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Finisce l´anno, riforma in alto mare. Ne parliamo con Maria Paola Gelli

"Io insegnante? A volte mamma psicologa, assistente sociale"

"Per la scuola non si fa niente, ma resistiamo"

"La scuola a noi non ci chiederà mai conto di niente. Mi piacerebbe se sapesse giudicarci"
54 anni, un marito, due figli, prof al Redi-Granacci. "Un lavoro massacrante"

MARIA CRISTINA CARRATU´

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«GUARDI, questo lavoro si potrebbe definire così: massacrante. E però io non lo cambierei mai. Nonostante tutto. Anche se la sera arrivo a casa cotta, e a volte demoralizzata. A volte, però, sono anche entusiasta. E questo mi basta. Ah, so benissimo che così mi inguaio da sola: se per la scuola si continua a non fare niente, forse è proprio perché c´è gente che va avanti nonostante tutto...». Lo dice, ma non vorrebbe che lo si riferisse a lei. Intervistarla è una lotta. Maria Paola Gelli è un´insegnante di quelle appassionate, che adorano il loro lavoro, e schiva, come è giusto per chi ha che fare con una materia viva, che mette alla prova ogni momento, impedendo di sentirsi appagati. «Che lavoro faccio? Mah, a volte mi capita di dire: oggi ho fatto il genitore, oppure lo psicologo, oppure l´assistente sociale...Mica giusto. Però anche inevitabile: un insegnante è tutto fuorché uno che dispensa nozioni. Certo, se ci fosse un vero sostegno da parte della scuola, che per questo ci paga, sarebbe un´altra cosa. A volte mi chiedo: ma chi non ha risorse interiori, come fa a resistere? Il fatto è che ci siamo abituati a non avere più pretese. E si va avanti».
Cinquantaquattro anni, un marito, due figli, insegnante di lettere nella scuola media a tempo prolungato Redi-Granacci di Bagno a Ripoli, la professoressa Gelli ha, dice, «uno sprone dentro: far amare la scuola. Ai genitori è la prima cosa che chiedo: i vostri figli vengono volentieri? Poi, ma solo poi, parliamo delle materie. Perché se non c´è il piacere di imparare, non si può imparare niente». E il piacere, come si impara? «Non si impara. Si comunica. Nel divenire continuo di un rapporto umano, nella costruzione impercettibile di una fiducia personale, nella condivisione del piacere di apprendere, di scoprire...». Se ce l´eravamo dimenticati, la professoressa Gelli ce lo ricorda: si ha qui a che fare con la materia prima dello stare al mondo, i primi barlumi di quella «dotazione di senso» senza la quale, a un certo punto della vita, ci si scopre incapaci di vivere - depressi, ansiosi, soli. Nientemeno che questo è, accanto a quello della famiglia ma spesso al suo posto, il compito enorme ed oscuro di un insegnante.
Esponente di quel famoso ceto medio «così a lungo» ricorda la professoressa, «guardato con diffidenza dalla sinistra, trascurato dai sindacati perché non abbastanza simbolico delle sue battaglie», ma che all´improvviso ha riempito movimenti e girotondi, e dimostrato di essere non solo «riflessivo», ma pure di sinistra. Proprio mentre le picconate della riforma Moratti si abbattono alla cieca sul suo mondo: «Almeno, ai tempi di Berlinguer venivamo informati di ogni passaggio della riforma, contro il 'concorsone´ si protestò con cognizione di causa. Oggi, perfino i dirigenti scolastici allargano le braccia: pare, sembra che, dicono...Si va avanti nell´incertezza assoluta. E nella solitudine. Meno male che i collegi di classe sono sempre luogo di rapporti preziosi, umani e professionali...».
Qualche certezza in realtà c´è - negativa. Per esempio, che di sicuro alla Redi-Granacci dal 2004-05 non ci sarà più il tempo prolungato, cioè un´infinità di attività in meno, compreso il «sostegno al disagio». Si chiama così: oltre all´handicap fisico e psichico, il disagio ormai comprende anche il male di vivere che colpisce un numero crescente di ragazzini «normali». Con famiglie allargate, e disorientanti, o mono-genitori, tante ore di solitudine in casa, tante di tv, troppi soldi a disposizione, e tanto più quanto meno ci sono affetti veri, un´autorevolezza esercitata sul serio. «E se a casa tutto questo manca, deve pur pensarci la scuola». Invece, come se vivesse altrove, «il ministero ha impostato il sostegno al disagio come un optional, che rischia di finire triturato dai tagli alle finanze».
E che dire dell´infinità di modelli educativi, con cui bisogna fare i conti? «Una volta si alzava la voce, e tutti capivano che era un rimprovero. Oggi c´è chi approva, chi si mette a piangere, chi non gliene importa niente, chi ti manda a quel paese». Perfino dei compiti in classe ne vanno proposti più d´uno, «perché tutti possano cimentarsi con le loro coordinate». E sembrano minimi, ma sono altri problemi: le parolacce, il cellulare, il tu all´insegnante... I sondaggi parlano di stuoli di prof impotenti che sognano di cambiare lavoro. «Invece, anche insegnare a controllare il modo di esprimersi, e che il tu è rispetto per gli altri, come il cellulare spento, tocca a noi».
E a proposito di dedizione: «Solo per preparare i compiti, e le lezioni, vanno via almeno un paio d´ore tutti i giorni». Mettici poi le riunioni, i consigli di classe, i programmi educativi per handicap e disagio, i colloqui con le famiglie: «Fanno un altro paio di ore alla settimana. Tutte aggiunte alle 18 dell´orario scolastico». Pagate quanto? «Lasciamo perdere...» ride la professoressa Gelli. C´è scritto sul contratto nazionale: «Con venti anni di anzianità, sono 1.250-1.300 euro al mese, netti». Senza nessun riconoscimento professionale, e nemmeno economico, dell´aggiornamento, della formazione: per questo, dicono, non ci sono mai i soldi. «Quando ci sono, i corsi sono offerti dai singoli istituti. Chi ci va se li paga di tasca sua, e in ogni caso le ore spese così non sono né remunerate, né riconosciute nel curriculum. Tanti ci vanno. Però, uno può anche entrare a scuola oggi e uscirne fra trent´anni senza mai aver fatto a un corso. Né, visti gli stipendi e non essendoci uno straccio di sconto-insegnanti da nessuna parte, aver mai letto un libro, mai visto un film o una mostra, mai fatto un viaggio». Eppure, si appassiona la professoressa Gelli, «quanti insegnanti straordinari ho incontrato! Preparati, colti, appassionati, dediti. Ma autocoltivati: perché tanto la scuola, intesa come istituzione, non chiede conto di niente». Ci aveva provato il 'concorsone´, ma sbagliando: «Non si può, senza averci mai aggiornato, pretendere all´improvviso di giudicarci». E però il principio era giusto. «A spulciare i bilanci delle scuole il ministero manda i revisori dei conti. E la didattica? Contano più i soldi, dei ragazzi?».
Conclusione: «Spiace dirlo, ma è vero: il metodo migliore per scegliere una scuola è il tam-tam fra le famiglie». E i piani di offerta formativa (Pof), che sembravano una rivoluzione? Le scuole pubbliche costrette a migliorare le prestazioni in concorrenza fra loro... «Un Pof non è alla portata di tutti». E però, attenzione: «Almeno nella scuola pubblica c´è controllo, le famiglie possono verificare, protestare, gli insegnanti farsi sentire. In quella privata, non c´è nessuna garanzia». Si rende conto la scuola pubblica della responsabilità che ha? «Mi chiedo: si è mai riflettuto su cosa significhi, non per una scuola, ma per una società intera, che un ragazzino difficile un bel giorno si faccia interrogare, invece di scappare dalla classe? Beh, io credo di no. Sennò non ci lascerebbero soli con lui. E quando fanno le riforme, verrebbero almeno a chiederci qualcosa...».