Gioventù da consumo

L’adolescenza è l’età delle incertezze, è il periodo in cui un bambino diventa ragazzo e comincia a domandarsi: “come posso far sapere al mondo della mia esistenza? Come posso farmi notare da chi mi sta vicino?”. La risposta della nostra, ormai consolidata, società del consumo, è netta: “Semplice, ragazzo, compra!”. I giovani, giunti al liceo, non possono che seguire questo semplice consiglio, e comprano; comprano vestiti, dischi, telefonini, motorino, libri, riviste, ma anche idee, opinioni, ideologie politiche. Non si possono condannare: stanno cercando la propria identità, certo, in prodotti di consumo, ma rispondono comunque a un richiamo istintivo, naturale, per quanto eccessivo. Il vero problema, anzi, l’epidemia della società italiana è la mancanza di una vera e propria “educazione al consumo”. Non dico nulla di nuovo, questo dato risulta persino da una indagine dell’Eures, secondo cui i genitori, invece di educare i propri figli a un consumo responsabile e rispettoso, cosciente del valore che comporta, preferiscono monitorare i loro consumi, autonomi, per assecondarli meglio. Ripeto, questo è un dato, non un’opinione. Eccoci dunque al cospetto di una generazione di giovani abituati a consumare, senza produrre, non necessariamente viziati, ma nutriti a ogni richiesta, in una società che nulla chiede in cambio se non il pagamento. A differenza di una credenza diffusa, non è vero che i giovani italiani siano immotivati, ciò che manca a molti di loro, però, è la nozione stessa di indipendenza. Mentre tutti i giovani americani lavorano part-time sin dal primo anno di scuola superiore (è una pratica diffusissima e molto in voga). Gli italiani sono così concentrati sul proprio progetto di studi universitari, di affermazione professionale o quant’altro, da non rendersi conto che indipendenza, è in primo luogo, indipendenza economica. Purtroppo molti studenti universitari se ne accorgono solo troppo tardi, quando spengono ventisette candeline su una torta e devono ancora chiedere i soldi per la festa ai genitori, poiché il loro impiego precario non concede di questi lussi. Il rischio è alto, per l’Italia e per gran parte dell’Europa, ed è quello di generare una massa di individui inerti, succubi di un sistema socio-politico ed economico che li illude ma poi li tradisce, opprimendoli con i suoi meccanismi fallaci ed incompleti. E la colpa? È comodo, e molto limitante, imputare il paese, il governo, le istituzioni che prediligono una forma di lavoro precario che spinge i giovani ad uno stato di incertezza perenne e fossilizza i progetti e i sogni. Vero, il precariato è un male difficile da curare e, specialmente in questo paese, un processo che sembra irreversibile. Tuttavia le cause più profonde e dolorose da ammettere, sono da rintracciare nell’educazione stessa dei giovani, specialmente nell’adolescenza, l’età in cui si comincia a consumare indipendentemente. Non ci rendiamo conto dell’enorme passo in avanti che comporterebbe la comprensione, soprattutto da parte dei genitori, del valore reale del consumo, non solamente della sua necessità. Un giovane cresciuto, pur in questo consumismo cupo, ma con quel carico di “no” in più alle sue richieste quali: “Me lo compri? Posso avere un po’ di soldi?” è più cosciente del mondo a cui va incontro, ha un’idea più limpida del concetto di “economia”, che non è una scienza fredda e distante, ma è l’arte di vivere responsabilmente.

Lucio C. Casellato