La normativa di riferimento   

 

Negli ultimi decenni si è assistito ad un processo di cambiamento culturale e giuridico del diritto minorile. Oggi si parla di “diritto per i minori” in quanto non disciplina più esclusivamente i doveri che il minore ha nei confronti della collettività o il comportamento che gli adulti devono avere nei suoi confronti, ma si basa sui bisogni e sulle esigenze di una personalità in formazione e prevede principi, istituti giuridici e strumenti operativi per assicurare la promozione e la tutela di un percorso educativo che aiuti il ragazzo a scegliere di vivere nella legalità.

 

     La comunità internazionale è stata la più sensibile nell’evidenziare che il minore ha dei diritti che gli ordinamenti interni devono non solo riconoscere, ma anche garantire e promuovere. Il primo tentativo di creare uno statuto dei diritti dei minori si è avuto nel 1924, quando la Società delle Nazioni ha approvato una “dichiarazione dei diritti del fanciullo” che, per la prima volta, enunciava se pur sommariamente alcuni diritti fondamentali. Di particolare importanza la Convenzione dei diritti del fanciullo ONU 1989, ratificata con la legge n. 176/1991, e la raccomandazione dell’assemblea dell’ONU concernente “le regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” approvata nel 1985 perché sanciscono alcuni principi fondamentali: definizione di una soglia minima di imputabilità, trattamento processuale e sanzionatorio diverso rispetto a quello dell’adulto e la  specializzazione dell’organo giudicante.

 

        Per quanto riguarda la legislazione interna la Costituzione italiana non ha specifiche norme di riferimento al sistema di giustizia minorile, ma l’art. 31 rappresenta una delle disposizioni fondamentali nel panorama normativo perché orienta la lettura delle altre norme costituzionali e funge da parametro per valutare la valenza di qualsiasi proposizione normativa pensata per i minori. L’art 31 impegna la Repubblica a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù. Proteggere il minore significa, secondo l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale, recuperare socialmente il minore. Davanti a tale esigenza la stessa pretesa punitiva dello stato deve arretrare, deve cedere il passo agli interventi educativi di recupero e reinserimento. Da ricordare, inoltre, l’art. 2 in quanto il minore è prima di tutto un essere umano titolare di diritti fondamentali e inviolabili; l’art. 3 che, letto alla luce del compito di protezione, sancisce il diritto del minore ad avere un trattamento diverso da quello dell’adulto in quanto soggetto ancora in formazione; l’art. 27 che attribuisce alla pena la funzione di rieducazione del reo e vieta che essa possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

 

 

    I principi affermati in sede internazionale e nella Carta Costituzionale sono alla base di importanti leggi italiane per il sistema penale minorile.

 

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Il regio decreto legge del 1934 n. 1404 istituisce presso ogni Corte d’Appello il Tribunale per i minori. La

    specializzazione dell’organo giudicante è necessaria perché, se la finalità è il recupero del minore, è necessario che l’attenzione si sposti dal fatto commesso alla personalità del ragazzo per individuare la risposta educativa più adeguata. Il Tribunale garantisce tale specializzazione attraverso una composizione mista in quanto i giudici togati sono affiancati da giudici onorari esperti in discipline quali la psicologia, l’antropologia, la pedagogia…per mediare tra le valutazioni tecnico-giuridiche e quelle socio-psicologiche. L’udienza preliminare è presieduta da tre giudici: un magistrato e due giudici onorari (un uomo e una donna), mentre il Tribunale è composto da due magistrati e due esperti (un uomo e una donna).

 

Al Tribunale sono state attribuite tre competenze:

 

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    la competenza amministrativa concerne gli interventi e le misure applicabili ai minori che diano manifeste prove di irregolarità della condotta e del carattere;

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    la competenza civile attiene gli interventi di protezione e tutela del minore, complessivamente disciplinati dal codice civile: ad esempio potestà, tutela, adozione, ecc;

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    la competenza penale attiene a tutti i procedimenti penali per i reati commessi dai minori degli anni 18 che sono di competenza dell’autorità giudiziaria.

 

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    La legge 354/1975 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulle esecuzione delle misure privative della libertà” e le successive modifiche apportate dalla legge “Gozzini” n. 663 del 1986 e dalla legge “Simeone” n. 165 del 1988. Non disponendo di un autonomo ordinamento penitenziario è necessario ricorrere alla normativa prevista per gli adulti, naturalmente adeguandola ai principi propri del sistema minorile.

 

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    Il d.p.r. 616/1977 trasferisce agli Enti Locali la competenza amministrativa e civile. In Sicilia è stato recepito con la legge n. 22/1986 in materia di riordino dei servizi sociali.

 

 

    Di fondamentale importanza è il D.P.R. 488/1988 “Disposizioni penali sul processo penale a carico di imputati minorenni” e il relativo D.lgs. di attuazione n. 272/1989.  Il legislatore che ha strutturato il rito penale minorile ha previsto una serie di istituti volti ad assicurare:

 

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   la non interruzione dei processi educativi in atto e il diritto del minore a ricevere un intervento individualizzato, multisciplinare e multisettoriale indispensabile per aiutare il ragazzo a costruire una personalità matura e significativa e vivere con maggiore consapevolezza l’iter penale;

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    l’utilizzazione residuale della pena detentiva perché la sola irrogazione ha uno scarso valore dissuasivo e all’interno della struttura carceraria il minore rafforza la sua identità deviante. Di fondamentale importanza rivestono le misure alternative alla detenzione che permettono al minore di scontare la pena detentiva fuori dall’I.P.M;

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    l’utilizzazione dello strumento processuale nell’ottica di una rapida uscita del minore dal circuito penale per ovviare agli effetti stigmatizzanti del processo. Nel rito minorile, infatti, l’udienza preliminare è il luogo di norma deputato alla definizione del processo, rimandando all’udienza dibattimentale le situazioni più complesse. Il GUP può scegliere tra diverse alternative tra cui:

 

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   la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto emessa dal GUP per assicurare al minore una rapida uscita dal processo, qualora ci siano i seguenti presupposti applicativi:

  1. la tenuità del fatto

  2. l’occasionalità del comportamento

  3. l pregiudizio per le esigenze educative del minore derivante dall’ulteriore corso del procedimento.

Un requisito non scritto, ma necessario, è l’accertamento della responsabilità del minore sulla base degli     elementi  di conoscenza sino al quel momento acquisiti dal giudice. Infatti, l’art. 32 richiede l’esplicito consenso del minore in modo che il giudice possa avere una “prova” su cui basare la propria decisione

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il perdono giudiziale (art. 169 c.p.) è un altro istituto che, pur implicando il riconoscimento della colpevolezza,

        non determina alcuna sanzione e fa sì che il minore esca rapidamente dal circuito penale. Può essere concesso

        quando il giudice ritiene di applicare concretamente una pena non superiore agli anni due e, sulla base degli

        accertamenti sulla personalità del minore, presume che questi si asterrà dal commettere ulteriori reati.

 

 

Il d.p.r. attribuisce notevole importanza alle misure cautelari che consistono in provvedimenti limitativi della libertà adottate durante il corso del procedimento qualora sussistono gravi indizi di colpevolezza e almeno una delle tre seguenti esigenze cautelari: pericolo di inquinamento delle prove, del pericolo di fuga dell’indagato o del rischio di recidivazione. Questi presupposti sono direttamente richiamati solo per la custodia preventiva, ma si considerano comunque imprescindibili per assicurare che la limitazione della libertà avvenga solo sulla base di determinati presupposti. Il giudice adotta la misura che contempera l’esigenza cautelare con le istanze di sviluppo del minore. Infatti, le misure cautelari hanno una valenza educativa: durante l’esecuzione della misura si ricerca la partecipazione attiva del ragazzo per stimolare la sua maturazione e il suo senso di responsabilità. In particolare le misure previste sono:

 

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Prescrizioni (art. 20): hanno una durata non superiore a due mesi e il giudice può rinnovare la misura solo una volta. Consistono nell’imposizione di obblighi inerenti lo studio, il lavoro e ogni altra attività utile (volontariato, attività sportiva, culturale…) al percorso educativo del minore. In caso di violazioni gravi e ripetute il giudice può disporre la misura immediatamente successiva.

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Permanenza in casa (art. 21): il minore ha l’obbligo di rimanere presso l’abitazione famigliare o in un altro luogo di dimora privata. Poiché il procedimento deve rappresentare un’occasione di risocializzazione il giudice, anche successivamente, può permettere al giovane di uscire per svolgere attività utili al suo percorso di crescita. Se il minore si allontana ingiustificatamente dall’abitazione e ripetutamente viola gli obblighi ulteriori imposti dal giudice, la permanenza può essere sostituita con la misura successiva.

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Collocamento in comunità (art. 22): il minore è collocato in una comunità pubblica o privata. Possono essere imposte prescorizioni per svolgere attività esterne utili al suo processo di crescita. Le violazioni gravi e ripetute di quest’ultime e l’allontanamento ingiustificato possono comportare l’applicazione della custodia cautelare che non può durare più di un mese. Alla scadenza il minore ritorna in comunità.

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Custodia cautelare (art. 24): è la misura più grave in quanto implica lo stato di detenzione del minore nell’istituto penale per minorenni. Tranne nel caso in cui tale misura è applicata in conseguenza della violazione del collocamento in comunità, essa può essere applicata solo quando si procede per delitti non colposi punibili con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a nove anni.

 

    L’introduzione dell’istituto giuridico della messa alla prova (art. 28) nel processo penale minorile, costituisce un’ innovazione volta ad assicurare un intervento educativo personalizzato. Il giudice, sentite le parti, può disporre la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne a seguito di un periodo di prova. Durante tale periodo il minore è “affidato” ai servizi minorili che, in collaborazione con i servizi degli Enti Locali, svolgono attività “di osservazione, trattamento e sostegno”. La messa alla prova è concessa tenendo conto delle potenzialità positive del minore che, se ulteriormente e adeguatamente stimolate, possono essere rafforzate e migliorate. Il progetto, elaborato dall’USSM in collaborazione con gli Enti Locali e concordato e condiviso con il minore, diviene lo strumento per aiutarlo a iniziare un nuovo percorso di vita che lo allontani dalla scelta deviante. Presupposti per la concessione dell’istituto sono l’accertamento della responsabilità e il consenso del minore affinché aderisca spontaneamente e consapevolmente al progetto. La durata massima varia in relazione alla gravità del reato. Alla fine della prova il giudice dovrà deciderne l’esito valutando sia i comportamenti del minore sia lo sviluppo della sua personalità. La prova ha quindi esito positivo, quando il minore ha avviato un vero e sincero percorso di cambiamento.

 

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