Per il Kosovo

di
Atanasio Ievtic
1984

 

Nel corso degli ultimi mesi, in particolare durante l'estate e l'autunno (1983), mi sono recato più volte nel Kosovo. Sono stato quasi dappertutto: a Prizren e nei dintorni, nei distretti di Sredac e Sirinic, a Urosevac e a Lipljane, a Gnjilane e nei villaggi limitrofi, come pure a Gracanica, Pristina e Podujevo, a Vucitrn e nei paesi vicini (dove avevo svolto a suo tempo il servizio militare), a Mitrovica e a Devic, a Glogovac e a Kosovo Polje, a Suvi Dol e ai piedi della montagna del Goles, a Orahovac e a Hoca, presso il monastero Zociste e quello della Santa Trinità vicino a Suva Reka, a Djiakovica e a Decani, e ancora presso i monasteri di Gorioc e di Istok, a Klina e Djiurakovac e, naturalmente, a Pec e al suo Patriarcato.Come potrei parlare con indifferenza delle bellezze del Kosovo e della Metohija? Le avevo viste per la prima volta - e profondamente mi avevano colpito - in occasione del mio servizio militare nel Kosovo (quasi due anni interi trascorsi nell'opera di costruzione della grande via di comunicazione del Kosovo: da Vucitrn, attraversando Milosevo e Lazarevo e i monti di Gazimestan e di Veternik, verso Lipliane e Urosevac).

 

Non sarei in grado di affermare sinceramente se altre regioni del nostro paese siano più belle di quelle del Kosovo e della Metohija, con le loro campagne e boschi, montagne e pianure, prati e vigneti e, ancor più, con quella bellezza degna del cielo e della terra propria dei monasteri della regione, con i loro affreschi e le loro icone dallo splendore imperituro. Nel Kosovo e nella Metohija tutto è una specie di dipendenza (Metohija) della bellezza celeste che investe il cielo e la terra, collegando il regno terreno col Regno dei cieli. Forse per il fatto che tali contatti e tali legami passavano e passano tuttora, quasi sempre, attraverso la Croce e la Passione. Così era - da secoli - la realtà e così rimane ancor oggi…

***

Non siamo in grado di conoscere tutto (e chi lo sarebbe?). Perché mai dovremmo scendere nei dettagli quando l'essenziale ci è noto? E quale valore, poi, ha quello che si scrive quando si produce maggior rumore e furore per un articolo sul Kosovo che per gli avvenimenti tragici stessi che si susseguono nel Kosovo?

Dal nostro taccuino di viaggio citiamo tuttavia alcuni avvenimenti dolorosi che si sono verificati recentemente e che il grande pubblico non conosce.

La chiesa di santa Petka nel villaggio di Dobrsan, vicino al Gnjilane (dove si deve deplorare il fatto che non esiste più alcun folocare serbo) è stata a più riprese depredata e spogliata. L'ultima volta accadde nella domenica di Tommaso di quest'anno. La mattina, i fedeli dei dintorni erano accorsi numerosi nella suddetta chiesa a pregare Dio e ad accendere ceri votivi, lasciando le offerte sulle icone e prelevando l'acqua benedetta dalla sorgente vicina; nel pomeriggio la chiesa fu assaltata, le porte spezzate. Tutto fu travolto e sparpagliato nella chiesa; il denaro delle icone rubato. Come per il passato, ancora una volta gli organi preposti alla sicurezza rimasero zitti e sordi alle lagnanze del prete Zivojin Kojic.

L'arcivescovo di Prizren, Pavle, e noi, un gruppo di preti, siamo stati presi a bersaglio da ragazzi albanesi che lanciavano pietre davanti alla basilica di Prizren, dopo i vespri (mercoledì 14 settembre 1983), ma, come d'abitudine, l'arcivescovo non volle presentare rimostranze.

Non si sa per quante volte siano state maltrattate e attaccate le monache del monastero della Santa Trinità vicino a Musutiste e, in modo particolare le sorelle Caterina e Desanka, bersaglio di tiri di pietre e di aggressioni personali al grido "Il Kosovo è nostro e tu vattene in Serbia!". E ancora: "Se mi denunci alla giustizia, nulla puoi contro di me, poiché il giudice è dalla mia parte!". Recentemente suor Heruvima è stata oggetto di attacchi a Musutiste e ora deve essere curata nella clinica cardiologica (naturalmente a Belgrado).

Nella città di Pec, la vigilia della festa della Decollazione di san Giovanni Battista (10 settembre 1983), i vicini albanesi hanno abbattuto il muro di cinta del cortile di un serbo in via Bariaktari, alle undici della sera, al fine di allargare la loro proprietà. Ho saputo che i malandrini sono stati presi, ma la notizia non è stata resa di pubblica ragione.

Ancora, nel villaggio di Dobrusa, vicino a Istok, sono stati tagliati degli alberi allo stesso serbo al quale già avevano tagliato cinquanta piante da frutto; un suo fratello è stato aggredito. Tagli di alberi e altre malefatte e atti violenti sono molto frequenti in tutto il Kosovo, mentre le autorità tacciono…

Un'impiegata serba all'ufficio postale di Prizren è stata oggetto di maltrattamenti mentre si trovava al suo sportello di lavoro ed altre cose peggiori ha dovuto sopportare. Trovare lavoro per dei serbi in Kosovo è un'impresa quasi impossibile. Questo è un motivo in più per lasciare il Kosovo.

I casi di violenza sessuale perpetrati su ragazze e su donne anziane (nei paesi e nei monasteri) hanno avuto un'eco molto più terrificante nel popolo che non sulla stampa (che ne ha resi pubblici soltanto alcuni, come ad esempio Politika-Svet dell'ottobre 1983, n. 42, dove il grido sconsolato e disperato di un povero padre esprime come nessun altro tutta la tragedia delle madri, delle sorelle, delle figlie del Kosovo: "Oh! Non mi è possibile descrivervi che cosa si prova quando vedete nel vostro campo violentare la propria figlia. Qui per noi non c'è più vita. La sventura ci ha strozzati!").

Ragazza serba di 9 anni, originaria di Zitinje, vicino a Vitina – sulle braccia di suo padre, Stojan Peric – violentata dagli Albanesi (1983)

 

Gli incendi dolosi e intenzionali del monastero di Devic si sono ripetuti e sono inquietanti: lo scorso inverno, dopo l'incendio di tutto il foraggio, la vigilia dell'Assunta, sono stati bruciati 68 metri di recinzione del vecchio vigneto. È stato preso un ragazzotto di quindici anni del vicino villaggio che ha riconosciuto di averlo fatto intenzionalmente.

È veramente doloroso, anche se non cosa nuova, il fatto che i giovani albanesi se la prendano con la popolazione serba, con le sue proprietà, case, cimiteri o santuari. Non ci rimane che chiederci: da dove proviene un odio così profondo e un istinto di male contro i serbi e contro tutto ciò che nel Kosovo è serbo? Come spiegare gli sputi e le pietre contro le vetture e gli autobus serbi, i viaggiatori e soprattutto i preti serbi da parte dei ragazzi di nazionalità albanese, non soltanto a Pristina e in altre città, ma anche nei paesi e negli incroci (chi, fra noi, non l'ha provato?) o, ancora, la profanazione con escrementi umani della basilica di Pritzen (lo scorso inverno), la profanazione recente del monumento agli eroi del Kosovo a Gazimestan dove, sempre con escrementi umani, sono stati scritti slogans in lingua albanese?

Probabilmente la migliore spiegazione l'ha data l'igumena Fevronia del Patriarcato di Pec, per quanto riguarda il lancio di pietre contro le finestre e i tetti del Patriarcato da parte di ragazzi e di giovani: essi hanno perduto la loro fede e vogliono distruggere anche la nostra (Interview del 2 e 16 settembre '83 ha pubblicato i particolari delle dichiarazioni di quest'ultima e delle altre consorelle sul Patriarcato di Pec, ciò che ha provocato una campagna di odio caratteristica dell'atmosfera esistente nel Kosovo).

Non vogliamo affermare che tutti i giovani albanesi che appartengono alla recente generazione del Kosovo siano tali, né che tutti gli albanesi più attempati abbiano uno stato d'animo ostile nei riguardi dei serbi e dei santuari serbi nel Kosovo. Come ebbe a dichiarare cortesemente madre Paraskeva a Devic: "Anche tra loro ci sono alcuni che desiderano aiutarci e vengono da noi a raccontarci quanto si dice e si fa in mezzo al popolo". Veramente commovente l'esempio di tale Ismail Gasi del villaggio di Turiak, vicino a Pec, il quale, con i suoi figli, ha provveduto a recingere il cimitero ortodosso (fatto che la stampa ha notato e messo in tutta evidenza); o le buone relazioni che gli albanesi mantengono con il monastero di Zociste vicino ad Orahovac dove si recano non pochi albanesi per farsi leggere le preghiere per la salute.

Tuttavia che cosa si dovrebbe fare quando si constata che, nello stesso villaggio di Turiak vicino a Pec (così come in un altro vicino) nel quale Gasi ha recintato il cimitero serbo, non esiste più alcuna casa serba là dove prima vivevano circa 120 famiglie? Ecco un altro caso (secondo quanto trasmesso dalla televisione di Belgrado il 6 ottobre 1983): secondo un comunicato delle autorità comunali di Glogovac, lì "è stato fermato l'esodo" dei serbi. Dichiarazione alla quale un serbo di Kosovo Poljie, Kosta Bulatovic, ha risposto che a Glogovac non esisteva più alcuna persona che dovesse andarsene, se non una povera vecchia con figlia, ciò che è poi stato verificato e confermato. Di simile tenore la dichiarazione recente del comune di Srbica che assicurava che da lì "la gente se ne va sempre meno", mentre si sa bene che la percentuale dei serbi è scesa a livelli infimi… Forse, come dice Kosta Bulatovic, il movimento degli esuli "cesserà" quando non ci sarà più alcuna persona che dovrà lasciare il Kosovo per l'esilio!

Si esercitano pressioni d'ogni tipo delle quali noi, che viviamo fuori del Kosovo, non possiamo nemmeno sospettare. Come si potrebbe, a titolo di esempio, spiegare la pressione esercitata con lettere minatorie a un serbo scritte - così si pretende - da un altro serbo? Oppure, come afferma un serbo di Pec: "Gli altri stentano ad essere puniti per crimini reali commessi, mentre noi lo siamo soltanto per delle parole!". Un'altra serba che vive sulla montagna del Goles si è così lamentata con me a Gracanica: "Noi serbi non possiamo ottenere aiuti in derrate, mentre agli albanesi li danno appena arrivano. Vanno dicendo che la situazione si è normalizzata, ma ciò ci demoralizza ancor di più. Se questo significa normalizzare, non vi è alcuna speranza di sopravvivenza per noi. La situazione è peggiore della nostra vecchia espulsione dal Kosovo (1941), in quanto allora, almeno, potevamo sperare di tornare a guerra finita. Ma oggi?…". Verosimilmente quella donna sa che nel corso dell'ultima guerra sono stati esiliati a forza dal Kosovo fra 70.000 e 100.000 serbi, mentre in questi ultimi anni ne sono stati cacciati 200.000.

Tutto quanto abbiamo qui citato e molto altro che non citeremo e che "non può essere citato" (poiché, come ebbe recentemente a scrivere un giornalista: "È sufficiente trascorrere mezz'ora con un serbo o un montenegrino del Kosovo per venire a conoscenza di molte cose terrificanti e misteriose"), tutto ciò dimostra che la ferita serba del Kosovo non è ancora rimarginata. Lo dimostra l'atmosfera generale che regna nelle stazioni, negli autobus, nei treni, all'interno dei paesi e nei mercati.

Non soltanto la fiducia interetnica è stata distrutta; il nostro popolo ha anche perduto il senso mutuo di fiducia e la stessa fiducia in sé stesso. Non è difficile osservare come i serbi "si facciano reciprocamente la spia": chi ha comperato, come e dove, terre per costruirsi la casa? - certamente in Serbia, a Krusevac, Kragujevac, Kraljevo… E queste notizie si tengono nascoste non soltanto alle autorità, ma anche ai vicini più prossimi. Un contadino di Gnjilane mi ha raccontato di conoscere almeno una ventina di persone del suo villaggio che hanno acquistato terre in Serbia e restano in attesa, senza parlarne, di emigrare (malauguratamente ho saputo che alcuni nostri preti costruiscono case a Krusevac e a Kraljevo).

Perché, dunque, i serbi del Kosovo si trovano oggi così depressi e demoralizzati? Perché cedono così facilmente quando si tratta di difendere i loro diritti umani fondamentali? Non è forse per il fatto che numerosi tentativi di opporsi alla violenza e alle esazioni contro le persone e i loro beni si sono risolti il più delle volte col sangue e ancora più spesso con la perdita della vita? Non è forse perché hanno ancora impressa negli occhi una ferita fresca e non sanata, una ferita inflitta alla loro stessa persona o alla famiglia, al vicinato, all'intera comunità?

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Ecco come è stato commesso il vigliacco assassinio di Danilo Milincic di Samodreza. La madre di D.M. di Samodreza presso Vucitrn ha raccontato al reporter della televisione di Belgrado Rajko Djurdjevic come il 2 giugno 1982 Ferat Mujo ha ucciso suo figlio Danilo e ferito lei stessa.

 

- Reporter: Ci racconti come è avvenuto il fatto.

- Ecco. Stavamo lavorando la terra; siamo andati ad abbeverare le mucche, ma fra queste si erano nascosti quattro albanesi che hanno attaccato Danilo. Questi ha chiesto il motivo dell'incursione: "Perché colpite il nostro bestiame?". Tre di essi si sono gettati su di lui buttandolo a terra. Mi sono precipitata in suo soccorso, ma uno degli assassini ha colpito anche me col bastone, rompendomi il braccio e la gamba destra. Piangevo e gemevo. Quegli, raggiunto mio figlio, si è inginocchiato sul suo ventre e con una pistola ha mirato al cuore. Mi sono gettata su mio figlio. Quando gli ha tirato un colpo al cuore ha ferito anche me.

- R.: Lei dice di essere fuggita dal Kosovo. Che cosa è successo?

- Sono fuggita. È successo che sono proprio fuggita. Anche il mio secondo figlio s'è spaventato e siamo partiti assieme. Non osiamo vivere colà. Non credo più nella loro autorità. Abbiamo più volte recriminato e denunciato i ripetuti attacchi. Nulla è stato fatto. Non credo più nella loro autorità. Siamo andati via, siamo venuti a Belgrado al… Centrale, a questo…(Comitato).

- R.: Perché non avete più fiducia nella loro autorità?

- Perché già prima, in questo stesso mese, hanno ucciso mio marito massacrandolo a colpi di sbarra di ferro.

- R.: Accadde quattordici anni fa?

- Proprio quattordici anni fa come oggi. Nello stesso mese.

- R: L'assassino di vostro marito è stato identificato?

- Non hanno neppure voluto occuparsi di quel fatto. Dopo mi hanno mandata a chiamare per annunciarmi che era sopravvenuta la prescrizione: "Non hai alcun diritto. Fuggi, vattene. Esci di qui". Sono partita. Non credo più in loro…

(Trasmissione Monitor della televisione di Belgrado, 10 giugno 1982)

 

Luogo dove è stato assassinato Danilo Milincic a Samodreza (2 giugno 1982)

 

L'uccisione di Danilo Milincic ha sollevato una viva emozione nei villaggi e nel comune di Vucitrn.

- "Non esiste paese nei dintorni dove la popolazione serba o montenegrina non sia vittima di provocazioni intenzionali - ha dichiarato Bozo Karalic di Gornji Svracak -. Temiamo che non si tratti di un caso isolato. L'anno scorso hanno distrutto e incendiato le mie messi. Ho avuto danni per milioni. Siamo tutti spaventati".

- "Temo che queste aggressioni individuali continuino - afferma Zivojin Gasic di Samodreza -. A me hanno distrutto le messi, bruciano il frumento e tirano pietre contro i tetti e le finestre. Dopo le manifestazioni dello scorso anno (1981) in modo particolare. Viviamo nelle minacce e nel terrore. Mi sono rivolto a tutte le strutture pubbliche, al municipio e alla regione, ma nessuno ha fatto alcunché. Avrei voluto o andare ufficialmente in esilio o ottenere una protezione, una vita tranquilla…".

 

Danica Milincic, che i vicini albanesi chiamano Shkina (la serba) è una vecchia attivista dello SKOJ (Gioventù comunista) che si è battuta per il Kosovo, lo ha costruito e nutrito, e infine si trova nella necessità di lasciarlo:

- "Ho fatto quanto ho potuto - afferma -, hanno ucciso mio marito, hanno ammazzato mio figlio. I parenti di alcuni albanesi, funzionari della SK, mi hanno apertamente dichiarato che mi manderanno via dal Kosovo se non mi decido a vendere la "loro" terra. Hanno provocato i miei figli e io mi sono battuta per difenderli; qui le teste degli uomini cadono facilmente, i focolari si spengono in fretta e si abbandonano le proprietà. Ho concesso loro l'acqua, una strada. Da soli si sono presi parte delle mie proprietà senza chiedere. Ho subìto in silenzio. Qui non c'è nessuno col quale lamentarti e tutto è nelle loro mani. I miliziani fingono di non vedere nulla e il percettore di imposte si porta via la mia vacca se non pago la tassa per dei campi lavorati da altri. Non abbiamo più nessuno. Anche lo Stato sembra lasciarci al nostro destino. Non abbiamo che il pope Zoran (Grujic a Vucitrn), ma anche lui è stato più volte oggetto di attacchi. Ormai è finita e sto per abbandonare tutto. Ne ho abbastanza. Vi è solo sventura per i vivi là dove perfino i morti non possono stare in pace…".

(Notizie della TV dell'11 giugno 1982 e Ortodossia del 1° luglio 1982).

***

Purtuttavia, quando ci siamo recati con alcuni amici, alla fine del nostro giro nel Kosovo (estate 1983), sulla tomba del povero Danilo Milincic di Samodreza, odiosamente assassinato l'anno scorso (2 giugno 1982) nella terra dei suoi padri e sepolto nella chiesa di Vucitrn, abbiamo potuto constatare un altro atteggiamento serbo. Sul monumento costruitogli "dalla madre Danica, dal figlio Ivan (postumo), dalla figlia Ivana e dai fratelli Pavle e Miroslav", sono state scritte queste semplici ma sconvolgenti parole che rendono testimonianza dello spirito invincibile del popolo al quale Danilo, come noi tutti, apparteneva (trascriviamo qui il testo parola per parola):

Figlio, Padre, Fratello, sangue nostro,
sei caduto nel tempo della libertà;
il criminale s'è gettato su di te,
vigliaccamente ha spezzato il tuo cuore,
lasciando dei piccoli orfani,
madre, sorella e fratelli vestiti a lutto;
tu sei caduto eroicamente
difendendo la terra dei tuoi padri,
ma il tuo spirito vivo mai morirà:
rimane per sempre con noi.

Sì, Danilo Milincic di Samodreza non è morto: egli vive, è fra di noi. Tra noi è pure la madre desolata Danica, i fratelli e la famiglia. Ma il suo martirio continua, purtroppo. La povera madre Danica, dopo la tumulazione di Danilo, aveva abbandonato e la casa e la proprietà, come pure il Kosovo. Dopo alcuni mesi è ritornata, con un grande sforzo di volontà, alla sua proprietà e vi ha resistito a mala pena un anno. Si è nuovamente battuta, ha subìto nuove pressioni ed infine in questi ultimi giorni (fine gennaio '84) è ritornata a Belgrado a cercare ancora giustizia e protezione contro la violenza e le vessazioni subite, nonostante tutta la fiducia che aveva alimentato il suo "ritorno in Kosovo". Ancora oggi non vuol vendere i suoi beni, pur non potendo sopravvivere colà. Forse che il suo tragico caso non è una conferma di quanto devono ammettere numerosi serbi del Kosovo: "Da qui parte soltanto colui che sa dove andare"?

Ne è una reale conferma il flusso incessante dell'esilio (o della "fuga in massa", come è stata definita) che continua, il più delle volte nelle lacrime e talvolta nel sangue. E in più, frutto di pressioni "raffinate", col dettaglio sconvolgente che alcuni non dichiarano le ragioni della loro fuga dal Kosovo. In questo modo si realizza il piano e il programma del Kosovo etnicamente puro, in maniera lenta e silenziosa, con malizia e vigliaccheria. Usando talvolta la "terminologia autogestionaria", come ebbe a definirla un giornalista. Bisogna infatti avere il coraggio di riconoscerlo pubblicamente: "la tranquillizzazione della situazione nel Kosovo" è quasi sempre una finzione messa in atto per rivolgere altrove l'attenzione dal lento ma inesorabile processo di espulsione dei non-albanesi dal Kosovo e dalla Metohija, con particolare riguardo ai serbi.

Come elemento di prova, eccovi alcuni fatti recenti:

Trascriviamo qui di seguito, parola per parola, la nota informativa fatta sul Kosovo da un quotidiano (Il separatismo nel Kosovo fa ogni sforzo per farsi strada, mettendo in atto brutalità fisiche contro i serbi e i montenegrini):

 

«Attacchi alle spalle.

Quanto maggiori sono i risultati ottenuti dalle forze progressiste per la stabilizzazione della situazione politica e della sicurezza nel Kosovo, tanto più nervoso diventa il separatismo albanese. Ciò è dimostrato dal fatto che il nemico cambia tattica rinforzando in certi casi le pressioni fisiche contro la popolazione serba e montenegrina. Tre attacchi contro serbi e montenegrini che sono stati fatti in questi giorni (metà gennaio '84) ne danno, a loro modo, conferma.

Milomir Deljanin, impiegato del LTH, in servizio a Pristina, è stato aggredito da Ismet Makoli (35 anni). Deljanin era uscito il 9 gennaio verso le nove per fissare le targhe di immatricolazione della sua vettura. Mentre era intento all'operazione, uno sconosciuto gli si è avvicinato da dietro facendo roteare una catena d'acciaio. Milomir s'è girato d'istinto senza riuscire ad evitare il colpo. Lo sconosciuto gli ha aperto l'arcata sopraccigliare e l'ha colpito alle spalle ancora tre volte mentre era tramortito. "Lo avrebbe certamente ucciso se non mi fossi subito messa a gridare e a chiedere aiuto", racconta Stanka, la sposa di Milomir. "Il fatto è avvenuto nel centro della città, alla presenza di parecchi testimoni che passavano di là. L'aggressore è fuggito, ma è stato scoperto grazie al rapido intervento degli agenti di polizia che avevo chiamato dopo aver trasportato Milomir all'ospedale. Il giudice di prima istanza gli ha inflitto sessanta giorni di prigione. Aveva dichiarato di non conoscere Milomir e che lo aveva picchiato per la soddisfazione di farlo!".

Milos Radulovic, allievo del quarto anno della scuola di pedagogia di Pristina, è stato attaccato alle spalle da un giovane di nazionalità albanese, riportando gravi ferite. Ora è fuori pericolo grazie alle cure mediche ricevute all'ospedale di Pristina. I suoi compagni, ragazzi e ragazze della scuola di Milos, sono concordi nel dire che era un ragazzo molto calmo e che non conosceva il suo aggressore.

Un altro attacco ha subito anche Mile Kostic dei dintorni di Urosevac. Un uomo ch'egli, bravo agricoltore di sessanta anni, non aveva mai visto prima, gli è piombato addosso: "Ero andato ad acquistare dei farmaci per la nonnina, quando mi sono fermato davanti a una pozzanghera per dare la precedenza ad un uomo che veniva dalla direzione opposta. Questi, quando è arrivato alla mia altezza mi ha dato un forte pugno al mento. Sono rimasto sconcertato e gli ho chiesto perché mi avesse colpito e quello: 'Ma perché sei un serbo!'" - racconta Kostic.

Smascherato e smembrato, il movimento separatista si sforza, e lo si vede, di farsi nuovamente valere mettendo in campo i quattro punti fondamentali del suo programma: il Kosovo-repubblica: attraverso o la via pacifica, o la paura, o la lotta, o la forza».

(D. Damianovic, Notizie della sera del 15 gennaio 1984).

 

Appena qualche giorno dopo si veniva a sapere (26 gennaio 1984, dallo stesso giornale) che l'aggressore Ismet Makoli era stato rimesso in libertà e aveva di nuovo provocato e aggredito pubblicamente Milomir Deljanin, infliggendogli gravi ferite. Alle rimostranze e proteste di Milomir, il giudice gli disse che Makoli era un ammalato, aggiungendo di fare attenzione, poiché Makoli avrebbe potuto anche uccidere! Altre precisazioni in merito non si sono avute dal tribunale superiore di Pristina. Ecco un semplice esempio dell'atmosfera che regna nel campo della giustizia nel Kosovo. Per questo motivo i serbi del Kosovo ripetono spesso: "Noi non siamo tutti uguali davanti alla legge né godiamo tutti della stessa libertà".

Ecco ancora gli ultimi fatti: lo ieromonaco Jovan Radosavljevic, professore nel seminario di Prizren, è stato colpito con una pietra alla testa, la vigilia di Natale in una via vicino alla Bistrica (fortunatamente il suo copricapo lo ha salvato, evitandogli ferite gravi) da alcuni ragazzi albanesi che sono poi fuggiti. Mentre, ferito, si rivolgeva ad alcuni passanti albanesi, questi ironicamente gli mostravano i bambini che erano ivi rimasti. In realtà coprendo i veri colpevoli.

Il contadino serbo N.N. di Musutiste e il suo figlioletto sono stati aggrediti il 16 maggio 1983 dall'albanese N.N. dello stesso villaggio (siamo costretti a non farne i nomi!) solo perché avevano tentato di cacciare delle mucche dal loro campo di trifoglio. Ne è seguito un conflitto con questa conclusione: il tribunale ha condannato il serbo a chiedere la conciliazione e a pagare mezzo milione all'albanese che lo aveva aggredito! Un mese dopo, lo stesso serbo a cavallo con suo figlio, sono stati attaccati da giovani albanesi dello stesso villaggio e, dopo il suo reclamo, il comandante della polizia gli ha risposto che erano sempre i serbi ad essere colpevoli. È evidente e chiaro che in Kosovo, "il vaso di terracotta non può far resistenza a quello di ferro"!

Nel villaggio di Odanovac vicino a Kosovska Kamenica, in questi giorni una giovane serba è stata violentata da tre albanesi dello stesso villaggio. Due sono stati acciuffati, il terzo è latitante. Si dice che la ragazza sia di Vukovar. I fatti e le circostanze sono all'esame delle autorità, ma che cosa ci si può attendere da una simile inchiesta quando è noto che molti casi analoghi si sono conclusi senza conseguenza alcuna per i criminali?

A Podujevo (come in questi giorni ha documentato la televisione di Pristina), durante i funerali di un serbo, un certo gruppo di allievi della scuola primaria hanno scandito degli slogans e auguri caratteristici e a noi ben noti: "Uno oggi, sette domani!". Già da tempo avevamo manifestato la nostra deplorazione per una simile forma di "educazione" dei giovani albanesi, ma qui ci vengono alla mente le parole di un onesto albanese, Brahim Hodza, del villaggio di Junik, vicino a Pec. Egli affermava, a proposito di simili violenze dei ragazzi, che sono del tutto intenzionali e vengono perpetrate verso i vicini più deboli con lo scopo di cacciarli, cioè per la loro espulsione. "Quelli - diceva - (cioè i genitori di tali ragazzi) lo sanno bene, come pure i nostri politici albanesi".

E infine, se pure c'è una fine, si sa che recentemente (gennaio 1984), Hamdi Kabasi, di Djurakovac vicino a Istok, ha fatto irruzione nel Patriarcato di Pec, ha cercato di danneggiare le icone e le immagini sacre gettandosi con violenza contro le monache che cercavano di impedirglielo, e urlando: "Non siamo in Serbia!". È stato punito con una detenzione di sessanta giorni.

Naturalmente, tutti i casi citati ed altri ancora che non abbiamo menzionato, rappresentano la parte negativa della storia del Kosovo. C'è pure quella positiva. Il senso della giustizia ci impone di citarne alcuni.

Ecco: la stampa ha raccontato (fine dell'83) una vicenda esemplare. Nei dintorni di Gnijlane, nel villaggio di Jegri, il vicino albanese ha restituito al suo vicino serbo la casa vendutagli circa un anno prima. La stessa cosa è avvenuta tra vicini nel villaggio di Cernica. Tali comportamenti di buon vicinato umano esistono certamente in altri luoghi del Kosovo.

Non viviamo da ieri nel Kosovo! Va segnalato pure il caso di albanesi onesti che si erigono a difensori dei serbi e dei montenegrini. Il maestro di scuola Ali Zechaj, di Donji Streoci vicino a Decani, rappresenta l'esempio di un uomo che non soltanto a parole, ma anche sotto le minacce dei fratelli albanesi, rimane fermo nel suo atteggiamento: "Non sopporto il terrore contro il mio popolo; non sopporto che il mio popolo eserciti il terrore contro altri popoli". A causa della sua apertura verso i serbi è stato condannato nei giornali del Kosovo (Rilindia e la TV di Pristina) e dai comitati municipali, ma nessuno ha smentito le sue affermazioni. (Il dovere n. 259).

Citiamo un altro esempio nelle parole di un albanese di una certa età, dei dintorni di Decani, Alia Dautaj, secondo il quale "non è da noi che i serbi e i montenegrini subiscono dei soprusi, ma da parte di gruppi anomali e da briganti, che sono, pare, difesi da alcune persone che detengono il potere" (sta di fatto che nel comune di Decani la popolazione serba non arriva al 4% e tutti gli altri se ne sono andati e continuano ad andarsene in esilio. E non esistono quasi più serbi nelle municipalità di Glogovac. Srbica, Djakovica, Kacanik, Podujevo).

Questa opinione sull'atteggiamento di alcuni di coloro che detengono il potere malauguratamente non è né inesatta né isolata…

Non si deve allora, in tali condizioni, che dare ragione al professore Mohamed Kesetovic, di Belgrado, consigliere presso l'ufficio di presidenza del paese, quando affermava:

«… la voce della protesta del nostro paese s'è sempre levata ogni volta che si minacciava ai diritti dell'uomo, in qualsiasi parte del mondo. Era una voce forte, possente. Protestavamo contro l'apartheid in Africa del Sud, nel Mozambico, in Rodesia, contro i ghetti dei Neri. L'anno scorso avevamo organizzato un grande riunione di sostegno per i rifugiati palestinesi.

Ma in nessuna parte della Jugoslavia abbiamo saputo fare altrettanto per il triste esodo di centinaia di migliaia di persone cacciate dal Kosovo. Evidentemente questo non commuove più di tanto le persone. Ma invece dovrebbe! È veramente strano che nei nostri ambienti diversi non si abbia avuto un momento di attenzione né una presa di posizione comune dinanzi all'esodo dal Kosovo. Il clamore comune è indispensabile per esprimere la nostra condanna, la nostra protesta e la nostra contrarietà verso il fatto che in Europa, in una libera comunità socialista, un popolo possa essere espulso».

(Interview del 3 febbraio 1984).

 

Recentemente una persona obbligata a lasciare il suo focolare secolare del Kosovo, affermava a proposito di tale "comunità libera e socialista":

«…il paese che aveva così gloriosamente regolato i suoi conti col fascismo quattro decenni fa ha permesso che l'idea fascista di un Kosovo etnicamente puro avesse origine nel suo proprio seno. È una grande sventura per ogni iugoslavo. E tuttavia molti hanno l'aria di non badarci…

So bene quello che bisognerebbe dire. Tuttavia sarà meglio che io taccia. A chi si dovrebbero raccontare queste cose? Tutto è ormai così chiaro e lampante! Credo che anche i passeri cantino sui tetti ciò che avviene nel Kosovo. Anche coloro che sono al comando lo sanno… eppure l'esodo di un popolo continua».

(Danilo Markovic, Le notizie della sera, 4 gennaio 1984)

 

Da parte nostra e indipendentemente da quanto detto dal prof. Kesetovic, ricordiamo che la parola esodo (dal greco exodos) è una espressione biblica che designa l'uscita di Israele dalla schiavitù egiziana. Così si intitola il secondo libro di Mosè. Il libro dell'esodo di oggi del popolo serbo dal suo Kosovo rimane da scrivere.

 

(traduzione di Vito Mantia)