SE LA
LINGUA CI FA MALE
Un convegno a bruxelles per discutere dell´italiano
Già
Croce e poi Gramsci avvertirono che queste diatribe denunciano un
disagio
Torna di frequent l´allarme per l´idioma gentile insidiato
dalle parole straniere
I numeri dicono che non c´è motivo di aver timore ma
forse il problema è di natura sociale, non linguistica
L´Accademia degli Incamminati di Marzeno ha addirittura stilato
un manifesto
TULLIO DE MAURO
"Identità e diversità nella lingua e letteratura
italiana" è il titolo di un convegno che si terrà
- da domani a sabato 19 - tra Lovanio, Louvain-la-Neuve, Anversa
e Bruxelles. I temi in discussione sono di grande attualità,
come il rapporto tra l´italiano e l´inglese, la posizione
dell´italiano in Europa e nel mondo, lo stato di salute dell´insegnamento
dell´italiano all´estero, gli atteggiamenti verso la
lingua nazionale e i dialetti. Tra gli invitati, Antonio Tabucchi
e Erri de Luca, il presidente dell´Accademia della Crusca
Francesco Sabatini, Umberto Eco, Claudio Magris, Cesare Segre e
, che ha scritto questo articolo per noi. Una trasmissione radiofonica
che, in verità, si chiama «Zapping», ha lanciato
in queste settimane una serie di trasmissioni intitolata «Salviamo
la lingua italiana»: salviamola, pare, dai troppi anglicismi
che sono usati a dritto e rovescio e spesso con cattiva pronunzia.
Tema antico. A parte le sciocchezze fascistiche, già nel
1977 il compianto e a torto dimenticato Giacomo Elliot pubblicò
presso Rizzoli un divertente e preciso Parliamo itangliano, che
ebbe l´onore di una bella recensione accorata di Primo Levi
e che qualche anno fa Roberto Vacca ha recuperato e attualizzato
per Einaudi sotto il titolo ironico di Consigli a un giovane manager.
Ma già nel 1977 Elliot proponeva «le 400 parole inglesi
che deve sapere chi vuole fare carriera» e si giustificava:
«Quando Agnelli parla con Pirelli parla itangliano».
Tema antico, che nelle ultime stagioni però ricorre di continuo,
in proteste corali o individuali di scrittori, giornalisti, parlamentari
e ora perfino di cardinali della Chiesa di Roma. Si veda da ultimo
(o quasi) il "Manifesto agli italiani per l´italiano",
redatto dall´Accademia degli Incamminati di Marzeno (presso
Ravenna) presieduta da Pier Ferdinando Casini. Il primo firmatario
è Giulio Andreotti e le altre firme, tra cui due di cardinali,
sono degne di altrettanto rispetto. A parte qualche virgola fuori
posto e un paio di mende di stile (cose che capitano in testi collettivi),
il manifesto è pieno di buon senso, specie rispetto ad altre
dichiarazioni in materia formulate in modo assai più esagitato.
Si desidera il buon uso dell´italiano, ma non si proscrivono
le lingue straniere né tanto meno le persistenze dei dialetti
(vivi ancor oggi per il 60% della popolazione, informa l´ISTAT).
Si condanna l´uso snobistico di parole inglesi o l´uso
in nomi di istituzioni, come il ministero del Welfare, ma non l´uso
che venga a colmare lacune. Si invoca l´opera di scuole, pubblici
uffici, mezzi di informazione per offrire buoni esempi. Si loda
il presidente Ciampi per i suoi ripetuti richiami al valore sociale
e nazionale del possesso della lingua. E si ricorda che «nella
lingua si ritrovano i valori umani ed etici che caratterizzano l´identità
nazionale d´un popolo».
E´ difficile non sottoscrivere tante di queste affermazioni,
che sono così giuste ed equilibrate da poter parere ovvie.
Ma, allora, perché formularle in modo così solenne?
E perché l´infittirsi di appelli per la buona lingua?
Non è inutile o sospetto tutto questo, come pensano alcuni
specialisti di linguistica?
Credo che la risposta a questi interrogativi vada cercata in vecchi
testi. Nelle più che secolari Tesi per un´estetica
Benedetto Croce avvertiva che discussioni e proposte in materia
di lingua erano da prendere sul serio non per la loro coerenza teorica
e scientifica, spesso deficiente, ma perché manifestavano
(scriveva) «esigenze unitarie e democratiche». Ho già
altra volta segnalato che è uno dei rarissimi passi crociani
in cui l´aggettivo «democratico» è usato
in modo positivo e simpatetico (e, in effetti, sparve poi nella
ripresa del testo che Croce fece nell´Estetica). Trent´anni
più tardi Antonio Gramsci era ancora più deciso: le
questioni linguistiche non sono oziose, perché attestano
che si stanno ponendo «altri problemi», problemi di
rapporto tra le classi di un paese, problemi di politica e di egemonia.
Letti con questi riferimenti, appelli e proteste forse acquistano
più senso. Chi li formula appartiene al ceto dei più
istruiti, a quello che il prete di Calenzano e Barbiana, don Lorenzo
Milani, chiamava ironicamente il PIL, Partito Italiano Laureati.
Fuori della Toscana e, in parte, di Roma questo ceto è stato
fino alla metà del Novecento il depositario esclusivo non
della buona o cattiva, ma della lingua italiana intera. Sapevano
usare l´italiano, specie nello scrivere o in occasioni solenni,
tra il 15 e (al massimo) il 30 per cento degli italiani: toscani,
un po´ di romani, laureati e diplomati di buona famiglia.
L´italiano si imparava a scuola. E poiché il 59,2%
della popolazione era privo anche della sola licenza elementare,
a questa parte, per parlare, restava solo l´uso obbligatorio
di uno dei tanti dialetti. Oppure restava il tacere.
So che questi numeri infastidiscono. Ma a me pare che non capiamo
che cosa è successo e sta succedendo se li dimentichiamo.
C´è stata per le classi giovani una grande corsa all´istruzione,
che, con la lentezza dei grandi fenomeni demografici (come cercò
di spiegare Paolo Sylos Labini), va sedimentando i suoi risultati
nell´intera popolazione. Ragazze e ragazzi da anni completano
quasi tutti la scuola di base, raggiungono ora per tre quarti il
diploma, per metà premono, magari venendo da famiglie senza
o con assai poca scuola, alle sacre porte dell´università.
Nell´intera popolazione i senza scuola, no-schoolings dicono
gli esperti, sono ormai una percentuale esigua. Laureati e diplomati
si avviano a pareggiare le percentuali raggiunte in Europa da decenni.
Le enormi migrazioni dal Veneto e dal Sud verso i grandi centri
hanno sconvolto le basi secolari della dialettofonia esclusiva.
Infine, la televisione, un mezzo rutilante, seducente e a basso
costo, ha portato informazione, spettacoli e (guarda un po´)
conoscenze perfino scientifiche all´intera popolazione. E
lo ha fatto in italiano e l´italiano ha fatto ascoltare dove
mai aveva risuonato.
Il risultato attuale è che (ci dicono ISTAT e DOXA) più
di nove italiani su dieci parlano italiano e i sei su dieci che
usano ancora un dialetto lo fanno come alternativa possibile tra
amici, non per obbligo secolare.
C´è stata una hidden revolution, come fu quella della
stampa: una rivoluzione nascosta. Non bisogna più essere
fiorentini o laureati: anche molti altri sono diventati depositari
della lingua e padroni degli accessi che dà un accettabile
parlare.
Della buona lingua? Non credo. Buona lingua, specie nel caso di
una lingua antica e internamente plurima come l´italiano,
presuppone, per non andar lontano, buone letture. E questo, per
la nostra comunità nazionale, senza annoiare con altri numeri,
è ancora un vero ponte dell´asino. E buon italiano
presuppone anche, come insegnavano Manzoni e Leopardi, una buona
conoscenza di lingue straniere e in più, nei particolari
casi dell´italiano e dell´inglese, una buona familiarità
col latino: e qui non c´è nemmeno un ponte, ma un baratro.
Forse però un numero almeno va dato: solo il 10% delle famiglie
spende in un anno qualche euro per libri non scolastici; e solo
il 6% mette piede in una biblioteca. La lettura non ha sorretto
la scuola e il cammino verso l´italiano. Cadute e guasti nello
stile sono inevitabili, tanto più dinanzi ai bisogni di comunicazione
in e di una società complessa, mobile, che richiede un possesso
dei mezzi espressivi molto superiore a quello della statica società
a base agricola di mezzo secolo fa. Qualche bacchettata all´annunciatrice
che, attonita, legge sul gobbo che «i cipressi di Bolghèri
si sono ammalati» non risolve i nostri problemi. Ci serve,
come Croce insegnava, una crescita del possesso diffuso di mezzi
intellettuali, più libri, più giornali, più
scuola secondaria superiore e corsi per adulti, come nella restante
Europa. E meno rimpianti per un tempo che fu, piacevole per pochi
assai.
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