La
condizione degli insegnanti in Europa
Quarto appuntamento del ciclo "La questione insegnanti"
Intervento di Norberto Bottani e Roberto Moscati
a cura di Agnese Bertello
Sei
milioni di docenti in Europa, ma le condizioni di lavoro, il carico,
la formazione, le prospettive future per questa "massa"
di operatori della scuola sono diverse da un paese ad un altro.
Ad accomunarli un senso crescente di frustrazione. Per migliorare
le condizioni di lavoro e la qualità dell'insegnamento bisogna
inventare sistemi radicalmente innovativi.
Norberto
Bottani
Vorrei fare un'analisi macroscopica della situazione dei docenti
in Europa. Il primo elemento da prendere in considerazione è
il dato quantitativo, la massa dei docenti: in Europa ci sono 4,5
milioni di docenti. Siamo di fronte a un popolo molto nutrito di
persone che vivono della scuola. Se poi prendiamo in considerazione
i paesi dell'Europa allargata arriviamo a 6 milioni di persone.
Questo è un dato di fatto, è il grande mercato del
lavoro europeo. Un dato assoluto che già di per sé
mi obbliga a pormi delle domande.
Il
secondo elemento da considerare è l'importanza relativa di
questa massa di persone che si occupano dell'insegnamento, cioè
il rapporto con la popolazione attiva europea: la media è
del 2,6%. Le variazioni intorno a questa media sono relativamente
ridotte e stabili nel tempo. Questo significa chela proporzione
del 3% è una soglia che difficilmente verrà modificata.
Non cambierà moltissimo, rimanendo i sistemi scolastici quali
sono. Un altro elemento da tenere in considerazione è il
rapporto tra i docenti e i non docenti, quelli che qui in Italia
vengono chiamati personali ATA. Questo è un dato decisamente
più variabile. In genere il personale non docente è
circa un terzo, ma questa proporzione cresce: diminuiscono i docenti,
ma aumenta il personale non docente.
Qual
è poi la qualità dei docenti? Quando si ha a che fare
con 4 milioni di docenti o 6 milioni di docenti, il problema della
qualità diventa un problema insormontabile. È utopico
pensare di avere 6 milioni di docenti perfetti che fanno bene il
loro lavoro ogni giorno con coscienza. È utopico anche parlare
di 1 milione di docenti. Questi numeri ci obbligano a ripensare
in modo rigoroso il problema della qualità dei docenti. Non
è un problema individuale, non si può risolvere con
la buona volontà del singolo docente, come invece sembrano
credere le politiche per la scuola che sono state approntate, soprattutto
qui in Italia. Il problema della massa di docenti nella scuola deve
incitare a concepire delle strategie di qualità totalmente
diverse. Un'affermazione di questo genere mette in crisi tutta la
concezione umanista, moralistica della professione, ma per me è
inevitabile. Purtroppo, nei vari paesi prevale sempre la concezione
individualistica.
Allora,
è possibile parlare di penuria con una massa tale di manodopera?
Si può; non è una contraddizione in questo caso. A
mio parere, il concetto di penuria si giustifica pienamente indipendentemente
dal volume di persone che sono occupate nella scuola. Si giustifica
per svariate ragioni; prima di tutto perché il numero stesso
degli insegnanti dipende da come è concepito l'insegnamento.
Non è di per sé il volume puro che conta, ma piuttosto
il modo con il quale le scuole vengono concepite e organizzate.
Ora noi abbiamo un modello di organizzazione della scuola fondato
sulla divisione in classi, per gruppi di età che è
molto esigente. Il modello di insegnamento prevalente oggi in Europa
è un modello onnivoro, crea posti di lavoro, ha un grande
bisogno di insegnanti, ed è probabilmente da questo che dipende
anche la penuria, perché non avremo mai un numero sufficiente
di docenti per soddisfare le esigenze di questo sistema.
La
penuria è giustificata anche dal fatto che il mercato dei
docenti non è libero, è un mercato coatto e frantumato.
La libertà dei docenti nello spazio europeo è molto
limitata, è condizionata da fattori subdoli, che impediscono
l'applicazione della libera circolazione della manodopera. In Francia,
per esempio, c'è un grande bisogno di docenti di tedesco,
ma il sistema scolastico non è in grado di produrre un numero
sufficientemente elevato di docenti di tedesco per realizzarel'obiettivo
prioritario che si è assegnato. Di conseguenza, si sono invitati
i docenti tedeschi che sanno il francese. L'appello ha avuto successo,
anche perché nella cultura tedesca c'è sempre questo
ideale del mediterraneo, del sole, del vino, fattori che nulla hanno
a che vedere con l'educazione, ma che attirano molti giovani verso
la Francia. Che cosa è successo? Sono stati imposti esami
di francese ai giovani tedeschi che avrebbero rappresentato nelle
scuole francesi una minaccia per la purezza della lingua francese!
Questi sono i meccanismi perversi all'opera un po' ovunque.
Queste deformazioni del mercato accrescono lo stato di penuria,
soprattutto in certe discipline.
Le
condizioni di lavoro dei docenti italiani
Se analizziamo le condizioni di lavoro dei docenti italiani, non
possiamo arrivare a quelle conclusioni che sono costantemente ribadite
dai docenti e dai sindacati in Italia e cioè che le condizioni
di lavoro sono particolarmente svantaggiose rispetto all'Europa:
non è vero.
Faccio riferimento ai dati dell'OCSE del 2002 che si basano sui
dati del 2000; dati iper-verificati. Prendiamo 3 indicatori:
a. il numero di allievi per docente e il numero di allievi per classe,
b. le ore di insegnamento
c. lo stipendio.
La
proporzione allievi docenti, non è la stessa cosa della proporzione
allievi per classe. La prima indica l'abbondanza del personale qualificato
rispetto al numero degli studenti. In Italia questa proporzione
è particolarmente vantaggiosa: nelle elementari c'è
1 docente ogni 11 allievi, nelle medie c'è 1 docente ogni
10 allievi. Tra i più bassi in Europa. In Turchia, il rapporto
è di 1 a 30, come in Italia prima della guerra.
Se prendiamo la media delle classi, allora vediamo che rispetto
al primo dato è leggermente più elevata, ma rimane
comunque in una posizione favorita, rispetto al trend europeo. Nelle
elementari ci sono 18 alunni per classe e nelle medie 20, ma la
media europea è di 25 alunni. Anche da questo punto di vista
le condizioni di lavoro degli insegnanti italiani sono particolarmente
favorevoli: è meno stressante, c'è meno rumore, meno
alunni che si alzano, che si muovono, che chiedono di uscire
Osserviamo
un altro elemento: le settimane di scuola all'anno. La pesantezza
dell'anno scolastico, la sua lunghezza, è l'elemento fondamentale
per calcolare qual è l'onere di insegnamento dei docenti.
Per quel che riguarda le scuole elementari, l'anno scolastico dura
34 settimane, mentre in Danimarca sono 42 settimane. Ci sono 8 settimane
di differenza, due mesi. Di conseguenza anche il numero di ore di
insegnamento è più basso: sono 740 ore di insegnamento
all'anno. Il numero di ore per settimana è un po' più
elevato, ma sempre al di sotto della media europea. Rispetto all'Olanda
di sono circa 200 ore di insegnamento in meno. Nelle medie italiane
la situazione è ancora più vantaggiosa: solo 612 ore
di insegnamento. Possiamo dire che l'Italia è poco esigente
nei confronti dei suoi docenti, le condizioni di lavoro del resto
degli insegnanti europei sono certo molto più faticose.
Sarebbe interessante confrontare questi dati con l'effettivo rendimento
degli studenti negli apprendimenti fondamentali. Per ora non si
è in grado di stabilire un rapporto di causa ed effetto,
anche se si notano delle coincidenze.
L'ultimo
punto dolente è quello degli stipendi. Basiamoci sullo stipendio
medio, a metà carriera, dei docenti che hanno resistito nella
scuola, ed hanno alle spalle 15 anni di insegnamento. Le valutazioni
sono fatte in dollari e tengono conto del costo della vita e dell'inflazione
dei singoli paesi. Affidandosi ai soli dati assoluti, i docenti
italiani risultano mal pagati: nelle elementari prendono 25.000
dollari l'anno, mentre i docenti svizzeri, i meglio pagati al mondo,
ne prendono 45.000. Nelle medie la situazione è lievemente
migliore. In genere possiamo dire che i livelli di retribuzione
si situano nella fascia inferiore; sono effettivamente al di sotto
della media europea. Se mettiamo in relazione la retribuzione con
le condizioni di lavoro effettive - ore di insegnamento, numero
di allievi
- la valutazione finale complessiva viene capovolta
e gli stipendi degli insegnanti italiani si situano nella fascia
superiore.
Il dato assoluto è una cosa, quello relativo un altro.
L'ultimo
elemento da considerare è la progressione della carriera.
Ci sono paesi in cui si è sviluppata una politica di fidelizzazione
dei docenti molto spinta, per evitare la fuga, fortissima nei primi
anni di insegnamento. Questa fuga dalla scuola è stata contrastata
assegnando uno stipendio iniziale molto elevato e assicurando una
progressione molto rapida. Questo proprio perché la fuga
dalla scuola è impressionante nei primi 3/5 anni, fino ai
10 anni di insegnamento. Sono i primi anni la prova del fuoco, per
i docenti. Al contrario in Italia, la progressione è molto
lenta. Ci vogliono 30 anni per arrivare al massimo della carriera
e dello stipendio. In Scozia ce ne vogliono 11. La concezione italiana
della professione è molto burocratica, molto amministrativa.
E badate che rispetto a 10 anni fa quando avevo fatto per la prima
volta questi calcoli, c'è già stato un miglioramento:
all'epoca si arrivava al massimo dello stipendio solo alla vigilia
della pensione. Questo è un dato molto eloquente della concezione
della politica per il personale della scuola.
La
penuria
Quello della penuria è un problema serio, drammatico, che
si sta ponendo sulla scena in maniera prepotente. Può essere
una penuria globale o una penuria selettiva, ma la penuria c'è.
L'Italia fa eccezione, è un caso totalmente atipico. In generale,
nei paesi con sistemi scolastici più strutturati, il fenomeno
della penuria è serio.
Sul
settimanale Libération, recentemente, è comparso un
articolo che parlava delle ragioni di disagio dei docenti: maleducazione,
insulti, aggressioni fisiche, ricatti, situazioni insostenibili,
degrado dell'ambiente scolastico, illusioni infrante ("pensavo
che la scuola fosse un grande progetto, nobile, che potesse ispirare
una vita di dedizione"), tensioni permanenti con i colleghi,
rapporti con genitori molto aggressivi, che denunciano penalmente
gli insegnanti
Questa è la fotografia data dal quotidiano francese, questo
è l'ambiente nel quale i docenti si muovono e posso dire
che anche nella tranquilla Svizzera i docenti hanno di che lamentarsi.
Questa atmosfera è assolutamente demoralizzante e spiega
la fuga dalla scuola.
Un
quinto dei docenti in media non è soddisfatto del suo lavoro.
La presenza di una percentuale di docenti insoddisfatti, se pure
fosse residuale, avrebbe serie conseguenze sull'impegno e sul lavoro
di quelli che si dicono soddisfatti. È un fattore pericoloso
che deve essere preso seriamente in considerazione perché
ha elementi, provati, di contagiosità. Il clima di insoddisfazione
generale spiega il fenomeno dell'abbandono della scuola. Se a questo
elemento aggiungiamo la difficoltà di trovare docenti di
certi discipline: di matematica, di musica, di disegno. L'accumulazione
di questi due fenomeni crea penuria. Cerchiamo di definirla: con
penuria non si intende soltanto la mancanza dei docenti, ma "un
fenomeno di concentrazione di docenti poco qualificati in zone a
rischio", c'è un'interpretazione qualitativa della penuria
e non quantitativa.
Per fare un esempio, in Francia i docenti fuggono verso il sud,
dove c'è una concentrazione di docenti con molta esperienza,
qualificati, condizioni di lavoro piacevoli
Questo squilibrio
interno è penuria.
Un
altro fattore è il riconoscimento sociale: tutti i docenti
si lamentano della perdita di prestigio della loro professione.
Non sono sicuro che questo sia vero, ma certo questa è la
loro percezione. Un altro elemento che ritorna costantemente in
tutte le indagini che vengono fatte in Germania, in Svizzera, in
Italia è la mancanza di sostegno. I docenti si sentono abbandonati
dalle gerarchie scolastiche, sentono di essere presi sempre come
capro espiatorio, vorrebbero che i dirigenti li difendessero, ma
ciò non accade perché i dirigenti stessi hanno dei
dubbi sulla qualità dell'insegnamento.
Altrettanto pesante è il susseguirsi di riforme, il fatto
di essere entrati in una fase di trasformazione costante destabilizza
i docenti.
Ci sono alcuni paesi che hanno un equilibrio tra domanda e offerta
di docenti - Spagna, Finlandia e Scozia -, tutta una serie di paesi
con una situazione di penuria, chiara, che andrà accentuandosi
e paesi in cui si sa che non ci sarà il ricambio perché
gli studenti intervistati hanno dichiarato che non intendono fare
gli insegnanti, poi ci sono paesi con sovrabbondanza di docenti
- la Grecia, l'Italia e l'Austria -, che hanno ancora la rappresentazione
di docente come di piccoli notabili e non possono essere esportati,
perché questi non sanno le lingue, sono stati formati per
esercitare in loco, e poi ci sono paesi, come la Germania e la Francia,
dove abbiamo nello stesso tempo penuria e sovrabbondanza, a seconda
dei settori, delle discipline.
Che
fare?
Occorre concepire una politica del personale della scuola. L'elemento
più drammatico è l'assenza di una volontà politica
propositiva, chiara. Volontà propositiva significa intervenire
con un modello radicalmente diverso: è inutile immaginare
che il problema del ricambio dei docenti, della fuga dalla scuola,
dell'insoddisfazione dei docenti possa essere risolto con piccoli
espedienti come l'aumento di stipendio mensile o la riduzione del
numero di ore. È il modello di scuola che va cambiato. Ci
vuole una molta originalità, una elevata capacità
di innovazione. Sul piano internazionale c'è un embrione
di politica del personale della scuola. L'OCSE ha un enorme progetto
internazionale in corso che mira a disegnare i tratti di una vera
politica dei docenti e della scuola. Fondamentale è avere
delle banche dati serie, complete, aggiornate che tengono conto
anche dei docenti. Questo è uno dei primi sforzi che bisogna
fare.
Alcuni paesi si stanno muovendo in questo senso, con una politica
ufficiale di pianificazione. Poi ci sono paesi che non hanno una
politica di questo tipo e l'Italia è fra questi.
Roberto
Moscati
La nostra società occidentale è stata segnata in questi
ultimi decenni da grandi trasformazioni, pensiamo alla nascita della
società dell'informazione, alla circolazione dell'informazione
e all'utilizzo possibile di queste conoscenze a livello formativo,
alla crescente flessibilità, al cambiamento dell'organizzazione
del lavoro, ai mutamenti nei processi produttivi, ai fenomeni di
immigrazione, di mobilità geografica, al cambiamento dei
valori, della durata stessa della vita, delle nuove povertà.
Insieme a questa serie di cambiamenti è interessante vedere
come cambia il ruolo della scuola.
Il
ruolo della scuola è in fase di trasformazione, non si può
dire di no, sia per i processi di riorganizzazione dei sistemi,
che vanno nella direzione della maggiore autonomia, sia all'interno
delle nuove domande della società, delle nuove consapevolezze
o illusioni diffuse circa l'utilità e la funzione dell'istruzione,
dei genitori e degli studenti stessi: c'è una minore disponibilità
ad accettare senza interventi critici il trasferimento delle conoscenze.
Agli
insegnanti oggi è richiesto di assumere ruoli diversi, non
solamente quello di trasferire le conoscenze, ma essi devono essere
mentori, tutor. Questi processi hanno un effetto sulle esigenze
di formazione della categoria ed è interessante se e chi
e come risponde a queste esigenze.
Faccio riferimento al libro prodotto da TNTE cioè la Rete
telematica degli insegnanti in Europa.
L'aspetto
che salta agli occhi quando si fanno queste analisi comparative
è che non c'è ancora stata una vera assunzione di
responsabilità del problema della trasformazione degli insegnanti
per adeguare la figura alle nuove esigenze e alle nuove richieste.
I processi formativi molto spesso sono ancora legati alla logica
tradizionale, aggiungendo alla formazione disciplinare altra formazione
disciplinare, con il criterio del "più dello stesso":
affinare la conoscenza dell'area disciplinare nella quale si lavora.
Questo fenomeno è molto ben rappresentato dalla permanenza
nei diversi sistemi della differenza tra la formazione degli insegnanti
perla scuola elementare e quelli destinati alla scuola superiore,
con la permanenza della scuola "normale" per gli insegnanti
elementari e la scuola accademica per gli insegnanti della secondaria.
La
scuola "normale" era basata sull'addestramento pratico
e sulla didattica disciplinare. La tradizione accademica invece
metteva l'accento su contenuti delle discipline. Questa distinzione
va mutando nella direzione della formazione di tipo accademico anche
per la scuola elementare, non in tutti i paesi, ma in molti. Resta
ancora parziale l'accento sulla didattica, sulla teoria e la pratica
dell'insegnamento: queste dimensioni non sono ancora centrali in
molti sistemi.
Gli insegnanti europei si laureano ancora per lo più nelle
discipline specifiche e non in Scienze della Formazione.
Neanche
la formazione in servizio è curata. Questa mancanza di riforme
sistematiche, sul piano della formazione della categoria, fa pensare
a molti che si realizzi quella trappola innovativa per cui si rincorre
sempre l'esigenza invece di essere in sintonia con il presentarsi
dell'esigenza stessa. C'è una specie di ritardo stabile.
La
richiesta di una maggiore professionalizzazione della categoria
viene dai diretti interessati, ma anche dai politici dell'istruzione.
Questa esigenza comprende la valorizzazione e l'accreditamento,
modalità che comincia a diffondersi come testimonianza che
sta anche alla base del disagio della categoria. L'esigenza di una
professionalizzazione continua si manifesta anche nella richiesta
di nuovi curriculum nella formazione della categoria, con componenti
trasversali, multidisciplinari.
Si
verifica abbastanza chiaramente una tendenza all'aumento della durata
della formazione degli insegnanti. Una cosa interessante, che mi
sembra stia a significare la tendenza al cambiamento, è il
diffondersi della didattica interdisciplinare, così come
la tendenza a risolvere i problemi in gruppo, in collaborazione;
anche l'approccio tematico invece di quello disciplinare si sta
diffondendo: sono tutti segni di un'esigenza di mutare i processi
formativi e i contenuti del curriculum della categoria che comprende
anche in alcuni casi la consapevolezza di creare situazioni e ambienti
di apprendimento dove gli studenti abbiano la possibilità
di sviluppare strutture di comprensione o contesti favorevoli all'apprendimento.
Al
consolidarsi di questa consapevolezza e di queste pratiche contribuiscono
alcuni progetti europei di formazione in servizio, così come
i master e i dottorati transnazionali che si basano sulla formazione
a distanza.
Il
passaggio dalla didattica disciplinare alla didattica interdisciplinare
è probabilmente un momento di svolta cruciale per la categoria.
Il quadro che emerge non è di grande cambiamento, anche se
segnala la necessità della trasformazione. Il contesto non
sembra prontissimo a recepire la trasformazione e la necessità
di realizzare questa saldatura tra le richieste di nuove prestazioni
e di nuovi ruoli per la categoria insegnante e la possiblità
di essere attrezzati a rispondere alle richieste che il contesto
pone direttamente o indirettamente.
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