale gravità vengono commessi contro un popolo cristiano ed europeo come quello serbo.

7) Anche di recente lei ha ribadito che lo status definitivo del Kosovo dovrà essere definito all'interno del più largo contesto balcanico ed europeo, lasciando da parte le mappe e i confini tracciati su base etnica e superando nell'integrazione gli anacronismi ancora operanti. A cosa si riferiva?

ARTEMIJE:

Abbiamo sempre operato per favorire soluzioni pacifiche e democratiche per tutti i problemi e i conflitti internazionali. Sia prima sia durante il conflitto armato, che fece vittime innocenti da entrambe le parti, e anche dopo la fine del conflitto, nell'attuale 'pace internazionale'. Tutte le nostre considerazioni di allora sono valide anche oggi. La soluzione non può trovarsi nel fomentare il conflitto e la volontà di reciproco annientamento. Ma nella tolleranza, nel rispettare il principio 'vivi e lascia vivere'. Se non riusciamo a diventare fratelli con tutti, perché questo dipende anche da chi è dall'altra parte, noi dobbiamo e possiamo essere buoni vicini, e vivere uno accanto all'altro, «ciascuno nella propria vigna e sotto il proprio fico». Sfortunatamente, da parte albanese non riusciamo a vedere la stessa disponibilità o qualche segno di superamento delle tensioni e degli anacronismi.

 

Da: “La Nuova di Venezia e Mestre“, “La Tribuna di Treviso”, 4 marzo, 2003

STANNO PER DISTRUGGERE DEI GIOIELLI

I nostri militari devono difendere le splendide chiese del Kosovo L'allarme del filosofo: «Sono come San Marco Custodiscono i vertici dell'arte bizantina. Se le abbandoniamo al loro destino, siamo da fucilare»

di Renzo Mazzaro

Dopo la pulizia etnica, il repulisti della memoria. Cancellare i ricordi. Via i simboli, soprattutto quelli più forti: chiese, monasteri, monumenti della cristianità occidentale. Fare piazza pulita per togliere ogni pretesto di ritorno ai serbi. Questo pensano gli estremisti albanesi, di religione musulmana, che ancora inseguono nel Kosovo il sogno di una Grande Albania a base etnica, come Milosevic inseguiva quello della Grande Serbia. La guerra è finita nel 1999 ma il Kosovo, provincia autonoma della Federazione Serbia-Montenegro, in attesa di diventare Stato autonomo chissà quando, resta una polveriera. La linea moderata del partito del presidente Ibrahim Rugova, è schiacciata dagli attentati terroristici: su 28 assassinii degli ultimi mesi, 20 riguardano suoi collaboratori

. E ben 122 chiese ortodosse sono state fatte saltare in aria, sotto gli occhi della Kfor, la forza multinazionale di pace. Un patrimonio artistico di valore mondiale sta andando all'estinzione «nell'indifferenza dei liberatori del Kosovo»: lo denuncia Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia.

 

Cacciari, lei conosce bene quella zona...

«Conosco molto bene la situazione del Kosovo e quella dei beni artistici. Me ne sono interessato molto prima della guerra. Li visitai, dietro sollecitazione del mio maestro Sergio Bettini, immediatamente dopo la laurea, nel 1967. Feci un giro di tutti i santuari, monasteri e chiese bizantine della zona tra Bosnia, Kosovo, Serbia. Un'area praticamente sconosciuta, rimasta tagliata fuori da tutti i giri turistici; diversamente da quanto è accaduto, per esempio, ai grandi conventi e monasteri transilvani della Romania».

Fu un tour scientifico?

«Credo di essere tra i dieci che hanno fatto il giro scientifico di quelle chiese, talmente era difficile arrivarci. Non c'erano alberghi, non c'era nulla di nulla. Ma restavi di sale quando entravi».

A quale chiesa si riferisce?

«A quella di Pec per esempio: quello è San Marco, ha degli affreschi incredibili. Il monastero e la chiesa di Pristina sono Istanbul, sono Bisanzio. Il monastero di Decani, tutto affrescato all'interno, è di una bellezza pazzesca. Sono le cose più antiche dell'arte bizantina, diecimila volte più importanti delle chiese greche di Castoria, oppure dei resti bizantini di Salonicco. Ricordo anche chiese romaniche a livello delle grandi cattedrali dalmate di Zara, Sebenico, Trau. E' inaudito come la comunità internazionale, che si è strappata i capelli perchè gli afgani e Bin Laden hanno fatto saltare le due statuone del Budda, che dal punto di vista artistico valevano nada de nada, non abbia mosso un dito. Avendo lì anche le truppe».

Dal 1999 gli estremisti musulmani hanno raso al suolo 122 chiese ortodosse.

«Appunto, è spaventoso. Quando ero ancora sindaco di Venezia, sono venuti a raccontarmi di questa situazione. Avevamo già una mezza idea di fare una mostra su quello che era accaduto, non ricordo più con chi».

Forse c'era anche Rugova?

«No, Rugova non c'era: non mi sembra neanche che si preoccupi molto di questi problemi. Era una delegazione di kosovari che abitavano in Italia. Mi pare che uno lavorasse nell'Università di Pisa. Ma era un mese o due prima che mi dimettessi, nel 2000. Dopo non ho visto altro». Il mensile Trenta giorni ha ricostruito nel numero di febbraio la cronaca delle distruzioni. «L'ho vista. Benemerito Trenta giorni, speriamo che Andreotti si dia da fare. L'Italia si renderebbe corresponsabile di un delitto».

Ma se i militari italiani si ritirano dai presidi, il rischio è elevatissimo.

«Sarebbe come se facessero saltare in aria San Marco a Venezia. E' una follia, bisogna tenere lì i militari, bisogna assolutamente impedire che un'eventualità del genere accada».

Questa decisione è di competenza del ministro della Difesa italiano, che proprio in queste ore ha mandato a Pristina, per discuterne con la Kfor, il sottosegretario alla Difesa Filippo Berselli.

«Allora io dico: se nell'ambito delle operazioni che l'Italia deve fare, non tutela un patrimonio di questo genere che non ha confronti al mondo, si fa corresponsabile della distruzione. Siamo da fucilare. Non ho altre parole: siamo da fucilare. Saremmo noi i liberatori, quelli che sono andati a portare la pace, che hanno scelto la civiltà contro la barbarie? Sono cose dell'altro mondo».

Come si può definire il suo: un appello al ministero della Difesa perché torni sulle decisioni?

«Finché non siamo assolutamente certi che nessuno può mettere in pericolo queste chiese, non bisogna assolutamente sguarnire i presidi militari. Questo patrimonio artistico è unico, non esistono altri esempi. E' come San Marco, ripeto: chiese uguali in Europa non non ce ne sono, non perché San Marco sia la più bella, ma perché quel linguaggio artistico non esiste altrove. Purtroppo nessuno ne parla».

 

INTERVISTA. Vittorio Sgarbi sulla conservazione dei tesori artistici e religiosi del Kosovo

Bizantini, ma originali come Giotto

Vittorio Sgarbi conosce bene il Kosovo e ama gli antichi monasteri e le chiese della tradizione serbo-ortodossa. Eretti tra il XIII e il XIV secolo, hanno reso questo lembo di Balcani un vero e proprio scrigno di tesori artistici. Gli abbiamo posto alcune domande.

di Paolo Mattei

Vittorio Sgarbi conosce bene il Kosovo e ama gli antichi monasteri e le chiese della tradizione serbo-ortodossa. Eretti tra il XIII e il XIV secolo, hanno reso questo lembo di Balcani un vero e proprio scrigno di tesori artistici. Gli abbiamo posto alcune domande.

1) In quali condizioni si trovano i monumenti religiosi serbo-ortodossi del Kosovo?

VITTORIO SGARBI:

Lo stato generale di conservazione dei monasteri del Kosovo in generale è buono. Hanno bisogno dell'ordinaria manutenzione che, nel corso degli anni, è stata garantita dagli stessi monaci. Per questo è importante che la vita monastica continui a essere salvaguardata. Non mancano tuttavia alcuni interventi che andrebbero fatti con urgenza.

2) Soprattutto sul tesoro dei cicli pittorici?

SGARBI:

Sì. Sono cicli molto estesi e proprio la volontà di rappresentare un universo di vicende in uno spazio limitato è ciò che costituisce la grandezza dei siti in questione. Non vi è alcuna parte senza decorazioni. Sono monumenti enciclopedici di testimonianze che hanno un'ambizione universale, ed è questo che li rende grandi e ricchi. Oltre, è chiaro, alla fine qualità della decorazione, che deriva dalla civiltà bizantina ed è espressa in maniera non ripetitiva e meccanica ma attraverso una vivacità e un'originalità tanto più difficile quanto più rigido è lo schema bizantino. Vi sono dei passaggi dove sembra di vedere Giotto, senza che ci sia la visione che in Giotto è garantita negli stessi anni da una dimensione antropocentrica in cui Dio è lontano. Qui invece la presenza di Dio rende gli atti degli uomini come degli specchi della sua mente, l'originalità e la vivezza dello stile sono tanto più apprezzabili quanto più legati o ristretti in uno stile che non lascerebbe spazio a creatività individuale. C'è indubbiamente la sensazione di vedere l'opera di grandi maestri.

3) Le chiese ortodosse e i monasteri kosovari rappresentano la storia e la tradizione religiosa di un'etnia già in passato minoritaria e ora in alcune zone pressoché assente. Questi monumenti sono, proprio per questo motivo, considerati 'pericolosi' ? in quanto simboli e richiami perenni ? dai componenti dell'etnia maggioritaria e dominante. Non le pare un ostacolo insormontabile nella prospettiva della conservazione di questi beni artistici?

SGARBI:

Il problema è indubbiamente complesso. Ma deve essere anche la comunità internazionale a risolverlo. È stata infatti la Nato, nel 1999, a negoziare la ritirata delle forze armate e di polizia serbe, e poi a precludere loro il rientro, sebbene non escluso dalla risoluzione 1244. Non discuto la scelta, ma non posso non far notare che comporta anche delle responsabilità e che quindi sia la Nato sia l'Onu non devono tralasciare quest'altro aspetto della ricostruzione del Kosovo. Se e quando la polizia del Kosovo sarà realmente multietnica e capace (anche politicamente) di proteggere i siti religiosi ? cosa che per ora non sembra proprio in grado di fare ? allora si potrà parlare di un ridispiegamento della Kfor. Ora è assolutamente azzardato. E mi fa molto piacere sapere che sebbene con un paio di mesi di ritardo ? nei quali si sono purtroppo verificate le ennesime distruzioni ? la forza di pace Nato ha, proprio nei giorni scorsi, 'congelato' il piano di disimpegno dalle chiese ritenendolo evidentemente prematuro? Meglio tardi che mai! E spero proprio che rivedano presto anche il prospettato ritiro della task force 'Sauro' da Decani: non so proprio a chi sia venuta in mente una follia di questo tipo.

4) A Gracanica è stato attuato un esperimento di presidio dei monumenti di quella zona. Può spiegarci di che cosa si è trattato e se ha avuto buoni risultati?

SGARBI:

Non è un vero e proprio esperimento per ora. È solamente diversa la situazione. Il monastero di Gracanica si trova all'interno dell'omologa enclave, circondato da un migliaio di serbi che in qualche modo rappresentano una difesa in sé. Alcuni mesi fa infatti sono stati rimossi i posti di controllo agli ingressi del paese e di fronte al monastero. Grazie al cielo tutto per ora è andato bene. Non dimentichiamoci poi che Gracanica è l'unico posto dove ci sono i poliziotti di etnia serba del neonato 'Kosovo police service'. Detto questo, non è che i tesori di Gracanica siano del tutto al sicuro, ma certo non sono a rischio come purtroppo a Decani e al patriarcato di Pec.

 

 

Da: “30 GIORNI” - Febbraio 2003

A quattro anni dalla 'guerra umanitaria' in Kosovo

Dopo le bombe il caos

Gli estremisti albanesi continuano a far saltare in aria le chiese ortodosse. E l'incombente smobilitazione dei contingenti militari internazionali mette a rischio anche gli antichi monasteri medievali. Mentre aumentano le ostilità verso il personale Onu e gli attentati contro gli esponenti moderati del partito di Rugova

di Gianni Valente

A Decani, che a parole è ancora una città della provincia autonoma del Kosovo appartenente alla Serbia, di serbi non ce ne sono più. Solo nel monastero dedicato all'Ascensione del Signore i 35 monaci e qualche anziana perpetua della comunità, coi ritmi ordinari della loro vita quotidiana, consentono che questo luogo tanto caro alla memoria e alla devozione dell'ortodossia serba non si sia già trasformato in un monumento alle glorie passate. Tra loro c'è anche padre Sava Janjic, il 'cybermonaco' che da quattro anni tiene le redini di un cliccatissimo sito internet dove ha raccontato prima gli orrori del conflitto e adesso la vita sotto assedio dei pochi serbi rimasti in Kosovo dopo le pulizie etniche seguite alla 'guerra giusta' targata Nato del '99. Alle cinque, insieme ai suoi confratelli, si reca nella chiesa senza elettricità per le preghiere del mattino. Che qui, da quasi settecento anni, si ripetono sempre uguali. Così come le sante liturgie, quelle scritte da san Giovanni Crisostomo nel IV secolo. Poi, subito al lavoro, nella stanza piena di computer, di modem, di scanner.

 

Non si può dire che padre Sava e i suoi compagni si presentino come dei fanatici istigatori all'odio etnico. La documentazione che divulgano via internet adesso batte tutta sul calvario della comunità serba in Kosovo.
Ma si ricordano anche gli interventi con cui, prima della guerra, i monaci di Decani denunciavano la 'politica cieca e irrealistica' del regime di Milosevic, prendendo le distanze ? a differenza di altri esponenti dell'ortodossia serba ? dalle mitologie ancestrali della stirpe, del sangue e dei confini etnici perenni tracciati dalla volontà divina. Per questi trascorsi, i monaci di Decani sono stati accusati di tradimento dagli ultranazionalisti serbi, specialmente quando durante l'escalation del conflitto etnico e della repressione dell'esercito iugoslavo diedero asilo a più di duecento musulmani albanesi in fuga dalle rappresaglie dell'esercito serbo.

Eppure adesso quella che si vive a Decani è una normalità artificiale, sospesa a un filo. Il filo spinato dei recinti militari della Kfor, la forza multinazionale dislocata dal giugno '99 anche qui, come in tutto il Kosovo, a garantire la 'pace' bugiarda seguita alla pioggia delle bombe intelligenti. Da allora, i reggimenti italiani che si sono succeduti nella task force 'Sauro' dislocata a Decani vengono ospitati in un decadente ex centro-vacanze a cinquecento metri dal monastero. I reticolati inglobano il complesso religioso ortodosso all'interno dell'area militare. Ma presto anche questa tranquillità sotto tutela potrebbe venir meno.

Non è un mistero che nei prossimi mesi, forse già entro la primavera, le truppe italiane di stanza a Decani verranno trasferite a Pec, dove è stato ultimato il cosiddetto Camp Italy, la struttura logistica centrale intorno a cui ruotano i programmi di ristrutturazione e di graduale smobilitazione della presenza militare italiana in Kosovo. La cosa allarma intellettuali e studiosi di tutto il mondo, che vedono messa a repentaglio la sopravvivenza di una delle opere più belle e rilevanti dell'architettura serbo-ortodossa medievale. Ma preoccupa soprattutto i monaci. Dice padre Sava: «Fin dalla scorsa estate abbiamo raccolto per vie indirette notizie e documenti che annunciavano lo spostamento della task force 'Sauro'. L'imminente rimozione dell'unità Kfor è stata più volte confermata anche alle autorità municipali albanesi di Decani. Io personalmente ho scritto al comando Kfor in Kosovo, per riaffermare che la riduzione della presenza militare, in condizioni di sicurezza così precarie, metterà a rischio la sopravvivenza del monastero. Sto ancora aspettando risposte concrete».

La chiesa di Madonna, costruita nel 1315, distrutta nel 1999

In questi anni neanche la presenza del contingente italiano ha risparmiato al monastero di Decani le 'provocazioni' degli estremisti albanesi: il cimitero comunale dissacrato, il boschetto circostante distrutto, un paio di granate atterrate vicino alla chiesa. Anche chi fa la spesa per la comunità può girare in città solo grazie alla scorta di soldati italiani. «La task force 'Sauro'» aggiunge padre Sava «è l'unico posto in cui possiamo ricevere assistenza medica e altri aiuti urgenti. Non ci è permesso l'accesso a nessuna istituzione, lì in città». Ora che nell'area di Decani si avvicina anche il passaggio di consegne tra la polizia Onu e le forze di polizia locale, in cui si sono riciclati buona parte degli ex miliziani estremisti albanesi dell'Uck, gli appelli dei monaci per il mantenimento della task force 'Sauro' assumono toni allarmati: «Il piano a lungo termine» insiste padre Sava «è di costringerci a lasciare il monastero, per poi magari trasformarlo in un museo o in un 'monumento cristiano' del Kosovo indipendente. Ma confido nei soldati italiani: già durante la guerra mondiale furono i vostri carabinieri a salvare il monastero di Decani dai Balli Kombetar, i paramilitari nazionalisti albanesi che combattevano a fianco dei nazisti e che volevano distruggerlo...». Anche un colonnello italiano che ha passato due anni nel Kosovo occidentale, e che chiede di mantenere l'anonimato, sul destino delle antiche chiese ortodosse in caso di smobilitazione dei peacekeepers internazionali, nutre pochi dubbi: «Gli estremisti aspettano solo che ce ne andiamo per fare piazza pulita dei luoghi santi ortodossi concentrati nel Kosovo. Pensano che solo radendoli al suolo, le chiese e i santuari perderanno la forza di richiami perenni al ritorno dei serbi».

Sotto gli occhi dell'Onu

 

Tra '98 e '99, durante le rappresaglie dell'esercito di Milosevic in Kosovo, a detta della locale comunità islamica furono distrutte o danneggiate più di duecento moschee. Ma adesso, in tutte le aree in cui è spartita la regione sotto protettorato internazionale, i minareti spigano a decine tra i cantieri delle città e dei paesi in ricostruzione, anche grazie agli aiuti di solerti finanziatori sauditi. Per le chiese è successo il contrario. Dall'arrivo delle truppe Onu ne sono state distrutte o sventrate 112, mentre venivano dissacrati a dozzine i cimiteri.La maggior parte delle distruzioni avvenne tra il '99 e il duemila, quando tracimò la sete di vendetta albanese contro tutto ciò che veniva identificato col dominio politico serbo.

In diversi casi, come a Djakovica, o a Pristina, le chiese saltarono in aria sotto gli occhi dei soldati della Kfor. Poi le truppe internazionali intensificarono la difesa intorno agli obiettivi sensibili di natura religiosa. Soprattutto intorno ai monasteri e alle chiese antiche ? oltre al monastero di Decani, il patriarcato di Pec, il monastero di Gracanica, la cattedrale della Madonna di Ljevisa, a Prizren ? che gli ortodossi considerano come la culla della propria tradizione ortodossa. Vennero poste sotto scorta anche decine di altre chiese. Ma passata la sfuriata, fuggita la gran parte dei 200mila serbi, per comprensibili motivi di gestione delle risorse si va gradualmente abbassando la guardia dei presidi militari intorno alla rete sparsa di chiese e cappelle quasi sempre vuote e spesso già danneggiate.

E si apre il fianco allo stillicidio di attentati sporadici ma persistenti, che oltre a sfogare la non sopita ostilità etnica perseguono il calcolato, sistematico disegno di bonificare per sempre la terra kosovara da luoghi e simboli cari alla memoria storica e religiosa di tutti i serbi. Le ultime chiese dinamitate sono state, nella notte tra il 16 e il 17 novembre scorso, quella di Ognissanti a Durakovac e quella di San Basilio a Ljubovo, ambedue nel distretto occidentale di Istog, dove negli ultimi mesi erano stati rimossi i presidi permanenti e si era passati a un livello di protezione 'indiretta', affidata alle transenne, ai fasci di luce accesi giorno e notte, a sporadici pattugliamenti e all'azione della polizia civile, composta da albanesi. Il giorno dopo, una nota del comando Kfor ha confermato la decisione della forza di pace a guida Nato di mantenere presidi fissi solo intorno a siti religiosi «di importanza storico-artistica o attivi al culto». Lo scorso 20 gennaio, il ministro dell'Educazione del governo provvisorio ha addirittura ipotizzato la demolizione 'autorizzata' della chiesa di Cristo Salvatore, nel centro di Pristina, rimasta incompiuta dopo che la costruzione era stata interrotta per gli eventi bellici, con il pretesto che l'edificio sorgerebbe 'illegalmente' su terreni appartenenti al locale campus universitario. Infine, il 23 gennaio, il comando Kfor ha fatto parziale marcia indietro, rendendo nota la decisione di congelare il programma di rimozione dei check-point ancora posti a protezione degli edifici di culto minacciati.

Questi ed altri recenti episodi simili riaprono le domande sull'esistenza o meno di una strategia a lungo termine per la salvaguardia delle chiese serbo-ortodosse. E anche gli interrogativi sulle singolari aporie del pensiero unico occidentalista. Sempre solerte nel raccogliere e divulgare i segnali dell'ostilità islamica verso la sedicente civiltà cristiana occidentale. Ma quanto mai omertoso rispetto alle violenze ancora perpetuate nel cuore dell'Europa dagli estremisti islamici albanesi. Gli stessi che durante la guerra, organizzati nelle milizie dell'Uck, godettero guardacaso di diffuse e documentate complicità politiche e militari da parte dei centri di potere occidentali.

Il Monastero di San Marco, costruito nel 1417, distrutto nel 1999

 

Dopo la guerra umanitaria, il caos

L'incerto destino delle chiese ortodosse è solo un tassello vagante del frantumato mosaico kosovaro. A quasi quattro anni dall'intervento Nato, l'ultima sanguinosa convulsione della storia balcanica si prolunga nello stato confusionale e sconnesso in cui si trascina il Kosovo sotto tutela internazionale. Una polveriera attraversata da confitti latenti, senza prospettive credibili di stabilità politica. L'ambigua risoluzione 1244 dell'Onu, che congela ogni discussione sullo status definitivo della regione condizionandola al ritorno dei profughi serbi e rom e al rispetto dei loro diritti, è giudicata dagli osservatori come un'irrealizzabile utopia. In essa, vengono richiamati esplicitamente gli accordi di Rambouillet del 23 febbraio '99, col riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli come criterio per stabilire il definitivo assetto della regione. E questo conferma la schiacciante maggioranza albanese nella convinzione che, prima o poi, verrà ufficialmente riconosciuta la completa indipendenza della nazione kosovara. Ma la stessa risoluzione non giustifica alcuna violazione unilaterale del principio di integrità e sovranità territoriale della peraltro agonizzante Federazione Iugoslava.

Sul campo, la situazione concreta fa apparire a molti irrealistico il puntiglio europeo di tener fede agli obiettivi annunciati di 'restaurare' la convivenza multietnica prima di cercare, a lungo termine, una via morbida e 'consensuale' all'indipendenza kosovara. Dei quasi 200mila serbi fuggiti, ne sono tornati (secondo i dati forniti dalla Kfor) poco più di tremila. Quelli che erano rimasti sopravvivono sotto assedio in enclave protette dalle truppe internazionali. A nord, nella fascia dove adesso si è concentrata la minoranza serba, Mitrovica, la nuova Berlino, rimane il simbolo del rifiuto della convivenza tra serbi e albanesi, con la linea di divisione tra le due etnie che scorre lungo l'Ibar, il fiume cittadino. A Pristina, per fare un esempio, sono rimaste poche decine di serbi, dei 40mila che ce ne erano prima della guerra. Nell'intera regione di Pec erano 32mila, e ne sono rimasti un migliaio.

Sullo sfondo, proprio la questione rimossa dello status definitivo del Kosovo mantiene tutta la situazione sospesa in un limbo carico di tensioni. Con una presenza internazionale frammentata, dai costi astronomici (l'Umnik, l'Amministrazione Onu che gestisce le istituzioni politiche e amministrative, paga anche gli stipendi di molti impiegati pubblici, oltre a quelli del proprio personale), su cui si concentra una sempre più palpabile ostilità popolare. Negli ultimi mesi, si sono infittite le intimidazioni, i microattentati e le manifestazioni di insofferenza popolare contro i dipendenti Onu. L'arresto di esponenti del movimento guerrigliero Uck accusati di orrendi crimini compiuti spesso contro albanesi moderati, ha provocato nei mesi scorsi diversi scontri di piazza tra le frange di popolazione più legate agli ex paramilitari e le forze di polizia internazionali. E lo scorso 22 gennaio, un missile anticarro ha centrato il comando di polizia Onu a Pec. Si è trattato del più grave attentato contro le forze di pace di tutto il 'dopoguerra'.

Allo stesso tempo, la prospettiva di un protettorato Onu prolungato per decenni, che prenda tempo sulla questione cruciale dello status definitivo della regione nell'attesa di far decantare gli odi atavici, rischia di modificare alla lunga solo i rapporti di forza all'interno del campo albanese. Alle elezioni municipali dello scorso 26 ottobre, che hanno visto un'affluenza di elettori inferiore al 60 per cento, il partito del presidente Ibrahim Rugova (Ldk), pur confermando la sua preminenza, ha perso consensi nei confronti dei partiti più radicali (Pdk e Aak), che ancora accarezzano il sogno della 'grande Albania', guidati dagli ex miliziani dell'Uck Hashim Taqi e Ramush Haradinaj. E negli ultimi tempi i gruppi estremisti albanesi hanno firmato una serie di attentati rivolti direttamente a colpire le forze moderate che si riconoscono in Rugova. A ottobre, il giorno dopo il voto, è stato ucciso il sindaco di Suhareka, esponente dell'Ldk. Il 13 dicembre, un ordigno fatto esplodere a Pristina ha ferito 25 persone. Il 4 gennaio, a cadere sotto i colpi dei terroristi insieme al figlio ventenne e a un parente è stato Tahir Zemaj, noto ex capo guerriglia, anche lui legato al partito di Rugova e soprattutto testimone eccellente nei processi contro gli ex miliziani dell'Uck.

Ora che gli imbonitori di turno preparano il mondo a una nuova guerra 'moralmente giustificata', potrebbe non essere inutile dare uno sguardo a come i bombardamenti umanitari hanno lasciato le cose in Kosovo. Dove, quattro anni dopo, in un groviglio da cui nessuno sa come uscire, la realtà più stabile appare l'enorme base militare Usa di Ferizaj/Urosevac. Una vera e propria città di cinquemila soldati, con case e caserme sorte in tempo record su un terreno che gli strateghi militari a stelle e strisce hanno 'affittato' fino al 2099.

La chiesa di San Nicola costruita nel 16 secolo, distrutto nel 1999

 

 

DA: “IL MESSAGGERO”

Le tombe serbo ortodosse profanate nel cimitero di Pec

 

Allarme dei monaci: violate tombe italiane

dal nostro inviato EZIO PASERO

(foto: il Cimitero degli Stranieri, foto: ERP KIM Info-Service, febbraio 2003)

PEC - Sono monumenti alla pietà ma anche alla memoria, i cimiteri di guerra. Lo era certamente il Cimitero degli Stranieri, tra il camposanto ortodosso di Pec e quello del contiguo villaggio di Belo Polje. Lapidi come pagine di un libro, che raccontavano un pezzo della tormentata storia dei Balcani. Sotto le lapidi, i resti dei soldati francesi morti nel 1914, di quelli russi della Guardia Bianca, che era venuta qui tra il 1917 e il '25, e di quelli italiani della Taurinense: una cinquantina, uccisi alla fine del 1943 e dei quali forse si era addirittura perduto il ricordo.

Adesso, il Cimitero degli Stranieri, dove venivano sepolti anche i pochi albanesi cattolici, praticamente non esiste più: nel '99, con la fine della guerra in Kosovo, è stato trasformato in una discarica e ricoperto di immondizie e macerie, come è successo anche con altri cimiteri cristiani.

Le croci sono sparite, le tombe sono state profanate e le bare aperte, le lapidi rubate e rivendute. I monaci di Decani, il bellissimo monastero medievale che si trova a pochi chilometri da Pec e che da oltre tre anni è sorvegliato a vista giorno e notte dai soldati italiani, hanno lanciato l'allarme e denunciato la situazione alle autorità dell'amministrazione civile dell'Onu, mentre la Chiesa ortodossa serba ha annunciato di voler richiedere assistenza urgente delle ambasciate italiana, francese e russa di Belgrado, perché il cimitero venga ripristinato e protetto da nuove incursioni vandaliche albanesi.

"Il Kosovo faceva parte della Grande Albania voluta da Mussolini, e la brigata Taurinense e la Garibaldi erano qui, nel settembre del 1943", racconta padre Senofonte, uno dei monaci ortodossi di Decani, di origine croata e che parla un ottimo italiano. "Dopo il vostro armistizio, gli albanesi comunisti del Balli Kombetar, il Fronte nazionale, avevano attaccato la caserma dove vivevano i soldati italiani che avevano sposato donne serbe. Un eccidio: 50 italiani uccisi, oltre a 13 albanesi. I corpi erano rimasti per qualche giorno nella caserma, poi erano stati sepolti nel Cimitero degli Stranieri".

Alla fine della guerra, alcuni soldati italiani sopravvissuti si erano comunque stabiliti lì. L'ultimo, Italo Boccardo, c'era rimasto fino al 1999. Dopo aver combattuto in Libia nel '41, era andato in Albania ed era poi finito in Kosovo nel '43. Italo guidava i camion, sotto le armi. Così, nella vita civile, era diventato il primo autista di autobus di linea del Kosovo e aveva fatto l'istruttore di guida per i suoi colleghi. Si era stabilito a Decani, aveva trovato una bella moglie più giovane, aveva imparato il serbo-croato e ha finito con il dimenticarsi quasi l'italiano. Ma nel '99 l'aria si è fatta irrespirabile per i serbi, in Kosovo, e sua moglie Nada è serba, appunto. Nonostante fosse ormai quasi ottantenne e praticamente paralitico, Italo ha dovuto abbandonare la sua casa di Decani e si è trasferito a Kruseva, nella Serbia centrale, presso i parenti di lei.

Nel dicembre scorso, convinto che la situazione si fosse calmata, e illudendosi forse che la convivenza tra albanesi e serbi potesse avere qualche prospettiva realistica, Italo era tornato con Nada a Decani. Ma il suo appartamento era ancora occupato da rifugiati albanesi rientrati, ai quali l'Unmik aveva prorogato il diritto a rimanere fino al maggio prossimo. Una data teorica, Italo sa bene che in realtà gli albanesi non se ne andranno mai da casa sua. E che tornare a vivere in mezzo a loro, per uno considerato serbo, sarebbe comunque ancora troppo rischioso. Basta guardare il Cimitero degli Stranieri, per capire.

 

APPELLO PER ORGANIZZARE UNA VIGILANZA PERMANENTE
NEL CIMITERO SERBO DELLA CITTA DI PEC

Pec, 7. marzo 2003

Oggi i rapresentanti dei profughi serbi di Pec, signore Radmila Sugovic e Zorana Radonjic hanno consegnato al primo segretario dell'Ambasciata italiana a Belgrado, Gianluca Greco l'appello con le firme dei 1041 ex cittadini di Pec. I profughi serbi di Pec chiedono all'Ambasciata italiana di aiutarli a proteggere il cimitero serbo ortodosso di Pec e fare possibile di visitare periodicamente i loro cari defunti.

Il testo dell'appello

Egregio Signore,

Noi sottoscritti domandiamo gentilmente un Suo aiuto in merito alla situazione in cui versa il cimitero di BELO POLJE: -di proteggere il cimitero serbo della citta di Pec contro la distruzione e la profanazione; -di rimuovere i cumuli di macerie, rifiuti ed i rottami ivi scaricati; -di fare i passi necessari per darci la possibilità di visitare periodicamente i nostri cari defunti, e che queste nostre visite siano effettuate nella massima dignità, serenità, tranquillità e sicurezza.

Tutti noi eravamo residenti in PEC città e nelle aree viciniori al citato centro urbano, adesso siamo dei profughi che chiedono solamente di poter degnamente onorare la memoria dei nostri defunti e che nella attuale situazione ci viene precluso per i motivi a lei noti. Siamo sicuri che Lei potrà capirci ed aiutarci, la nostra è una leggittima richiesta di uomini e di credenti, non chiediamo null'altro.

Con molti ossequi,

(1041 firme di serbi profughi di Pec)

FOTO STORIA DELLA TOMBA DI BILJANA PAVLOVIC

La tomba di Biljana Pavlovic l'estate del 1998.
Biljana Pavlovic (22), figlia di imprenditore serbo di Pec, Zoran Pavlovic, mori durante i suoi studi di medicina a Pristina nel 1998.

 

La stessa tomba nell'estate del 2002
Gli albanesi hanno tolto il marmo nero costoso per rivenderlo. Ora e rimasta solo piastra di cemento.
Lo stesso destino hanno avvuto molte altre tombe nel cimitero di Pec.
La foto nostra il padre di Biljana, Zoran Pavlovic, d'avanti della tomba profanata della sua figlia

 


 

La comunità monastica di Decani

 

Aggiornamento: 22/08/2001

 

* Nel capitolo In ostinata attesa della risurrezione (La comunità monastica di Decani nel cuore del Kosovo) è stato aggiunto un nuovo paragrafo: La vita a Decani. Nuove fotografie. Si tratta di foto davvero suggestive, che ci fanno partecipi dell'esperienza monastica di Decani.

 

* Il 28 luglio dalla fraternità monastica di Decani abbiamo ricevuto – via e-mail – il seguente, commovente messaggio:

Cari amici,

ho appena trovato in Internet la vostra bellissima presentazione Kosovo crocifisso e mi sono commosso nel profondo del cuore nel vedere un così grande affetto e una così grande solidarietà da parte vostra, nostri fratelli e sorelle italiani.

Il lavoro che è stato fatto è più prezioso di qualsiasi aiuto umanitario che riceviamo da tutto il mondo. Dico questo perché noi possiamo sopravvivere nella terra dei nostri antenati e nel nostro santo Kosovo e Metohija soltanto se la verità prevale sulle menzogne e sul male. La verità che sosteniamo non è mito o fantasia ma il fatto evidente che un'intera Chiesa e il suo popolo fedele sono sul punto di essere annientati nel nome della “vera umanità” e del “nuovo ordine” che qui viene stabilito. La verità che abbiamo coraggiosamente testimoniato in tutti questi anni non è solo la storia della Serbia sofferente ma anche la sofferenza di tutti gli altri in questa parte dei Balcani.

Grazie alla vostra presentazione io sento profondamente che voi capite perfettamente la situazione in cui ci troviamo e ci sentiamo molto più incoraggiati nel sapere che voi ci sostenete nella nostra causa e state con noi nella stessa trincea.

Il Kosovo oggi è teatro di disordine, di odio, di crimini impuniti – non solo Serbi innocenti, Rom ed altri ne sono vittime ma anche Albanesi innocenti i quali hanno capito che invece della pace essi vivono in un caos governato da bande di Albanesi estremisti. Un numero sempre maggiore di Occidentali è consapevole di ciò, ma questa verità viene filtrata in mille modi prima che arrivi nei vostri paesi dove ancora molta gente pensa che l'Occidente abbia conseguito un ennesimo successo nella costruzione di una nazione democratica. In tal modo, il valore della vostra presentazione è molto più grande perché per mezzo vostro è la voce del popolo Serbo sofferente del Kosovo e della Metohija che parla nella vostra lingua italiana.

Voglia Dio benedire e ricompensare i vostri sforzi e aiutare un maggior numero di persone di lingua italiana a capire ciò che avviene veramente dietro le quinte della brillante vittoria della NATO in Kosovo. La vostra gente ha il diritto di conoscere la verità.

Mi scuso per non poter scrivere in italiano, ma appena ritornerà in monastero il mio confratello padre Xenofon terrà la corrispondenza nella vostra lingua. Ci farebbe molto piacere rimanere in contatto con voi. Il nostro igumeno, padre Teodosio, e i nostri confratelli vi mandano i loro più cari saluti.

Nell'amore di Cristo
Ieromonaco Sava

VISOKI DECANI
http://www.decani.yunet.com
decani@web-sat.com

(traduzione di Assunta Forcina)

 

* Nella pagina dei Links, abbiamo aggiunto i seguenti collegamenti, che ci aiutano a conoscere il popolo serbo, la sua Chiesa, la sua cultura, la sua musica (religiosa):

 

http://www.rastko.org.yu/strani/e-index.html
Una ricca collezione di articoli e studi sulla cultura, sulla storia, sull'archeologia, sull'arte, sulla musica, sulla letteratura, sul teatro, ecc., del popolo serbo

http://www.serbianorthodoxchurch.net/music/
Musica serba medievale e più recente online

http://www.sv-luka.org/chants/index.html
http://www.sv-luka.org/chants/indexmedch.html

Canti liturgici di vari secoli (dal Medioevo ai giorni nostri) online

Canti corali serbo-ortodossi si possono anche ascoltare dalle pagine del sito: http://digilander.iol.it/ortodossia/mainen.htm (cliccando, nel menu di sinistra, sulla voce “Musica”)

http://home.swipnet.se/karki/decani/presentation.htm
Una pagina in svedese sul monastero di Decani

 

* segnaliamo, per gli amici che conoscono lo spagnolo, l'uscita di un nuovo libro sul Kosovo:

Kosovo. La coartada humanitaria [Kosovo. L'alibi umanitario]
Autori: Aleksander Vuksanovic, Pedro Lopez Arriba, Isaac Rosa Comacho
304 pp., 135x200, edizioni VOSA
prezzo: 2000 pts (12 euro) + spese postali

Kosovo. La coartada humanitaria sostiene che l'intervento della NATO non solo è stato brutale e sproporzionato, ma anche, in primo luogo, ingiustificato. Una denuncia che si basa su alcune motivazioni di fondo: il processo storico dell'ultimo secolo in Jugoslavia, il succedersi degli eventi negli anni precedenti l'esplosione della crisi, l'analisi del contesto internazionale entro cui si determina e si attua l'azione militare – tutti questi elementi rivelano, nelle pagine del libro, il vero volto del cosiddetto “intervento umanitario”. Un volume importante per due ragioni: lo smascheramento dei responsabili di quanto è accaduto e dei veri interessi esistenti dietro la facciata della retorica umanitaria; e la riabilitazione di un popolo, quello jugoslavo, ingiustamente criminalizzato e punito per anni.

http://www.kosovo.es.org/
Per ordinare il libro: lacoartada@yahoo.es

 

 

 

 

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