Atto Primo
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Tettoja tra la casa colonica e il magazzino, la stalla e il
palmento della zia Croce Azzara. In fondo, campagna con ceppi
dichidindia, mandorli e olivi saraceni. Sul lato destro, sotto la
tettoja, la porta della casa colonica, un rozzo sedile di pietra e
poi il forno monumentale. Sul lato sinistro, la porta del magazzino,
lanestra del palmento e un’altranestra ferrata. Anelli a muro per
legarvi le bestie. E di settembre, e si schiacciano le mandorle.
Su due panche ad angolo stanno sedute Tuzza, Mita, comare Gesa,
Càrmina la Moscardina, Luzza, Ciuzza e Nela. Schiacciano, picchiando
con una pietra la mandorla su un’altra pietra che tengono sul
ginocchio. Zio Simone le sorveglia, seduto su un grosso cofano
capovolto. La zia Croce va e viene. Per terra, sacchi, ceste, cofani
e gusciaglia. Al levarsi della tela le donne, schiacciando, cantano
la "Passione".
E Maria dietro le porte nel sentir le scuriate:
"Non gli date così forte,sono carni delicate!"
Zia Croce: (venendo dalla porta del
magazzino con una cesta di mandorle) Sù, sù, ragazze, siamo alle
ultime! Con l’ajuto di Dio, per quest’anno, abbiamo finito di
schiacciare.
Ciuzza: Qua a me, zia Croce!
Luzza: Dia qua!
Nela: Dia qua!
Zia Croce: Se vi sbrigate, farete a tempo per l’ultima messa.
Ciuzza: Eh sì! Che messa più!
Nela: Prima d’arrivare al paese...
Luzza: E poi il tempo per vestirci...
Gesa: Eh già, avete bisogno di pararvi per sentirvi la santa
messa?
Nela: Vorrebbe che andassimo in chiesa come alla stalla?
Ciuzza: Io, se posso, ci scappo anche così.
Zia Croce: Brave, perdete intanto altro tempo a chiacchierare!
Luzza: Su, cantiamo, cantiamo!
E ripigliano a battere e a cantare.
CORO: "A lui portami, Giovanni!"
"Camminar non puoi, Maria!"
Zio Simone: (interrompendo il coro) E
finitela una buona volta con questa "Passione"! State a rompermi la
testa da questa mattina. Schiacciate senza cantare!
Luzza: Oh! uso, sa lei, cantare mentre si schiaccia.
Nela: Che vecchio brontolone!
Gesa: Dovrebbe farsi coscienza del peccato che stiamo
commettendo per lei a lavorare la santa domenica.
Zio Simone: Per me? Per zia Croce, volete dire.
Zia Croce: Ah sì? Che faccia! Non mi dà requie da tre giorni
per queste mandorle che vuol vendere! Chi sa che cosa mi pareva gli
dovesse accadere, se non gliele davo subito schiacciate!
Zio Simone: (brontolando, ironico) Saranno la mia
ricchezza, difatti.
La Moscardina: Oh, zio Simone, si rammenti che ci ha promesso
di darci da bere, com’avremo finito.
Zia Croce: Promesso? patto! State tranquille.
Zio Simone: Ma no, che patto e patto, cugina! Per quattro
gusci, dite sul serio?
Zia Croce: Ah, vi tirate indietro? dopo che m’avete fatto
chiamar le donne a schiacciar di domenica? No no, cugino: queste
cose con me non si fanno.
Rivolgendosi a Mita:
Sù, Mita, corri, corri a prendere una bella
mezzina di vino per darla a bere qua alla salute e prosperità di tuo
marito!
Approvazioni e battimani delle donne, "sì, viva!
viva!"
Zio Simone: Grazie, cugina! Vedo che siete
davvero di buon cuore!
Zia Croce: (a Mita) Non ti muovi?
Mita: Eh, se non me lo comanda lui...
Zia Croce: Hai bisogno che te lo comandi lui? Non sei
padrona anche tu?
Mita: No, zia Croce, il padrone è lui.
Zio Simone: E vi so dire che se l’anno venturo ho un’altra
volta la tentazione di comprar frutto in erba, questi occhi -
guardate - me li faccio prima cavare!
Ciuzza: Pensa all’anno venturo, adesso!
Luzza: Come se non si sapesse le mandorle, come sono!
Nela: Cariche un anno, e l’altro no!
Zio Simone: Le mandorle, già! Come se fossero soltanto le
mandorle! Anche la vigna è tutta presa dal male! E andate a guardar
fuori: tutte le cimette degli olivi bruciolate, che fanno pietà!
La Moscardina: Vederlo piangere così, Dio bene detto, ricco
com’è! Ha stimato a occhio e ha sbagliato; pensi che, dopo tutto, il
suo danno è stato un beneficio per questa sua parente vedova, con la
nipote orfana; e ci faccia una croce!
Ciuzza: Danari che restano in famiglia...
Luzza: Se li vuol portare sotterra?
La Moscardina: Avesse figli... - Uh, m è scappata!
Si tura subito la bocca. Le altre donne restano
tutte come basite. Zio Simone le fulmina con gli occhi; poi,
scorgendo la moglie, scarica l’ira su lei.
Zio Simone: (a Mita) Và via, và via,
mangia-a-ufo! và via!
E come Mita, avvilita, non si muove, andandole
sopra, facendola alzare e strappandola e scrollandola:
Lo vedi, lo vedi a che servi tu? solo a farmi
beccare la faccia da tutti! Và via! Subito a casa, via! O per
Cristo, non so davvero che sproposito faccio, stamattina!
Mita va via dal fondo, mortificata, piangendo. Zio
Simone allunga un calcio al cofano su cui stava seduto ed entra nel
magazzino.
Zia Croce: (alla Moscardina) Benedetta
donna! Non sapete tenere a posto la lingua!
La Moscardina: Lo cava proprio di bocca!
Ciuzza: (con aria ingenua) Ma è forse vergogna per un
uomo non aver figliuoli?
Zia Croce: Zitta tu! Questi non son discorsi in cui possano
metter bocca le ragazze.
Nela: Segno che Dio non ha voluto dargliene.
Luzza: E perché allora se la piglia con la moglie?
Zia Croce: Oh insomma, la smettete? Andate, andate a
schiacciare!
Ciuzza: Abbiamo finito, zia Croce.
Zia Croce: E allora andate pei fatti vostri!
Le tre ragazze s’appartano in fondo, attorno a
Tuzza che non ha aperto bocca e se n’è stata tutta ingrugnata.
Cercano d’attaccar discorso con lei; ma Tuzza le respinge con una
spallata. Allora, prima l’una e poi l’altra, pian pianino
s’accostano ad ascoltare ciò che dicono di là tra loro la zia Croce,
comare Gesa e comare Càrmina e poi lo vanno a riferire alle altre
due che ne ridono, ammonendole con cenni di non farsi sentire.
Zia Croce: Ah care mie, m’ha fatto la testa
com’un pallone! L’ho qua, tutto il santo giorno; e sempre, dalla
mattina alla sera, con questa lima -
La Moscardina: - del figlio che non gli nasce? O come vuole
che gli nasca?
Gesa: Bastasse piangere per farlo nascere!
Zia Croce: No, piange - siamo giuste - piange per la roba;
tanta bella roba che, alla sua morte, andrebbe a finire in mano
d’altri. Non se ne sa dar pace!
La Moscardina: E lo lasci piangere, zia Croce! Finché lui
piange, lei ha motivo di ridere, mi pare!
Zia Croce: Dite per l’eredità? Non ci penso nemmeno, comare
mia! Siamo, di parenti, più di quanti capelli ho in capo.
La Moscardina: Ma sempre, o poco o molto, secondo il grado
della parentela, una parte ne toccherà anche a lei, no? - Me
ne duole per vostra nipote, zia Gesa, ma la legge è legge: se non ci
son figli, la roba del marito -
Gesa: - se la carichi in collo il diavolo, e lui con tutta la
sua roba! Volete che ne muoja, per questa roba, la mia nipote?
Povera anima di Dio, disgraziata da quand’è nata; lasciata in fasce
dalla madre e a tre anni orfana anche di padre! Me la son
cresciuta io, Dio sa come! Vorrei vedere se avesse almeno un
fratello! Non la tratterebbe così ve l’assicuro io! Per miracolo non
se la pesta sotto i piedi: avete veduto!
Si mette a piangere.
La Moscardina: vero, povera Mita! Chi
l’avrebbe detto, quattr’anni fa! Parve a tutti una fortuna questo
suo matrimonio con zio Simone Palumbo! Mah! "Sono belle le prugne
e le cerase" (se poi, manca il pane...).
Zia Croce: Ah no, piano! Vorreste dire che in fin dei conti
non è stata una fortuna per Mita? Lasciamo andare! Brava ragazza,
Mita, non nego; ma via, neppure in sogno avrebbe potuto aspettarsi
di divenir moglie di mio cugino!
Gesa: Vorrei sapere però, cara zia Croce, chi lo pregò suo
cugino di prendersi in moglie mia nipote. Io no davvero; e Mita
tanto meno.
Zia Croce: Lo sapete anche voi che la prima moglie di zio
Simone fu una vera signora -
La Moscardina: - e la pianse, bisogna dire la verità, la
pianse tanto, quando gli morì!
Gesa: Già! Per tutti i figli che seppe fargli!
Zia Croce: Che figli volete che gli facesse quella poverina!
Era così
mostra il mignolo
e teneva l’anima coi denti! Non potete negare che,
rimasto vedovo, partiti per riammogliarsi non gliene sarebbero
mancati! A cominciare da me, mia figlia, se me l’avesse
chiesta, gliel’avrei data. Non volle mettere al posto della morta
nessun’altra del nostro parentado e nemmeno del nostro paraggio.
Prese vostra nipote soltanto per averne un figlio, non per altro.
Gesa: Scusi, che intende dire con questo? Che manca forse per
mia nipote?
A questo punto Luzza, accostandosi per ascoltare,
nel voltarsi per far segno alle compagne, sbatte contro la zia Croce
che si volta e la spinge sulle furie contro quelle che gridano e
ridono.
Zia Croce: Càzzica, che ficchina! V’ho detto
di tenervi discoste, pettegole che non siete altro!
La Moscardina: (ripigliando il discorso) Bella,
prosperosa, Mita: una rosa veramente: vende salute!
Zia Croce: Questo non vorrebbe dire. Tante volte...
Gesa: Oh! dice sul serio, zia Croce? Ma li metta accanto,
santo Dio; e sfido chiunque a dire per chi possa mancare tra i due!
Zia Croce: Scusate, se strepita tanto per avere un figlio, è
segno, mi pare, che sa di poterlo avere. Si starebbe zitto,
altrimenti!
Gesa: Ringrazii Dio che mia nipote è onesta, e la prova
perciò non si può fare! Ma stia certa, zia Croce, che neppure una
santa del paradiso reggerebbe ai maltrattamenti di questo
vecchiaccio, ai raffacci che le fa davanti a tutti. Maria Vergine
stessa, vedendosi cimentata così, griderebbe: "Ah, tu vuoi davvero
un figlio da me? E tieni qua che te lo faccio!".
La Moscardina: Ah, non sia mai, Signore!
Gesa: (riprendendosi subito) Ma chi, mia nipote?
La Moscardina: Sarebbe un peccato mortale!
Gesa: Prima a terra la testa, che fare una cosa simile, la
mia nipote!
La Moscardina: Ragazza d’oro, se ce n’è, savia da piccola,
non offendendo i meriti di nessuno.
Zia Croce: Io non l’ho mai negato.
Ciuzza: (dal fondo, vedendo passare davanti la tettoja zia
Ninfa con Tinino, Calicchio e Pallino) Oh, ecco la zia Ninfa coi
tre cardelli di Liolà!
Luzza e Nela: (battendo le mani) La zia Ninfa!
La zia Ninfa!
Ciuzza: (chiamando) Tinino!
Tinino accorre e le salta in braccio.
Luzza: (chiamando) Calicchio!
Calicchio accorre e le salta in braccio.
Nela: (chiamando) Pallino!
Pallino accorre e le salta in braccio.
Zia Ninfa: Per carità, ragazze, lasciateli
stare! Mi hanno fatto girar la testa come un arcolajo. E vedete a
che ora mi son ridotta per andare a sentirmi la santa messa!
Ciuzza: (a Tinino) A chi vuoi bene tu?
Tinino: A te!
E la bacia.
Luzza: (a Calicchio) E tu, Calicchio?
Calicchio: A te!
E la bacia.
Nela: (a Pallino) Pallino, e tu?
Pallino: A te!
E la bacia.
La Moscardina: I figli del lupo nascono coi
denti!
Gesa: Povera zia Ninfa, mi sembra la chioccia coi pulcini!
Zia Ninfa: Tre poveri figliolucci innocenti, senza mamma...
La Moscardina: E ringrazii Dio che son tre! Col principio che
ha, di tenersi tutti quelli che le donne gli scodellano - sono tre?
- potrebbero esser trenta!
Zia Croce: (indicando con gli occhi le ragazze) Pino, oh,
comare!
La Moscardina: Non dico nulla di male. Si vede anzi ch’è di buon
cuore.
Zia Ninfa: Ne vuole una covata, dice; insegnare a tutti a
cantare; e poi, in gabbia, portarseli a vendere al paese.
Ciuzza: In gabbia, tu, Tinino, come un cardellino? E sai
cantare?
La Moscardina: (carezzando i capellucci di Pallino) Il
figlio di Rosa la Favarese?
Zia Ninfa: Chi, Pallino? Se vi dicessi che non lo so più
nemmeno io? Ma no, mi sembra Tinino il figlio di Rosa.
Ciuzza: No no, Tinino no! È figlio mio, Tinino!
Gesa: Sì! Staresti fresca, se fosse vero.
Zia Ninfa: (risentendosi) O perché?
La Moscardina: Moglie di Liolà?
Zia Ninfa: Non dovreste dirlo, comare Càrmina: che se c’è un
ragazzo amoroso e rispettoso, è mio figlio Liolà.
La Moscardina: Amoroso? E come! Cento ne vede e cento ne
vuole.
Zia Ninfa: Segno che ancora non ne ha trovata una –
e guarda con intenzione Tuzza
- quella che dev’essere. - Via, via, lasciatemene
andare, ragazze!
S’accosta a Tuzza.
Che hai, Tuzza, non ti senti bene?
La Moscardina: Ha il broncio da questa mattina, Tuzza.
Tuzza: (sgarbata) Non ho nulla, non ho nulla!
Zia Croce: La lasci stare, zia Ninfa: ha avuto la febbre
stanotte.
Gesa: Vengo con lei, zia Ninfa, se qua non c’è più altro da
fare.
La Moscardina: Ci arriverete per la messa delle signore, al
paese!
Zia Ninfa: Per carità, non mi parlate della messa delle
signore! Sapete che domenica scorsa non me la son potuta
vedere? Tentazione del diavolo. Gli occhi mi andarono ai ventagli
delle signore; mi misi a guardare quei ventagli e non potei più
vedermi la messa.
Ciuzza: Perché? Che vide in quei ventagli?
Luzza: Dica! Dica!
Zia Ninfa: Il diavolo, figliuole mie! Come se mi si fosse
seduto accanto per farmi notare come si facevano vento le signore.
State a vedere.
Siede e tutte le fanno cerchio.
Le signorine da marito, così:
Fa il gesto di scuotere fitto fitto il ventaglio,
e dice precipitosamente, accompagnando il gesto, impettita:
"L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!" Le
signore maritate, così:
Muove la mano con grave, placida soddisfazione:
"Io ce l’ho! io ce l’ho! io ce l’ho!" Mentre le
povere vedove:
Muove la mano con sconsolato abbandono, dal petto
al grembo:
"L’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più!
l’avevo e non l’ho più!"
Ridono tutte.
E avevo un bel farmi la santa croce, non riuscii a
scacciare quella tentazione.
CIUZZA, LUZZA e Nela: (a coro, facendosi
vento con le mani come se fossero ventaglini) Oh bella, sì!
L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!
La Moscardina: Ih, come sono contente, guardàtele!
A questo punto, da lontano, si ode la voce di
Liolà che ritorna col carretto dal paese, cantando.
Canto di Liolà:
Ventidue giorni e più che non ti vedo;
come un cagnolo alla catena abbajo...
Gesa: Oh, ecco Liolà che torna col carretto.
Ciuzza, Luzza e Nela: (correndo sul davanti
della tettoja coi bambini in braccio) Liolà! Liolà! Liolà!
E così gridando festosamente, con le mani gli
fanno cenno d’accostarsi.
Zia Ninfa: Giù, ragazze, giù a terra questi
bambini: se no, davvero non mi farà più arrivare alla messa quel
matto!
Liolà: (entrando, vestito da festa con un abito di velluto
verde, giacchetta a vita e calzoni a campana; in capo un berrettino
a barca, all’inglese, con due nastrini che gli pendono dietro)
Ih, le han già bell’e trovate le mamme questi ragazzi! Ma tre,
troppe!
Mettendo a terra prima Tinino, poi Calicchio e
infine Pallino:
E questo è LI, e questo è O, e Là
e tutt’e tre che fanno LIOLÀ:!
Mentre le ragazze ridono e battono le mani,
s’accosta alla madre.
E lei, come? ancora qua?
Zia Ninfa: No, ecco, vado, vado...
Liolà: Dove? Al paese, a quest’ora? Eh via! Non pensi più
alla messa per oggi. - Zia Croce, benedicite!
Zia Croce: Santo, e fatti in là, figlio!
Liolà: In là? E se mi volessi accostare?
Zia Croce: Prenderei il matterello e te lo sbatterei in
testa.
Ciuzza: (approvando) Per farne uscire il sangue pazzo,
sì sì!
Liolà: Ci avresti gusto tu, eh? ci avresti gusto se mi
facesse uscire dalla testa il sangue pazzo?
L’afferra per chiasso.
Luzza: e Nela: (afferrando lui per
difendere la compagna) Oh, giù le mani! giù le mani!
La Moscardina: Che matto! Lasciatelo, ragazze! Non vedete
come s’è parato?
Ciuzza: Uh già, di gala! Perché?
Luzza: Che galanteria!
Nela: Di dov’è sbarcato quest’Inglese?
Liolà: (pavoneggiandosi) Sono bello, sì o no? Mi
faccio sposo!
Ciuzza: Con quale diavola dell’inferno?
Liolà: Con te, bellezzina, non mi vuoi?
Ciuzza: Foco e pece, Signore, piuttosto!
Liolà: E allora con te, Luzza! Via, se per davvero ti
volessi...
Luzza: (impronta) Non ti vorrei io!
Liolà: Ah no?
Luzza: (pestando un piede) No.
Liolà: Fate le sdegnose perché sapete che non vi voglio,
nessuna delle tre: altrimenti, appena un soffio, soffia così, e
volereste! Ma che volete che me ne faccia di tre farfalline come
voi? Un pizzicotto, una spremutina; e sarebbero anche sprecati! Non
fate per me.
Regina di bellezza e di valore
dev’essere colei che avrà potere
di mettermi a catena mente e cuore.
Ciuzza, Luzza e Nela: (battendo le mani)
Evviva, evviva Liolà! Un’altra! Un’altra, Liolà!
Gesa: Le sfila come una corona!
La Moscardina: Un’altra, sù! Non ti far pregare!
Le ragazze: Sì sì, un’altra! un’altra!
Liolà: Eccomi qua! Non mi son mai fatto pregare!
Ai suoi tre cardelli, mettendoseli attorno:
Attenti, vojaltri.
Ho per cervello
un mulinello:
il vento soffia e me lo fa girare.
Con me, gira il mondo, e pare
gira e pare
gira e pare
gira e pare un carosello.
Intona un motivo di danza e gira intorno battendo
i piedi e le mani in cadenza, coi tre bambini che gli saltano
attorno; poi si ferma e riprende:
Oggi per te mi struggo, m’arrovellosembro uscito di cervello;ma
tu domani, cara comare,non m’aspettare,non m’aspettare.Ho per
cervello un frullo, un mulinello,il vento soffia e me lo fa girare.
Motivo di danza e balletto dei bambini c. s. Le
ragazze ridono e battono le mani; la zia Croce, invece, si mostra
seccata.
La Moscardina: E bravo! Così la vuoi trovare
la regina?
Liolà: E chi vi dice che non l’abbia già trovata, e che lei
non sappia perché rido e canto così? Fingere è virtù; e chi non sa
fingere non sa regnare.
Zia Croce: Basta, basta, ragazzi! Finiamola adesso, che ho
tanto qua da rassettare!
La Moscardina: E il patto, scusi, con zio Simone? Deve darci
da bere!
Zia Croce: Che bere più, scordàtevelo! Dopo quello che v’è
scappato di bocca!
La Moscardina: Oh quest è bella! Lo sai, Liolà, perché non
vuol più darci da bere, zio Simone? Perché gli ho detto che non ha
figli a cui lasciare l’eredità!
Ciuzza: Vedi un pò se questa è una ragione!
Liolà: Lasciate fare a me.
Va alla porta del magazzino e chiama:
Zio Simone! Zio Simone! Venga qua!
Ho una buona notizia per lei.
Zio Simone: (uscendo dal magazzino) Che vuoi, pezzo
d’imbroglione?
Liolà: Hanno messo una legge nuova, fatta apposta per noi.
Dico, per alleggerire le nostre popolazioni. Stia a sentire. Chi ha
una troja che gli fa venti porcellini, è ricco, non è vero? Se li
vende; e più porcellini gli fa, più ricco è. E così una vacca;
quanti più vitellini gli fa. Consideri ora un pover’uomo con queste
donne nostre che Dio liberi, appena uno le tocca, patiscono subito
di stomaco. È una rovina, no? Bene, il Governo ci ha pensato. Ha
messo la legge che i figli, d’ora in poi, si possono vendere. Si
possono vendere e comprare, zio Simone. E io, guardi, gli mostra i
tre bambini, posso aprir bottega. Vuole un figlio? Glielo vendo io.
Qua, questo.
Ne prende uno.
Guardi com’è bello in carne! Tosto! tosto! Pesa
venti chili! Tutta polpa! Prenda, prenda, lo soppesi! Glielo vendo
per niente: per un barile di vino cerasolo!
Le donne ridono, mentre il vecchio, urtato, si
schermisce.
Zio Simone: Vàttene, finiscila, ché non mi
piace scherzare su queste cose!
Liolà: Le pare ch’io scherzi? Le dico sul serio! Se lo
compri, se non ne ha; e finisca di star così, con le penne tutte
arruffate come un cappone malato!
Zio Simone: (sulle furie, tra le risate delle donne)
Lasciatemene andare, lasciatemene andare, se no, davvero, per
Cristo, non so più quello che faccio!
Liolà: (trattenendolo) Nossignore, stia qua, e non
s’offenda! Siamo tutti buoni vicini, una covata di zotici; una mano
lava l’altra! Io sono prolifico; lei, no...
Zio Simone: Ah, io no? Tu lo sai, è vero? Te lo vorrei far
vedere!
Liolà: (fingendosi spaventato) A me, far vedere? No,
Dio liberi! Vuol far vedere il miracolo?
Spingendogli avanti ora l’una ora l’altra delle
tre ragazze.
Si provi con questa, ecco! Con questa! O con
quest’altra!
Zia Croce: Ohé, ohé, ragazzi! dove siamo? Finiamola con
questo scherzo che non mi piace!
Liolà: Niente di male, zia Croce. Siamo in campagna: c’è chi
abita in sù, c’è chi abita in giù: zio Simone abita in giù:
vecchierello: flaccido, lasco: se gli dànno una ditata, gli resta il
segno.
Zio Simone: (avventandosi con la mano levata) Ah,
pezzo di catapezzo, aspetta che te lo lascio io il segno!
Liolà, di sfaglio, si schermisce, e zio Simone sta
per cadere.
Liolà: (sorreggendolo per il braccio) Eh eh,
zio Simone, beva vino ferrato!
Ciuzza, Luzza e Nela: Che cos'è, che cos'è il vino ferrato?
Liolà: Che cos’è? Si prende un pezzo di ferro, s’arroventa,
si ficca dentro un bicchiere di vino, e giù! Fa miracoli. -
Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spossessano.
Zio Simone: Mi dovrebbero anche spossessare?
Liolà: E come no? Anche questa legge possono mettere domani.
Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza
farci nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le
fa figli. - Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo;
la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A
chi l’ha dato quest’albero la terra? - A me! - Viene lei, e dice di
no, che è suo. - Perché suo? perché è sua la terra? - Ma la terra,
caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la
lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la
legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei
sarà buttato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il
seme, e là: sfronza l’albero!
Zio Simone: Eh, vedo che la sai lunga tu!
Liolà: Io? No. Non abbia paura di me, zio Simone. Non voglio
nulla io. Glielo lascio a lei di lambiccarsi il cervello per tutti i
suoi danari e d’andar con gli occhi di qua e di là come le serpi.
Io, questa notte, ho dormito al sereno; solo le stelle m’han fatto
riparo: il mio lettuccio, un palmo di terreno; il mio guanciale, un
cardoncello amaro. Angustie, fame, sete, crepacuore? non
m’importa di nulla: so cantare! canto e di gioja mi s’allarga il
cuore, è mia tutta la terra e tutto il mare. Voglio per tutti il
sole e la salute; voglio per me le ragazze leggiadre, teste di bimbi
bionde e ricciolute e una vecchietta qua come mia madre.
Abbraccia e bacia la madre, mentre le ragazze,
commosse, battono le mani; poi, voltandosi alla zia Croce:
Via, via, che altro c’è da fare, zia Croce?
Trasportare le mandorle schiacciate nel magazzino di zio Simone? -
Pronti! - Ragazze, avanti, sbrighiamoci, ché poi zio Simone ci darà
da bere!
Entra nel magazzino, poi, dalla porta si mette a
caricare sulle spalle delle donne i sacchi pieni di mandorle.
Sotto, a chi tocca! - Qua a te, Nela!
Via! Qua, Ciuzza! Via! - A te, Luzza! Via – Qua a voi,
Moscardina, coraggio! - A lei questo piccolino, zia Gesa! - E questo
ch’è il più grosso di tutti me lo carico io! - Sù, andiamo, ragazze!
Andiamo, zio Simone!
Zio Simone: (a zia Croce) Ritornerò più
tardi a portarvi i danari, cugina.
Zia Croce: Non vi date fretta, cugino: me li darete col
vostro comodo.
Liolà: (a zia Ninfa) Lei mi venga dietro coi bambini,
ché uno, è certo, glielo venderemo.
S’avvia con le donne e con zio Simone; quando
tutti sono usciti, torna indietro.
M’aspetti un pò, zia Croce; tornerò per dirle una
cosa.
Zia Croce: A me?
Tuzza scatta in piedi, rabbiosamente.
Liolà: (voltandosi a guardarla) O che
ti prende?
Zia Croce: (voltandosi anche lei a guardare la figlia)
Già. Che significa?
Liolà: Niente, zia Croce. Sarà stato un crampo. Non ci faccia
caso. Ritornerò di qui a poco.
Via per il fondo, col sacco in ispalla.
Tuzza: (subito, con rabbia) Badi che
non lo voglio! non lo voglio! non lo voglio!
Zia Croce: (restando) Non lo vuoi? Che dici?
Tuzza: Vedrà che verrà a chiederle la mia mano. Non lo
voglio!
Zia Croce: Sei pazza? E chi te lo vuol dare? - Ma dimmi un pò:
come può aver l’ardire, lui, di venire a chiedermi la tua mano?
Tuzza: Se le dico che non lo voglio! - Non lo voglio!
Zia Croce: Rispondi a me, scellerata: ti sei messa con lui? -
Ah, dunque è vero! - Dove? Quando?
Tuzza: Non gridi così, alla vista di tutti!
Zia Croce: Infame! Infame! Ti sei perduta?
Afferrandola per le braccia e guardandola negli
occhi.
Dimmi! Dimmi! - Vieni dentro! Vieni dentro!
Se la trascina in casa e chiude la porta. Si
sentono dall’interno pianti e grida. Intanto dalla casa colonica
lontana di zio Simone vengono canti e suoni di cembalo. Poco dopo
zia Croce viene fuori tutta sossopra, con le mani nei capelli e,
come una pazza, senza sapere ciò che fa, si mette a rassettare sotto
la tettoja farneticando.
Ah Dio, la santa domenica! la santa domenica! E
come si farà ora? Io l’ammazzo, io l’ammazzo. Tenétemi le mani,
Signore, l’ammazzo! Ha il coraggio di dire che sono io la colpa,
svergognata! io, perché m’ero messo in capo di darla in moglie a zio
Simone e perché - dice - l’avevo messo in capo anche a lei!
Rifacendosi davanti alla porta.
Ma quand’anche fosse vero, era una ragione questa
perché tu ti mettessi con quel laccio di forca?
Tuzza: (affacciandosi alla porta, tutta scarmigliata e
pesta, ma impronta e fiera) Sì, sì, sì.
Zia Croce: Stai dentro, faccia da galera! Non ti far vedere
da me in questo momento, o, com’è vero Dio...
Tuzza: Vuol lasciarmi parlare, sì o no?
Zia Croce: Guardate che faccia! Osa parlare! Osa parlare!
Tuzza: Prima: "Parla! parla!" - tacevo – e lei, pugni e
schiaffi; per farmi parlare; ora che voglio parlare...
Zia Croce: Che vuoi dirmi più? Non ti basta quello che mi hai
lasciato capire?
Tuzza: Le voglio dire perché mi son messa con Liolà.
Zia Croce: Perché? perché sei una svergognata, ecco perché!
Tuzza: No. Perché quando zio Simone, invece di prendersi me,
si prese quella santarella di Mita, io sapevo che questa santarella
faceva all’amore con Liolà.
Zia Croce: Ebbene? Che c’entrava più Liolà, dopo che Mita
s’era maritata con zio Simone?
Tuzza: C’entrava, perché, dopo quattr’anni dal matrimonio,
ancora le girava come una farfalla attorno al lume. Gliel’ho voluto
levare!
Zia Croce: Ah, per questo?
Tuzza: Sì, per questo! Quante cose doveva avere quella
morta di fame? Non bastava il marito ricco? Anche l’amante festoso?
Zia Croce: Stupida! Stupida! E non capisci che così hai fatto
il tuo danno soltanto? Ora non ti resta più che di maritarti -
Tuzza: (subito) - che? io, con quello? io, un marito che
sarebbe mio e di tutte? Fossi matta! Mi contento perduta. Ma sa
perché? Perché il mio danno ora posso rovesciarlo addosso a chi me
l’ha portato. Rovinata io, rovinata lei. Questo volevo dirle.
Zia Croce: E come? Oh Dio! Mi pare impazzita, mi pare!
Tuzza: Non sono pazza, no! Veda che zio Simone -
Zia Croce: - zio Simone? -
Tuzza: - non è da ora che mi dice d’esser tanto pentito di
non avermi preso in moglie in luogo di Mita.
Così dicendo, comincia a rilisciarsi i capelli e
rifarsi la pettinatura, mentre gli occhi le s’accendono di malizia.
Zia Croce: Lo so: l’ha detto anche a me. Ma
che forse tu...?
Tuzza: (fingendosi inorridita) No, che! io? con mio
zio?
Zia Croce: E allora? Che vuoi fare? Io non ti capisco!
Tuzza: Quanti parenti ha zio Simone? Più di quanti capelli
abbiamo in capo, non è vero? E le mostra i capelli che ora sta a
intrecciare. E figli, nessuno. Bene. Non poté essere prima; potrà
essere ora.
Zia Croce: (trasecolata) Vorresti dargli a intendere
che il figlio...?
Tuzza: No, non intendere! Non ce ne sarà bisogno. Mi butterò
ai suoi piedi; gli confesserò tutto.
Zia Croce: E poi?
Tuzza: E poi darà lui a intendere agli altri, e prima di
tutti alla moglie, che il figlio è suo. Gli basterà averlo così, pur
di prendersi questa soddisfazione.
Zia Croce: Tu sei il diavolo! Tu sei il diavolo!
Vuoi far credere a tutti...?
Tuzza: Persa per persa, ora che il male me lo son fatto con
quello...
Zia Croce: (subito, interrompendo) Via, via dentro, via
dentro: eccolo qua che viene con Liolà!
Tuzza, subito, dentro.
Ah, Madonna mia, come farò a reggere ora? come
farò?
Prende la scopa e si mette a scopare tutti i gusci
delle mandorle rimasti per terra, fingendosi in gran faccende.
Liolà: (entrando con zio Simone) Dia,
dia i danari a sua cugina, zio Simone, e se ne vada, perché ho da
parlare io, ora, a zia Croce.
Zia Croce: Tu? E chi sei tu, che comandi così a mio cugino
d’andarsene? Qua, per tua norma, mio cugino è come a casa sua.
Entrate, entrate, cugino: di là c’è Tuzza.
Zio Simone: Posso darli a lei i danari?
Zia Croce: Se volete; e se no, è lo stesso. Siete il padrone,
e potete fare tutto quello che vi piacerà. Entrate, e lasciatemi
sentire ciò che mi vuol dire questo matto.
Zio Simone: Non gli date retta, cugina: vi farà girar la
testa, come l’ha fatta girare a me. è matto davvero!
Entra nella casa colonica, e zia Croce ne richiude
la porta.
Liolà: (quasi tra sé) Eh sì: lo sto
vedendo...
Zia Croce: Che dici?
Liolà: Niente. Le volevo fare un discorsetto; ma che so! mi
pare... mi pare che non ce ne sia più bisogno. Lei dice che son
matto; zio Simone dice che son matto; e sto proprio vedendo che
avete ragione tutt’e due! Si figuri che gli volevo vendere un
figlio! Un figlio, a lui! Lo vuole gratis; e mi pare che abbia già
bell’e trovata la via, d’averlo gratis.
Zia Croce: Che dici? che stai farneticando?
Liolà: Ho visto sua figlia Tuzza springare un palmo da terra
appena le dissi che volevo tornare a parlarle...
Zia Croce: Me ne sono accorta anch’io. E con questo?
Liolà: Ora vedo che lei fa entrare in casa con tanti vezzi e
moìne zio Simone che se ne sta qua dalla mattina alla sera...
Zia Croce: Hai comandi da dare tu in casa mia, se zio Simone
entra, se esce?
Liolà: Nessun comando, zia Croce. Sono venuto soltanto per
fare il mio dovere. Non voglio che si dica che sia mancato per me.
Zia Croce: Quale sarebbe, sentiamo, questo tuo dovere?
Liolà: Ecco: glielo dico subito. Ma già lei lo sa. Non sono
uccello di gabbia, zia Croce. Uccello di volo, sono. Oggi qua,
domani là: al sole, all’acqua, al vento. Canto e m’ubriaco; e non so
se m’ubriachi più il canto o più il sole. Con tutto questo, eccomi
qua: mi taglio le ali e vengo a chiudermi in gabbia da me. Le
domando la mano di sua figlia Tuzza.
Zia Croce: Tu? Eh, vedo che proprio sei uscito di cervello.
Mia figlia? Vuoi ch’io dia mia figlia a uno come te?
Liolà: Dovrei ringraziarla, zia Croce, e baciarle la mano per
questa risposta. Ma badi che sua figlia me la deve dare: non per me;
per lei.
Zia Croce: Mia figlia? Guarda: piuttosto che darla a te, io
la mando alla forca. Hai capito? Alla forca. - O non ti basta, dì,
aver rovinato tre povere ragazze?
Liolà: Eh via, la smetta, zia Croce, che non ho mai rovinato
nessuno, io!
Zia Croce: Tre figli! Ti son nati soli? Tu sei come quelle
serpi che impastojano le vacche!
Liolà: Si stia zitta, ché lo sa bene come e da chi mi son
nati quei figli! Lo sanno tutti! - Ragazzotte di fuorivia. - Male è
forzare una porta ben guardata; ma chi va per una strada aperta e
battuta...Ognuno, anzi, le so dire, non si sarebbe fatto scrupolo di
buttar da un lato col piede ogni intoppo per queste strade. Io no.
Tre povere creaturine innocenti... Stanno con mia madre, e non
darebbero impiccio, zia Croce. Maschietti, quando cresceranno, lei
lo sa, per la campagna, quante più braccia c’è, più ricchi siamo.
Sono buon massajo: garzone, giornante; mieto, poto, falcio fieno; fo
di tutto e non mi confondo mai: sono, zia Croce, come un forno di
pasqua, e potrei mantenere tutto un paese.
Zia Croce: Bravo, ragazzo mio: vedi ora a chi devi andare a
tenerlo, codesto bel discorso: con me, non attacca.
Liolà: Zia Croce, non mi dica così. Badi che, infamità, come
non voglio farne io a nessuno, così non voglio che ne facciano gli
altri, servendosi di me! - Desidero che me lo dica sua figlia, in
presenza di zio Simone, che non mi vuole.
Zia Croce: Non ti vuole! Non ti vuole! Me l’ha detto lei
stessa, qua, or è poco! Detto e ripetuto. Non ti vuole!
Liolà: (tra sé, stringendosi il labbro con due dita)
Ah, dunque è vero?
Fa per lanciarsi alla porta: ma zia Croce lo
previene e gli si para davanti: restano un momento a guardarsi negli
occhi.
Zia Croce!
Zia Croce: Liolà!
Liolà: Voglio che me lo dica Tuzza, ha capito? Tuzza con la
sua bocca, e davanti a zio Simone!
Zia Croce: E dàlli! Non ha più nulla da dirti Tuzza. Te lo
sto dicendo io, e basta così! Vàttene, vàttene via, che sarà meglio
per te.
Liolà: Ah sì, per me, certo; ma non sarà meglio per un’altra:
lei m’intende! Badi che non le verrà fatta, zia Croce!
Le mette un braccio sotto il naso.
Annusi!
Zia Croce: Vàttene, che vuoi che annusi?
Liolà: Non ne sente l’odore?
Zia Croce: Sì, della malacarne che sei!
Liolà: No, del guastafeste che sono! Non perdo per una
mischiata mal fatta, io, se lo tenga bene in mente! - Per ora mi
prendo questa boccata di paglia, e la saluto.
Zia Croce: Sì, sì, bravo, tira via, tira via, e statti
lontano, lontano.
Liolà: (masticando tra i denti, ridacchiando e pigliandola
alla larga per passare davanti alla porta di Tuzza, canta e, dopo
ogni verso, sghignazza)
Ora com’ora, nessun ci fa caso (ah ah ah)
Rischi, se sali, di romperti il muso (ah ah ah)
E resterai con un palmo di naso.
(sghignazzata più lunga) A rivederla, zia Croce!
Via dal fondo.
Zia Croce resta sopra pensiero. Poco dopo, la
porta della casa colonica è aperta e ne vengono fuori zio Simone e
Tuzza: questa, disfatta dal pianto (finto o vero), quello, turbato e
costernato. Restano un pezzo in silenzio, perché zia Croce avrà
fatto loro, subito, cenno di tacere.
Zio Simone: (domandando piano) Che ha
detto? Che voleva?
Voce di Liolà: (in lontananza) E resterai con un palmo
di nasòòò...
Zio Simone: (a Tuzza) Ah! Con lui? Tuzza si nasconde
la faccia tra le mani. Ma... ma dimmi: lo sa?
Tuzza: (subito) No no, non sa nulla! Non lo sa
nessuno!
Zio Simone: Ah, bene. (A zia Croce) Solo a questo
patto, cugina: che non lo sappia nessuno! E il figlio - è mio!
Voce di Liolà: (da più lontano) E resterai con
un palmo di nasòòò...
TELA.
Analisi del testo:
Liolà
Struttura della commedia. Il testo è
articolato in tre brevi atti, le cui scene si svolgono nella
campagna di Agrigento, a settembre,durante i lavori della
schiacciatura delle mandorle prima e della vendemmia poi. Nell’atto
I si preannuncia il motivo intorno al quale ruota la commedia: la
mancanza di eredi per zio Simone, un uomo ricco che non sa a chi
lasciare i propri beni e ritiene la giovane seconda moglie, Mita,
colpevole di sterilità. L’assenza di figli innesca l’inganno di
Tuzza, nipote dello zio Simone, che, in attesa di un figlio da Liolà,
giovane allegro e spensierato, specie di mitico procreatore che
mette incinte le donne e poi si accolla la cura gioiosa dei figli,
dichiara, con l’assenso del vecchio, che il figlio che attende è
dello zio.
In quest’atto si presentano i
personaggi della commedia, tutti in scena. Nell’atto II prende corpo
un altro inganno: Liolà ingravida Mita, che ama da tempo e che non
sopporta di vedere angariata dal vecchio marito, il quale ora si
vanta di attendere un’erede della nipote Tuzza. L’inganno
moltiplicato è affidato a Liolà, il riproduttore, il cui compito è
quello di fertilizzare il mondo come il vento che trasporta i semi
di fiore in fiore, di terra in terra.
L’atto III vede il rovesciamento
della situazione: Tuzza viene messa da parte dallo zio Simone, che è
convinto di essere stato in grado a sessantanni di procreare con la
legittima moglie. Liolà si offre di prendere con sé il figlio di
Tuzza, ma la donna respinge con violenza la proposta e quasi si
sfiora la tragedia, quando la giovane si scaglia << contro Liolà con
un coltello in mano>>. Ma il finale tragico viene negato dallo
stesso Liolà che bloccando il braccio di Tuzza e premendo sulle sue
dita fa << cadere il coltello a terra, ride e rassicura tutti, che
non è stato nulla >>.
Personaggi. Domina tutta la
commedia il personaggio di Liolà che bene rappresenta la forza
vitale e procreatrice, il demiurgo fecondatore sempre in movimento,
ilare, circondato dai tre figlioletti che ha allevato nella gioia e
nel canto, aiutato dalla propria madre, zia Ninfa. Con i figli e la
madre Liolà ha creato una famiglia "allargata", nella quale le madri
naturali dei suoi figli sono assenti, in uno scenario in cui trionfa
la paternità, essendo la figura materna solo presente nella forma
"surrogata" della nonna. Ma Liolà anticipa anche un aspetto, per
così dire, da eroe ragionatore, tipico del successivo teatro
pirandelliano, quando convince Mita ad accettare il suo aiuto per
ingravidarsi, rivelando che l’aver nascosto di essere il padre del
figlio che Tuzza attende è stato un atto calcolato, un atto d’amore
per Mita che ora potrà vantarsi di poter dare un figlio al vecchio,
e presumibilmente sterile, marito.
Nella commedia non manca il coro,
costituito dai commenti, spesso malevoli e pettegoli, espressi dalle
donne che sono state conquistate dalla simpatia trascinante di Liolà.
Tra i personaggi femminili spiccano
Tuzza, vittima del suo stesso inganno e Mita, modesta fanciulla <<
contenta >> della sua << cosuccia >> e del suo << orticello >> che
passa dalla vergogna umiliante inflittale dal marito, che continua a
rinfacciarle la sua sterilità, all’orgoglio della propria maternità
"legittima". Entrambe le giovani acquistano importanza nella
vicenda, perdendo con la maternità il ruolo subalterno rispetto allo
zio Simone, e usano l’inganno.
PRESENTAZIONE
CRITICA DI LIOLA’
(R. ALONGE)
La critica
pirandelliana più attenta ha cominciato negli ultimi anni a
riportare Pirandello al grande alveo della più illustre drammaturgia
borghese di respiro europeo, quella che tra Ibsen e Strindberg porta
avanti uno scandaglio accanito sul nodo capitale del rapporto fra
maschio e femmina. In questa ottica un testo come Liolà, nonostante
la sua patina superficiale "dialettale", è importantissimo perché
fonda, sin dal 1916, agli inizi insomma della creatività
drammaturgia pirandelliana, uno dei miti portanti di tutta l’opera
teatrale del nostro autore. È il mito dell’uomo solo, in dura
opposizione alla donna, cui tenta di sottrarre continuamente
brandelli di spazio vitale. Si pensi all’immagine indimenticabile
del Leone Gala del Giuoco delle parti, filosofo accanito ma anche
cuoco insuperabile, tenace organizzatore della propria autonomia di
maschio autosufficiente, in guerra feroce, sino all’assassinio, con
la "grande nemica", con la propria ex moglie. Ebbene, Liolà anticipa
di due anni Il giuoco delle parti. Le donne del protagonista della
commedia campestre sono riduttivamente «ragazzette di fuorivia», da
usare sessualmente e da lasciare. Liolà porta più a fondo di tutti
la lotta contro la donna: la donna è espropriata non solo dello
spazio della cucina ma anche del suo ruolo naturale e storico di
allevatrice di figli. Liolà è uno straordinario ragazzo-padre che
contesta alle donne il diritto alla maternità. Se ne va in giro per
la campagna agrigentina trascinandosi dietro i suoi tre figli,
frutto della sua furia procreatrice, ed è pronto ad accogliere anche
il quarto, che sta per nascere da Tuzza. Che poi i tre figli siano
tutti e tre maschi la dice lunga sulla pulsione fallocratica e
maschilista del personaggio. Da notare infine che proprio questo
particolare della schiera dei tre figli e della condizione di
ragazzo. padre costituisce il punto di maggior innovazione rispetto
alla vicenda originariamente trattata nel Fu Mattia Pascal, a
conferma del fatto che Liolà è cosa assolutamente originale e
spontanea, al di là degli elementi di contatto con la matrice
narrativa.
Ma se il
protagonista autentico del teatro pirandelliano è l’uomo solo, il
palcoscenico risulta poi paradossalmente colmo di personaggi
femminili. Diciamo allora che tutte queste donne sono la proiezione
esterna di un occhio maschile, le immaginazioni fantasmatiche
dell’eroe maschio. E s’impone subito la visione tipica della donna
nell’universo pirandelliano, la schizofrenia fra una donna come
oggetto sessuale, elemento carnale, in qualche modo infernale, e una
donna portatrice di valori spirituali, che si riassume
essenzialmente nel profilo della madre, di una madre declinata
sempre come "santa", al di sopra dell’osceno commercio con il sesso.
Accanto a Liolà c’è infatti, non a caso, una madre vedova, privata
con ciò stesso di ogni funzione erotica, che non esiste se non nel
quadro della maternità: una donna soltanto madre di cui il figlio
può appropriarsi interamente, risolvendo così il proprio complesso
d’Edipo con l’eliminazione della sua causa.
La commedia è
stracolma di figure femminili (quasi solo figure femminili, se si
eccettuano i personaggi di Liolà e di zio Simone), ma tutte si
ridistribuiscono sotto le due grandi coordinate indicate. Comare
Gesa, zia di Mita, "raddoppia" zia Ninfa, la madre di Liolà (ha
allevato Mita nell’onestà e nel timore di Dio), ma zia Croce e sua
figlia Tuzza si collocano automaticamente sul versante delle donne
di malaffare. Dirà proprio comare Gesa: «E in galera anche quelle
due infamacce, madre e figlia! Sgualdrine!». L’originale in
agrigentino ribadiva l’ingiuria: «Cajordi! Cajordi!». E così pure la
Moscardina condannava «lu ‘ngannu di sti due’ cajordi, matri e
figlia» (nel testo in lingua la violenza lessicale si attenua:
«l’inganno di quelle due schifose, madre e figlia»). Tuzza in
particolare ha tratti infernali. Quando si accinge a esporre il suo
disegno di far passare zio Simone come padre del figlio nascituro,
«gli occhi le s’accendono di malizia». La stessa madre le dice: «Tu
sei il diavolo! Tu sei il diavolo!». Nel caso migliore la paragona a
Maria Maddalena, cioè a un’immagine di prostituta (per quanto
pentita).
La forza costrittiva di questa alternativa
antagonistica fra "donna buona" e "donna cattiva" è ribadita
paradossalmente dal personaggio di Mita che, pure, ha, in nuce,
la possibilità di unificare gli estremi , di rappresentare per Liolà
l’esempio di una vita riconciliata, di gettare un ponte fra il
disprezzo e la venerazione, fra il colpo e lo spirito, fra l’amore
fisico e l’amore spirituale, riuniti nella stima e nella tenerezza.
Mita non appartiene in teoria né alla categoria degli oggetti
sessuali (ha sempre rifiutato di cedere a Liolà, sia prima che dopo
il matrimonio con zio Simone, meritando così il rispetto di Liolà),
né alla categoria delle madri, elevate dalla loro maternità al rango
di "sante".
Fra Mita e Liolà avrebbe potuto
essere amore vero, autentico, "normale", ma ormai i giochi sono
fatti, e non è più possibile. Resta, al massimo, il tempo breve di
un sospiro di nostalgia.
Al di là dei rimpianti rimangono e
incombono le "funzioni", quella della madre e quella della donna di
piacere. Mita è personaggio "fuori di chiave" perché non riesce ad
essere né l’una né l’altra. Vorrebbe essere madre, ma come la
Vergine Maria, senza il peso dell’atto sessuale.
D’altra parte il sistema di
riferimento alla Vergine è costante in tutta la commedia, il primo
atto si apre proprio sull’invocazione a Maria. Le donne cantano la
Passione, ma con allusione al dramma della madre di Gesù. Ci sono
poi almeno una decina di casi in cui la Vergine è richiamata come
vocativo d’esclamazione ma anche non risultano dalla versione in
italiano perché l’invocazione registra un passaggio dal femminile al
maschile, dalla Vergine a Dio. ( R.Alonge )