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Può richiamare sensazioni racchiuse nei nostri ricordi

La fotografia come lente d’ingrandimento dei nostri passi

di Luigi Colavicenzo

Ultimamente riaffiora spesso nella mia mente la voglia di fotografare, di saper incorniciare istanti per renderli eterni, magari senza bellezza od utilità alcuna, solo per rinnovare il rapporto con il tempo.

I concetti di tempo e fotografia hanno per me una fortissima ed evidente interrelazione. Il fascino di ogni fotografia, il suo significato muta e cresce a misura che il tempo fluisce verso la sorgente eterna. Ciò che rende meravigliose le foto in bianco e nero a mio avviso non è tanto l’eliminazione della "distrazione" dei colori quanto l’artificiale creazione di una lontananza nel tempo, di una diversità dal contemporaneo esserci di una vita normale, quotidiana.

Se il tempo, questa cascata di momenti della vita di ogni uomo, è uno scorrere, un continuo evolversi, in perpetuo dinamismo, la fotografia allora, quale fattore statico, crea un meraviglioso ponte con zone di confine del nostro percorso, punti di una semiretta che, per il posto dato loro, guadagnano il crisma di una longevità nel riparo del supporto cartaceo. Se il guadagnare anni ci consente di comprendere la nostra vita trascorsa, la foto diviene allora la lente di ingrandimento o l’indice analitico dei nostri passi.

Il passato, quando urla, lo imbavaglio; ma come ogni prigioniero zittito non dalla propria volontà ma solo da un’arrendevole paura, esso continua spesso a farfugliare che solo ascoltandolo, prestandogli attenzione, con l’unica difesa della cautela, potrò decifrare l’enigmatico volto di un futuro che mi confonde. Le foto del mio essere passato sono incatenate sul fondo di un’ampia scatola e di mille altre più piccole, ma ugualmente idonee allo scopo, relegate dove è assurdamente difficile poterle raggiungerle: tutti gli stanzini dei ricordi, del resto, hanno mille scaffali, tutti immancabilmente disposti in modo da poter ritrovare prontamente solo ciò che si desidera ricordare. Non mi decido a liberarle, quelle foto di mia madre giovane, di me adolescente, di mia sorella piccola, di viaggi, vacanze e visi diversi perché più accesi...

Il fare fotografia comporta la scelta di ciò che immolare sugli altari del tempo e ciò che salvare...e ciò avviene quando il rapporto tra l’anima e l’altro-da-sé, la realtà, di cui l’obiettivo fotografico è diaframma, vibra, si accende, ci chiama. Penso che gran parte delle volte che nasce il bisogno o la voglia dell’eterno di una fotografia, sia perché un viso, un muro, un cielo, attraversandoci, hanno lasciato una traccia nella nostra parte più inconsapevole. Ed allora scattiamo, diamo il lasciapassare per un nuovo status, che sia anche solo quello di un cassetto in cui le foto finiscono a dormire ma mai a morire; esse si risvegliano solo quando abbiamo bisogno di un racconto di vita vera o a volte anche un po’ fantastica...

Può una foto raccontare una storia? La sua fissità sembrerebbe negarlo. Ed invece quelle immagini sembrano donne da corteggiare: devi cercarle, amarle, dedicarle del tempo e non del tempo qualunque. Allora succede un piccolo miracolo, si apre un piccolo spiraglio: degli occhi hanno una luce diversa, una mano che regge un oggetto ti parla di timidezza, un viso che non sa di essere visto discorre di sogni o preoccupazioni, un mobile povero ed antico ti dona la sensazione del vivere al suo cospetto. E si ha la più fascinosa e dolorosa percezione: la comprensione del nostro stato, la potenziale divaricazione che il nostro avvenire può avere rispetto all’idea che noi ne abbiamo nel presente.

Vorrei fare fotografia...per tanti confusi motivi: perché ho un cuore che sussulta per cose che fanno sorridere gli altri; perché se perdo il mio ieri mi sento un uomo senza storia; perché deve esserci un modo di dare voce al caos interiore; perché voglio capire; perché oggi c’è il sole e domani potrebbe non esserci; perché se non posso essere dovunque, vorrei che il dovunque fosse in me o in un cassetto in cui, a volte, rifugiarmi...

 

 

 

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