1984: Craxi, Berlusconi e i pretori

16 ottobre 1984: il resoconto degli accadimenti che cambieranno per sempre la televisione italiana, scritto magistralmente da Giuseppe Fiori, già biografo di Antonio Gramsci e capogruppo della sinistra indipendente nella commisione parlamentare di vigilanza RAI per tre legislature.

I Comunisti si prendono Raitre

Il decreto decadrà lunedì 4 febbraio: convertito in legge dai deputati il 31 gennaio, passa all'esame del Senato l'indomani venerdì 1° febbraio, data a rischio, ormai sull'orlo del termine di decadenza.

Stiamo per raccontare le tensioni d'un «lunedì nero», una brutta pagina nella storia del Senato. Ma prima d'arrivarci è utile completare il quadro dicendo anche d'una distinzione non trascurabile tra il gruppo comunista e il gruppo della Sinistra indipendente. Il motivo della diversità di linea? Agnes ha avuto un'idea, ripartire in quattro pezzi la terza rete (la più debole, anche perché la legge n. 193 del 1975 la vincola a «illu­minare» solo il 70 per cento del territorio nazionale): un pezzo ai repubblicani (il Dipartimento scuola ed educazione), uno assai polputo alla DC (l'informazione regionale, un esercito di giornalisti) e due al PCI (un nuovo tg nazionale e i programmi d'intrattenimento). L'eventualità - mai espressa pubblicamente - è considerata con grande interesse da alcuni comunisti autorevoli interni RAI e da Botteghe Oscure. Se ne coglie un riflesso nel dibattito alla Camera, dove il PCI attenua l'opposizione, che di lì a poco il senatore democristiano Nicola Lipari definirà «duttile» e il senatore socialista Roberto Spano «morbida».

Giudizi appropriati. In Senato, intervenendo a nome del suo gruppo, Maurizio Ferrara è esplicito: «Vorrei dire che, di fronte a questo decreto, la nostra opposizione non si è chiusa a riccio in modo pregiudiziale [...] Per la parte riguardante la RAI, il decreto in esame reca indubbiamente i segni di un confronto relativamente positivo. A questo proposito, come abbiamo già fatto nell'altro ramo del Parlamento, tengo a dire che, se il decreto si fosse limitato a questo ambito, probabilmente il nostro voto, che oggi è contrario, avrebbe anche potuto essere diverso».
In concreto una doppiezza: votare no, lasciar passare. Prospettiva che gli indipendenti di sinistra contrastano radicalmente. La fine della discriminazione anticomunista in rai e le assunzioni e carriere secondo merito e non per tessera - essi sostengono - dovranno essere rivendicate in tutte le reti e tg, non solo sul terzo canale, il meno seguito. In ogni caso - reclamano col senno del prima - farsi condizionare dalle convenienze in RAI è un abbaglio politico che avrà costi durevoli; non si può, in cambio d'una qualche direzione in terza rete, abbassare il livello di attacco a un decreto-legge che è doveroso combattere per un'esigenza vitale, la difesa della normalità democratica: esso infatti condona l'arroganza, l'abuso, la sfida alla legalità, legittima un monopolio privato, drenando pubblicità senza alcun limite, schiaccia le antenne locali rispettose delle leggi e persino mette in crisi l'editoria stampata. Oltretutto è incostituzionale; dirà lucidamente in aula il sen. Lipari, ordinario di diritto privato: «La costituzionalità delle norme aggiunte al secondo decreto-legge [norme rai, n.d.a.] non può di per sé neu­tralizzare la sicura illegittimità costituzionale della norma reiterata [norma Fininvest, n.d.a.]. La costituzionalità non si misura a peso. Se così fosse, si potrebbe arrivare all'assurdo di anne­gare in un mare di norme legittime anche la disciplina più ever­siva dei valori fondanti della nostra collettività».40

Si può impedirne la conversione in legge? Si può. Con l'ostruzionismo. Il termine di decadenza è così ravvicinato che basta niente per arrivarci. Il PCI non ci sta, scelta che indebolisce la Sinistra indipendente. Ma naturalmente non è questa leale e del tutto fisiologica differenziazione a connotare il «lunedì nero», qualificato da ben altri deplorevoli strappi. Eccezionale è la strozzatura del dibattito, oltre i limiti del grottesco. Craxi ha strappato alla presidenza del Senato - nell'interesse non della collettività né di una categoria ma di un singolo uomo d'affari, Silvio Berlusconi - una lettura del regolamento a tal misura forzata da alterare la regolarità dei lavori parlamentari. Un po' di cronaca.

L'opera buffa è in cinque atti. Nel primo, interno giorno, auletta della vili commissione permanente (Telecomunicazioni), terzo piano di Palazzo Carpegna, s'apre e termina il pomeriggio di venerdì 1° febbraio la discussione generale. Atto secondo: sabato 2 febbraio l'Assemblea è chiamata a pronunciarsi sui presupposti costituzionali; la votazione salta perché la Sinistra indipendente ha chiesto la verifica del numero legale, che manca. Inevitabile il rinvio; la conformità costituzionale è discussa e approvata lunedì 4 febbraio, di mattina.

Atto terzo: lunedì pomeriggio torna a riunirsi a Palazzo Carpegna la commissione Telecomunicazioni. Le restano da esaminare gli emendamenti (per ognuno illustrazione, dibattito, voto); deve quindi esprimersi sul complesso della legge con dichiarazioni di voto dei singoli gruppi. All'aprirsi del sipario, ore 15,05, cavatina del presidente Spano. Mogio, visibilmente contrariato, comunica che per questa serie di adempimenti (cui, in circostanze normali - di ordinaria serietà -, verrebbero dedicate almeno due sedute) il tempo concesso dalla presidenza del Senato è incresciosamente scorciato: in tutto venti minuti. I commissari si guardano increduli; anche rappresentanti della maggioranza gelosi d'un bene prezioso, la personale dignità, trovano inaccettabile lo sfregio dell'istituzione perché l'esige il tornaconto d'un privato cresciuto nell'illegalità. Allo sconcerto seguono proteste. Vane. Urge precipitarsi in aula; lì i lavori riprendono alle 15,30.

Continua

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I pretori

E' serrata!

Il 1° decreto Berlusconi

Craxi è impallinato

I comunisti si prendono Raitre

L'atto finale

Berlusconi vince

Conclusioni