Come uccidere il Dialogo

(Un commento agli scritti di Marcello Pera e Joseph Ratzinger)
di Lucio C. Casellato

Persuasione, un termine che a prima vista non può che condurre il pensiero del lettore a un contesto lessicale comune, quotidiano, certamente non elevato, quasi materiale, eppure esso viene posto dall’ex-presidente del senato Marcello Pera allo stesso livello di un termine, al contrario, forte quanto delicato da nominare quale “evangelizzazione”. Come è possibile un simile accostamento? La frase di cui parlo è racchiusa nel libro in cui Marcello Pera e Joseph Ratzinger, con il pretesto di una corrispondenza epistolare vicendevole, delineano quale sia la terapia migliore da seguire contro il morbo, ormai cronicizzato, che essi hanno scovato come presente all’interno dell’organismo del paziente in esame, l’Occidente, ormai da tempo. Essendo stati i primi a scoprire la nuova forma virale, i due l’hanno battezzata con il nome di “Relativismo”, anche se il termine, in ambito filosofico, aveva avuto in passato connotazioni completamente diverse. “Il dialogo religioso allora può avere due fini: la comunicazione e comprensione reciproca dei credenti nelle varie fedi; la predicazione, diffusione, penetrazione del messaggio. […] La prima finalità non provoca particolari problemi se non culturali. Se perseguita, aiuta la convivenza, la tolleranza e il rispetto fra gli uomini di varie religioni e confessioni. Non così la seconda finalità, perché qui alla comunicazione si deve aggiungere la persuasione, alla comprensione l’evangelizzazione. Che rapporto c’è fra l’una e l’altra finalità?” Vorrei precisare che la scelta di stampare le due parole chiave in corsivo non è mia, ma dello stesso Pera, ciò giustifica completamente la tesi per cui questi termini sono volutamente messi in relazione. Premesso che, per rispondere alla domanda, non vi può essere alcun rapporto fra queste due ipotetiche finalità del dialogo (perché si annullano vicendevolmente), Pera continua il suo discorso dichiarando che l’unica finalità possibile per il dialogo, in ambito cattolico, è quella, appunto, della comunicazione ed espansione del messaggio evangelico, ergo della persuasione sopraindicata. Nell’avvalorare la correttezza del suo punto di vista ricorre a un’enciclica del concilio Vaticano II, ed è sicuramente questo il passaggio più spaventoso. L’enciclica in considerazione enuncia: “Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa.” Il timore più represso durante la lettura delle parole di Pera si rivela dunque vero: non è solo un punto di vista di un singolo, ma anche della Chiesa cattolica ufficiale. Pera tuttavia non si limita a dare una lettura personale su un postulato della Chiesa su cui sicuramente non tutti i cattolici la pensano allo stesso modo, ma va oltre, criticando la Chiesa stessa addirittura di essere fin troppo “politically correct” nel nascondere la vera faccia del dialogo dietro una maschera dettata dal relativismo. “Perché allora non si usa esplicitamente l’espressione “strumento di evangelizzazione”?” Ecco che il relativismo si è insinuato anche nelle strutture della Chiesa, nell’analisi di Pera, ma non è questo il punto da trattare.

Ciò che ho trovato incredibile è non tanto l’opinione di un esponente nostrano del movimento teo-con (sempre se così si possa etichettare Pera), quanto la posizione ufficiale del Vaticano su un tema essenziale per la sopravvivenza del dialogo interreligioso. Dopo aver letto ciò, nella seconda parte del libro mi sarei aspettato,da parte dell’allora cardinale Ratzinger, una risposta, se non alla provocazione, perlomeno al messaggio di Pera, che non ho trovato. Tanto più ora che è stato eletto Pontefice, la posizione della Chiesa è quanto mai ambigua. Mentre il cattolicesimo di papa Giovanni Paolo II aveva assunto i tratti di una esperienza avventurosa, fatta di ecumenismo, di esperienze collettive nelle piazze, di viaggi nei quali aveva lasciato intravedere uno spiraglio di comunicazione con le altre religioni (per quanto si possa criticare l’esiguità di questo contributo, o persino la sua esistenza), quello di Benedetto XVI, come da premessa, ha distrattamente incentivato la chiusura di quella finestra che è il dialogo. Non voglio in alcun modo insinuare che il papa sia intollerante, sarebbe falso, ma solamente ribadire che la posizione della Chiesa su questo argomento è di difficile comprensione. Infatti, se è vero che sia papa Wojtyla, sia l’attuale Ratzinger, si sono battuti e si battono per un progetto di Ecumenismo, ovvero di avvicinamento alle altre confessioni cristiane, d’altra parte bisogna ammettere, come testimonia la mancata presa di posizione di Ratzinger nel libro, una certa incertezza o, meglio, genericità del Vaticano nel parlare del dialogo interreligioso. Nella sezione in cui è lui, Ratzinger, a prendere in mano il discorso, non fa altro che annuire alle analisi e alle diagnosi di Pera, prendendone in considerazione, però, solo quelle meno attempate, quindi quelle che meno potrebbero esporre a critiche. Tutto preso dalla costruzione di una Chiesa di Stato, Ratzinger tralascia i temi più scottanti portati a galla da Pera, forse dimenticandosene, forse trascurandoli.

Torniamo però al punto, il dialogo. Perché è importante? Concorderanno anche i due autori di questo libello sull’importanza del dialogo nel mondo globalizzato. E d’altra parte non si può che convenire sul concetto esposto da Pera: “Almeno nel contesto religioso cristiano, il dialogo non può essere strumento di scoperta della verità, perché in tale funzione è sostituito dalla Rivelazione.” Il problema è l’atteggiamento adottato nel rapportarsi ad una religione diversa. È vero che essere cristiani in altri paesi, in particolar modo quelli islamici, vuol dire venir sottoposti a pressanti discriminazioni e, nel peggiore dei casi, a un processo che può condurre alla pena capitale. È vero che non tutte le religioni possiedono una nozione di “dialogo” inteso come ricerca di elementi e sentieri comuni per garantire una convivenza tollerante e rispettosa. È ancor più vero però, che è proprio nei paesi cristiani che sono nati concetti fondamentali per l’era moderna come tolleranza religiosa e dialogo interreligioso. Perché dunque rinunciare a questa marcia in più che noi, popolo occidentale, possediamo rispetto ad altre culture? Perché doverla persino demonizzare, considerandola un germe del relativismo, se possiamo usarla, ma solo con grande modestia intellettuale, per risolvere i problemi pratici che coinvolgano l’appartenenza religiosa? Il movente emerge limpidamente dallo scritto di Pera, ed è perché si auspica una nuova crociata, di portata culturale, contro chiunque non voglia riconoscere all’Occidente i suoi meriti. “La mia risposta è: sì, c’è una guerra, e credo che sia responsabile riconoscerlo e dirlo, anche se sembra politicamente corretto tacerlo.” Ecco che, ancora una volta, si va a cercare nemici ovunque. Pera si fa trasportare al tal punto dal suo spirito di crociata del nuovo millennio da non rendersi conto che la guerra esiste, è vero, ma è una guerra combattuta dai bambini irakeni rimasti sotto le macerie della propria casa, dalle studentesse liceali israeliane saltate in aria sull’autobus mentre andavano a scuola. Pretendere di avere il diritto, addirittura l’obbligo morale, di rispondere, in nome dell’Occidente intero, alle provocazioni dei terroristi, quindi accettando la loro guerra contro il mondo, è una facoltà di cui un politico come Pera non dispone, o perlomeno che io non mi sento moralmente disponibile a concedergli. Non credo in un Occidente zoppicante che per sorreggersi, per convincersi di possedere un ruolo determinante nel mondo, ha bisogno di creare sempre nuovi nemici. Oggi è il relativismo, domani avrà un nome diverso. “Si obbietterà infine: non si può a nostra volta combattere con le armi. Rispondo: spero sinceramente che non si debba, ma perché escluderlo? Se fosse una guerra e fosse giusta e di difesa, lo stesso cristianesimo non ammette forse una guerra giusta per difesa? Lo stesso cristianesimo non ne ha fatte di analoghe in altre epoche e anche di recente?” A questa ulteriore provocazione di Pera, rimango ancora una volta sbigottito dal silenzio di Ratzinger. Forse l’ex Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede si dimentica, o ignora, che scrivere un libro a due mani non significa necessariamente essere obbligati a non rispondere a provocazioni, o accuse, quando esse siano presenti dall’altra parte. Dobbiamo quindi supporre che Ratzinger sia d’accordo in tutto e per tutto con le tesi esposte da Pera? Preferisco non pensare nemmeno a questa possibilità.

Non nego che i musulmani, come detto sopra, siano, in proporzione alla società Occidentale, in maggioranza intolleranti. Non c’è dubbio. Per molti paesi musulmani essere cristiani è addirittura un reato punito con la pena capitale. Non è vero invece, ed è pericolosissimo pensarlo, che non esista un islam moderato, come vorrebbero farci credere una schiera di mass media. Auspicare, anche se indirettamente, un conflitto culturale, religioso, militare o di qualunque tipo, contro l’islam significa precisamente mettersi allo stesso livello dei manifestanti a favore di AlQuaeda che la televisione ci propone spesso. Forse è una minoranza, ma non sono pochi coloro che possono tranquillamente essere definiti non-fondamentalisti. E quindi, se viviamo in una cultura che vanta di non avere forme endemiche di fondamentalismo, di essere aperta al dialogo e tollerante, non vedo quale vantaggio si possa ricavare da una risposta aggressiva verso quei paesi che invece non conoscono questi strumenti di pace, che devono ancora scoprirli perché vivono una condizione storica diversa dalla nostra. Non parlo di terrorismo. La risposta al terrorismo mondiale deve essere netta ed efficace, e non come l’azione militare americana in Iraq che ha solo dato incentivi all’allargamento di AlQuaeda nel mondo. Sto parlando di confronti tra culture, e con questo atteggiamento di sfida, di confronto forzato, di prevaricazione a tutti i costi, non si fa altro che accogliere nella propria terra la guerra dichiarata dai terroristi, il cui unico scopo è creare scompiglio e caos su scala globale.

Rimane comunque il problema, inderogabile tra l’altro, dell’integrazione in Italia di extracomunitari. Su questo punto devo ammettere di trovarmi d’accordo su alcuni punti esposti da Pera: dobbiamo saper comunicare dei valori veri. Senza imposizioni, dobbiamo almeno rendere chiari e ben evidenti, a chi abbia voglia di integrarsi nella nostra società, quali siano i valori, o le convenienze, da condividere necessariamente. Non dobbiamo in alcun modo lasciare che il nostro paese ci venga tolto da sotto al naso. Gli italiani stessi stanno a poco a poco diventando una minoranza nel loro paese, è un dato statistico. La regolamentazione del flusso continuo di stranieri in Italia è un punto fondamentale perché possa sussistere una convivenza paritaria. Tuttavia l’unico rimedio pratico per questo problema, oltre all’innalzamento di ulteriori barriere doganali ai confini nazionali, può solo essere un cambiamento nel processo economico di settori con grande affluenza di manodopera extracomunitaria, quali l’edilizia e l’agricoltura, per fare un esempio. L’Italia, in questi settori in primo luogo, ma anche in molti altri, non si rende conto di essere quasi interamente dipendente dagli extracomunitari per la manodopera; quindi l’unica soluzione, ovvia, è renderli autosufficienti. In altre parole la spinta deve venire dagli italiani stessi, senza dover ricorrere a questo meccanismo di necessità morbosa che lega datore di lavoro a lavoratore straniero, che spessissimo lavora in nero. A parte questa brevissima parentesi economica, mettere in comune dei valori da condividere per i soggetti da integrare è un dovere sacrosanto, ancor di più è un vantaggio per gli stessi extracomunitari.

L’Occidente possiede valori, tra i più potenti e veri mai esistiti, e alcuni dei più importanti e rivoluzionari sono quelli di tolleranza e dialogo, non c’è alcuna utilità nel credere che questi due siano falsi, o svuotati di significato da vicende recenti. L’Occidente non è morto, è il prodotto più elaborato finora plasmato dalla storia, dichiarare che sia in via di decadenza terminale non fa che incentivare i processi di disfacimento della propria identità. Molte delle analisi raccolte nel libro esaminato, per l’appunto “Senza Radici”, sono veritiere, ma le conclusioni tratte sono controproducenti. Questo è vero perché se si vuole mettere in atto un processo di recupero dei valori, non si possono escludere quelli, quali tolleranza e dialogo, che oggi lo rendono grande, che lo rendono la porta aperta del mondo.