Indietro

 

Liolà

Atto Primo    

Tettoja tra la casa colonica e il magazzino, la stalla e il palmento della zia Croce Azzara. In fondo, campagna con ceppi dichidindia, mandorli e olivi saraceni. Sul lato destro, sotto la tettoja, la porta della casa colonica, un rozzo sedile di pietra e poi il forno monumentale. Sul lato sinistro, la porta del magazzino, lanestra del palmento e un’altranestra ferrata. Anelli a muro per legarvi le bestie. E di settembre, e si schiacciano le mandorle.
Su due panche ad angolo stanno sedute Tuzza, Mita, comare Gesa, Càrmina la Moscardina, Luzza, Ciuzza e Nela. Schiacciano, picchiando con una pietra la mandorla su un’altra pietra che tengono sul ginocchio. Zio Simone le sorveglia, seduto su un grosso cofano capovolto. La zia Croce va e viene. Per terra, sacchi, ceste, cofani e gusciaglia. Al levarsi della tela le donne, schiacciando, cantano la "Passione".

E Maria dietro le porte nel sentir le scuriate:
"Non gli date così forte,sono carni delicate!"

Zia Croce: (venendo dalla porta del magazzino con una cesta di mandorle) Sù, sù, ragazze, siamo alle ultime! Con l’ajuto di Dio, per quest’anno, abbiamo finito di schiacciare.
Ciuzza: Qua a me, zia Croce!
Luzza: Dia qua!
Nela:
Dia qua!
Zia Croce: Se vi sbrigate, farete a tempo per l’ultima messa.
Ciuzza: Eh sì! Che messa più!
Nela: Prima d’arrivare al paese...
Luzza: E poi il tempo per vestirci...
Gesa: Eh già, avete bisogno di pararvi per sentirvi la santa messa?
Nela: Vorrebbe che andassimo in chiesa come alla stalla?
Ciuzza:
Io, se posso, ci scappo anche così.
Zia Croce: Brave, perdete intanto altro tempo a chiacchierare!
Luzza:
Su, cantiamo, cantiamo!

E ripigliano a battere e a cantare.

CORO: "A lui portami, Giovanni!"
                "Camminar non puoi, Maria!"

Zio Simone: (interrompendo il coro) E finitela una buona volta con questa "Passione"! State a rompermi la testa da questa mattina. Schiacciate senza cantare!
Luzza:
Oh! uso, sa lei, cantare mentre si schiaccia.
Nela: Che vecchio brontolone!
Gesa: Dovrebbe farsi coscienza del peccato che stiamo commettendo per lei a lavorare la santa domenica.
Zio Simone: Per me? Per zia Croce, volete dire.
Zia Croce: Ah sì? Che faccia! Non mi dà requie da tre giorni per queste mandorle che vuol vendere! Chi sa che cosa mi pareva gli dovesse accadere, se non gliele davo subito schiacciate!
Zio Simone: (brontolando, ironico) Saranno la mia ricchezza, difatti.
La Moscardina: Oh, zio Simone, si rammenti che ci ha promesso di darci da bere, com’avremo finito.
Zia Croce: Promesso? patto! State tranquille.
Zio Simone: Ma no, che patto e patto, cugina! Per quattro gusci, dite sul serio?
Zia Croce: Ah, vi tirate indietro? dopo che m’avete fatto chiamar le donne a schiacciar di domenica? No no, cugino: queste cose con me non si fanno.

Rivolgendosi a Mita:

Sù, Mita, corri, corri a prendere una bella mezzina di vino per darla a bere qua alla salute e prosperità di tuo marito!

Approvazioni e battimani delle donne, "sì, viva! viva!"

Zio Simone: Grazie, cugina! Vedo che siete davvero di buon cuore!
Zia Croce: (a Mita) Non ti muovi?
Mita:
Eh, se non me lo comanda lui...
Zia Croce: Hai bisogno che te lo comandi lui? Non sei padrona anche tu?
Mita: No, zia Croce, il padrone è lui.
Zio Simone: E vi so dire che se l’anno venturo ho un’altra volta la tentazione di comprar frutto in erba, questi occhi - guardate - me li faccio prima cavare!
Ciuzza: Pensa all’anno venturo, adesso!
Luzza: Come se non si sapesse le mandorle, come sono!
Nela: Cariche un anno, e l’altro no!
Zio Simone: Le mandorle, già! Come se fossero soltanto le mandorle! Anche la vigna è tutta presa dal male! E andate a guardar fuori: tutte le cimette degli olivi bruciolate, che fanno pietà!
La Moscardina: Vederlo piangere così, Dio bene detto, ricco com’è! Ha stimato a occhio e ha sbagliato; pensi che, dopo tutto, il suo danno è stato un beneficio per questa sua parente vedova, con la nipote orfana; e ci faccia una croce!
Ciuzza: Danari che restano in famiglia...
Luzza: Se li vuol portare sotterra?
La Moscardina:
Avesse figli... - Uh, m è scappata!

Si tura subito la bocca. Le altre donne restano tutte come basite. Zio Simone le fulmina con gli occhi; poi, scorgendo la moglie, scarica l’ira su lei.

Zio Simone: (a Mita) Và via, và via, mangia-a-ufo! và via!

E come Mita, avvilita, non si muove, andandole sopra, facendola alzare e strappandola e scrollandola:

Lo vedi, lo vedi a che servi tu? solo a farmi beccare la faccia da tutti! Và via! Subito a casa, via! O per Cristo, non so davvero che sproposito faccio, stamattina!

Mita va via dal fondo, mortificata, piangendo. Zio Simone allunga un calcio al cofano su cui stava seduto ed entra nel magazzino.

Zia Croce: (alla Moscardina) Benedetta donna! Non sapete tenere a posto la lingua!
La Moscardina: Lo cava proprio di bocca!
Ciuzza: (con aria ingenua) Ma è forse vergogna per un uomo non aver figliuoli?
Zia Croce:
Zitta tu! Questi non son discorsi in cui possano metter bocca le ragazze.
Nela: Segno che Dio non ha voluto dargliene.
Luzza: E perché allora se la piglia con la moglie?
Zia Croce: Oh insomma, la smettete? Andate, andate a schiacciare!
Ciuzza: Abbiamo finito, zia Croce.
Zia Croce: E allora andate pei fatti vostri!

Le tre ragazze s’appartano in fondo, attorno a Tuzza che non ha aperto bocca e se n’è stata tutta ingrugnata. Cercano d’attaccar discorso con lei; ma Tuzza le respinge con una spallata. Allora, prima l’una e poi l’altra, pian pianino s’accostano ad ascoltare ciò che dicono di là tra loro la zia Croce, comare Gesa e comare Càrmina e poi lo vanno a riferire alle altre due che ne ridono, ammonendole con cenni di non farsi sentire.

Zia Croce: Ah care mie, m’ha fatto la testa com’un pallone! L’ho qua, tutto il santo giorno; e sempre, dalla mattina alla sera, con questa lima -
La Moscardina: - del figlio che non gli nasce? O come vuole che gli nasca?
Gesa: Bastasse piangere per farlo nascere!
Zia Croce: No, piange - siamo giuste - piange per la roba; tanta bella roba che, alla sua morte, andrebbe a finire in mano d’altri. Non se ne sa dar pace!
La Moscardina: E lo lasci piangere, zia Croce! Finché lui piange, lei ha motivo di ridere, mi pare!
Zia Croce: Dite per l’eredità? Non ci penso nemmeno, comare mia! Siamo, di parenti, più di quanti capelli ho in capo.
La Moscardina: Ma sempre, o poco o molto, secondo il grado della parentela, una parte ne toccherà anche a lei, no? - Me ne duole per vostra nipote, zia Gesa, ma la legge è legge: se non ci son figli, la roba del marito -
Gesa: - se la carichi in collo il diavolo, e lui con tutta la sua roba! Volete che ne muoja, per questa roba, la mia nipote? Povera anima di Dio, disgraziata da quand’è nata; lasciata in fasce dalla madre e a tre anni orfana anche di padre! Me la son cresciuta io, Dio sa come! Vorrei vedere se avesse almeno un fratello! Non la tratterebbe così ve l’assicuro io! Per miracolo non se la pesta sotto i piedi: avete veduto!

Si mette a piangere.

La Moscardina: vero, povera Mita! Chi l’avrebbe detto, quattr’anni fa! Parve a tutti una fortuna questo suo matrimonio con zio Simone Palumbo! Mah! "Sono belle le prugne e le cerase" (se poi, manca il pane...).
Zia Croce: Ah no, piano! Vorreste dire che in fin dei conti non è stata una fortuna per Mita? Lasciamo andare! Brava ragazza, Mita, non nego; ma via, neppure in sogno avrebbe potuto aspettarsi di divenir moglie di mio cugino!
Gesa: Vorrei sapere però, cara zia Croce, chi lo pregò suo cugino di prendersi in moglie mia nipote. Io no davvero; e Mita tanto meno.
Zia Croce: Lo sapete anche voi che la prima moglie di zio Simone fu una vera signora -
La Moscardina: - e la pianse, bisogna dire la verità, la pianse tanto, quando gli morì!
Gesa: Già! Per tutti i figli che seppe fargli!
Zia Croce: Che figli volete che gli facesse quella poverina! Era così

mostra il mignolo

e teneva l’anima coi denti! Non potete negare che, rimasto vedovo, partiti per riammogliarsi non gliene sarebbero mancati! A cominciare da me, mia figlia, se me l’avesse chiesta, gliel’avrei data. Non volle mettere al posto della morta nessun’altra del nostro parentado e nemmeno del nostro paraggio. Prese vostra nipote soltanto per averne un figlio, non per altro.
Gesa: Scusi, che intende dire con questo? Che manca forse per mia nipote?

A questo punto Luzza, accostandosi per ascoltare, nel voltarsi per far segno alle compagne, sbatte contro la zia Croce che si volta e la spinge sulle furie contro quelle che gridano e ridono.

Zia Croce: Càzzica, che ficchina! V’ho detto di tenervi discoste, pettegole che non siete altro!
La Moscardina: (ripigliando il discorso) Bella, prosperosa, Mita: una rosa veramente: vende salute!
Zia Croce:
Questo non vorrebbe dire. Tante volte...
Gesa: Oh! dice sul serio, zia Croce? Ma li metta accanto, santo Dio; e sfido chiunque a dire per chi possa mancare tra i due!
Zia Croce: Scusate, se strepita tanto per avere un figlio, è segno, mi pare, che sa di poterlo avere. Si starebbe zitto, altrimenti!
Gesa: Ringrazii Dio che mia nipote è onesta, e la prova perciò non si può fare! Ma stia certa, zia Croce, che neppure una santa del paradiso reggerebbe ai maltrattamenti di questo vecchiaccio, ai raffacci che le fa davanti a tutti. Maria Vergine stessa, vedendosi cimentata così, griderebbe: "Ah, tu vuoi davvero un figlio da me? E tieni qua che te lo faccio!".
La Moscardina: Ah, non sia mai, Signore!
Gesa: (riprendendosi subito) Ma chi, mia nipote?
La Moscardina: Sarebbe un peccato mortale!
Gesa: Prima a terra la testa, che fare una cosa simile, la mia nipote!
La Moscardina: Ragazza d’oro, se ce n’è, savia da piccola, non offendendo i meriti di nessuno.
Zia Croce: Io non l’ho mai negato.
Ciuzza: (dal fondo, vedendo passare davanti la tettoja zia Ninfa con Tinino, Calicchio e Pallino) Oh, ecco la zia Ninfa coi tre cardelli di Liolà!
Luzza e Nela: (battendo le mani) La zia Ninfa! La zia Ninfa!
Ciuzza: (chiamando) Tinino!

Tinino accorre e le salta in braccio.

Luzza: (chiamando) Calicchio!

Calicchio accorre e le salta in braccio.

Nela: (chiamando) Pallino!

Pallino accorre e le salta in braccio.

Zia Ninfa: Per carità, ragazze, lasciateli stare! Mi hanno fatto girar la testa come un arcolajo. E vedete a che ora mi son ridotta per andare a sentirmi la santa messa!
Ciuzza: (a Tinino) A chi vuoi bene tu?
Tinino: A te
!

E la bacia.

Luzza: (a Calicchio) E tu, Calicchio?
Calicchio: A te!

E la bacia.

Nela: (a Pallino) Pallino, e tu?
Pallino: A te!

E la bacia.

La Moscardina: I figli del lupo nascono coi denti!
Gesa: Povera zia Ninfa, mi sembra la chioccia coi pulcini!
Zia Ninfa:
Tre poveri figliolucci innocenti, senza mamma...
La Moscardina: E ringrazii Dio che son tre! Col principio che ha, di tenersi tutti quelli che le donne gli scodellano - sono tre? - potrebbero esser trenta!
Zia Croce:
(indicando con gli occhi le ragazze) Pino, oh, comare!
La Moscardina:
Non dico nulla di male. Si vede anzi ch’è di buon cuore.
Zia Ninfa: Ne vuole una covata, dice; insegnare a tutti a cantare; e poi, in gabbia, portarseli a vendere al paese.
Ciuzza: In gabbia, tu, Tinino, come un cardellino? E sai cantare?
La Moscardina: (carezzando i capellucci di Pallino) Il figlio di Rosa la Favarese?
Zia Ninfa: Chi, Pallino? Se vi dicessi che non lo so più nemmeno io? Ma no, mi sembra Tinino il figlio di Rosa.
Ciuzza: No no, Tinino no! È figlio mio, Tinino!
Gesa: Sì! Staresti fresca, se fosse vero.
Zia Ninfa: (risentendosi) O perché?
La Moscardina: Moglie di Liolà?
Zia Ninfa: Non dovreste dirlo, comare Càrmina: che se c’è un ragazzo amoroso e rispettoso, è mio figlio Liolà.
La Moscardina: Amoroso? E come! Cento ne vede e cento ne vuole.
Zia Ninfa: Segno che ancora non ne ha trovata una –

e guarda con intenzione Tuzza

- quella che dev’essere. - Via, via, lasciatemene andare, ragazze!

S’accosta a Tuzza.

Che hai, Tuzza, non ti senti bene?
La Moscardina: Ha il broncio da questa mattina, Tuzza.
Tuzza: (sgarbata) Non ho nulla, non ho nulla!
Zia Croce: La lasci stare, zia Ninfa: ha avuto la febbre stanotte.
Gesa: Vengo con lei, zia Ninfa, se qua non c’è più altro da fare.
La Moscardina: Ci arriverete per la messa delle signore, al paese!
Zia Ninfa: Per carità, non mi parlate della messa delle signore! Sapete che domenica scorsa non me la son potuta vedere? Tentazione del diavolo. Gli occhi mi andarono ai ventagli delle signore; mi misi a guardare quei ventagli e non potei più vedermi la messa.
Ciuzza: Perché? Che vide in quei ventagli?
Luzza: Dica! Dica!
Zia Ninfa: Il diavolo, figliuole mie! Come se mi si fosse seduto accanto per farmi notare come si facevano vento le signore. State a vedere.

Siede e tutte le fanno cerchio.

Le signorine da marito, così:

Fa il gesto di scuotere fitto fitto il ventaglio, e dice precipitosamente, accompagnando il gesto, impettita:

"L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!" Le signore maritate, così:

Muove la mano con grave, placida soddisfazione:

"Io ce l’ho! io ce l’ho! io ce l’ho!" Mentre le povere vedove:

Muove la mano con sconsolato abbandono, dal petto al grembo:

"L’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più!"

Ridono tutte.

E avevo un bel farmi la santa croce, non riuscii a scacciare quella tentazione.
CIUZZA, LUZZA e Nela: (a coro, facendosi vento con le mani come se fossero ventaglini) Oh bella, sì! L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!
La Moscardina: Ih, come sono contente, guardàtele!

A questo punto, da lontano, si ode la voce di Liolà che ritorna col carretto dal paese, cantando.

Canto di Liolà:

Ventidue giorni e più che non ti vedo;
come un cagnolo alla catena abbajo...

Gesa: Oh, ecco Liolà che torna col carretto.
Ciuzza, Luzza e Nela: (correndo sul davanti della tettoja coi bambini in braccio) Liolà! Liolà! Liolà!

E così gridando festosamente, con le mani gli fanno cenno d’accostarsi.

Zia Ninfa: Giù, ragazze, giù a terra questi bambini: se no, davvero non mi farà più arrivare alla messa quel matto!
Liolà: (entrando, vestito da festa con un abito di velluto verde, giacchetta a vita e calzoni a campana; in capo un berrettino a barca, all’inglese, con due nastrini che gli pendono dietro) Ih, le han già bell’e trovate le mamme questi ragazzi! Ma tre, troppe!

Mettendo a terra prima Tinino, poi Calicchio e infine Pallino:

E questo è LI, e questo è O, e Là
e tutt’e tre che fanno LIOLÀ:!

Mentre le ragazze ridono e battono le mani, s’accosta alla madre.

E lei, come? ancora qua?
Zia Ninfa: No, ecco, vado, vado...
Liolà: Dove? Al paese, a quest’ora? Eh via! Non pensi più alla messa per oggi. - Zia Croce, benedicite!
Zia Croce: Santo, e fatti in là, figlio!
Liolà: In là? E se mi volessi accostare?
Zia Croce: Prenderei il matterello e te lo sbatterei in testa.
Ciuzza: (approvando) Per farne uscire il sangue pazzo, sì sì!
Liolà: Ci avresti gusto tu, eh? ci avresti gusto se mi facesse uscire dalla testa il sangue pazzo?

L’afferra per chiasso.

Luzza: e Nela: (afferrando lui per difendere la compagna) Oh, giù le mani! giù le mani!
La Moscardina: Che matto! Lasciatelo, ragazze! Non vedete come s’è parato?
Ciuzza: Uh già, di gala! Perché?
Luzza: Che galanteria!
Nela: Di dov’è sbarcato quest’Inglese?
Liolà: (pavoneggiandosi) Sono bello, sì o no? Mi faccio sposo!
Ciuzza:
Con quale diavola dell’inferno?
Liolà: Con te, bellezzina, non mi vuoi?
Ciuzza: Foco e pece, Signore, piuttosto!
Liolà: E allora con te, Luzza! Via, se per davvero ti volessi...
Luzza: (impronta) Non ti vorrei io!
Liolà: Ah no?
Luzza:
(pestando un piede) No.
Liolà: Fate le sdegnose perché sapete che non vi voglio, nessuna delle tre: altrimenti, appena un soffio, soffia così, e volereste! Ma che volete che me ne faccia di tre farfalline come voi? Un pizzicotto, una spremutina; e sarebbero anche sprecati! Non fate per me.
Regina di bellezza e di valore
dev’essere colei che avrà potere
di mettermi a catena mente e cuore.
Ciuzza, Luzza e Nela: (battendo le mani) Evviva, evviva Liolà! Un’altra! Un’altra, Liolà!
Gesa: Le sfila come una corona!
La Moscardina: Un’altra, sù! Non ti far pregare!
Le ragazze: Sì sì, un’altra! un’altra!
Liolà: Eccomi qua! Non mi son mai fatto pregare!

Ai suoi tre cardelli, mettendoseli attorno:

Attenti, vojaltri.
Ho per cervello
un mulinello:

il vento soffia e me lo fa girare.
Con me, gira il mondo, e pare

gira e pare
gira e pare

gira e pare un carosello.

Intona un motivo di danza e gira intorno battendo i piedi e le mani in cadenza, coi tre bambini che gli saltano attorno; poi si ferma e riprende:

Oggi per te mi struggo, m’arrovellosembro uscito di cervello;ma tu domani, cara comare,non m’aspettare,non m’aspettare.Ho per cervello un frullo, un mulinello,il vento soffia e me lo fa girare.

Motivo di danza e balletto dei bambini c. s. Le ragazze ridono e battono le mani; la zia Croce, invece, si mostra seccata.

La Moscardina: E bravo! Così la vuoi trovare la regina?
Liolà: E chi vi dice che non l’abbia già trovata, e che lei non sappia perché rido e canto così? Fingere è virtù; e chi non sa fingere non sa regnare.
Zia Croce: Basta, basta, ragazzi! Finiamola adesso, che ho tanto qua da rassettare!
La Moscardina: E il patto, scusi, con zio Simone? Deve darci da bere!
Zia Croce: Che bere più, scordàtevelo! Dopo quello che v’è scappato di bocca!
La Moscardina: Oh quest è bella! Lo sai, Liolà, perché non vuol più darci da bere, zio Simone? Perché gli ho detto che non ha figli a cui lasciare l’eredità!
Ciuzza:
Vedi un pò se questa è una ragione!
Liolà: Lasciate fare a me.

Va alla porta del magazzino e chiama:

Zio Simone! Zio Simone! Venga qua! Ho una buona notizia per lei.
Zio Simone: (uscendo dal magazzino) Che vuoi, pezzo d’imbroglione?
Liolà: Hanno messo una legge nuova, fatta apposta per noi. Dico, per alleggerire le nostre popolazioni. Stia a sentire. Chi ha una troja che gli fa venti porcellini, è ricco, non è vero? Se li vende; e più porcellini gli fa, più ricco è. E così una vacca; quanti più vitellini gli fa. Consideri ora un pover’uomo con queste donne nostre che Dio liberi, appena uno le tocca, patiscono subito di stomaco. È una rovina, no? Bene, il Governo ci ha pensato. Ha messo la legge che i figli, d’ora in poi, si possono vendere. Si possono vendere e comprare, zio Simone. E io, guardi, gli mostra i tre bambini, posso aprir bottega. Vuole un figlio? Glielo vendo io. Qua, questo.

Ne prende uno.

Guardi com’è bello in carne! Tosto! tosto! Pesa venti chili! Tutta polpa! Prenda, prenda, lo soppesi! Glielo vendo per niente: per un barile di vino cerasolo!

Le donne ridono, mentre il vecchio, urtato, si schermisce.

Zio Simone: Vàttene, finiscila, ché non mi piace scherzare su queste cose!
Liolà: Le pare ch’io scherzi? Le dico sul serio! Se lo compri, se non ne ha; e finisca di star così, con le penne tutte arruffate come un cappone malato!
Zio Simone: (sulle furie, tra le risate delle donne) Lasciatemene andare, lasciatemene andare, se no, davvero, per Cristo, non so più quello che faccio!
Liolà: (trattenendolo) Nossignore, stia qua, e non s’offenda! Siamo tutti buoni vicini, una covata di zotici; una mano lava l’altra! Io sono prolifico; lei, no...
Zio Simone: Ah, io no? Tu lo sai, è vero? Te lo vorrei far vedere!
Liolà: (fingendosi spaventato) A me, far vedere? No, Dio liberi! Vuol far vedere il miracolo?

Spingendogli avanti ora l’una ora l’altra delle tre ragazze.

Si provi con questa, ecco! Con questa! O con quest’altra!
Zia Croce: Ohé, ohé, ragazzi! dove siamo? Finiamola con questo scherzo che non mi piace!
Liolà: Niente di male, zia Croce. Siamo in campagna: c’è chi abita in sù, c’è chi abita in giù: zio Simone abita in giù: vecchierello: flaccido, lasco: se gli dànno una ditata, gli resta il segno.
Zio Simone: (avventandosi con la mano levata) Ah, pezzo di catapezzo, aspetta che te lo lascio io il segno
!

Liolà, di sfaglio, si schermisce, e zio Simone sta per cadere.

Liolà: (sorreggendolo per il braccio) Eh eh, zio Simone, beva vino ferrato!
Ciuzza, Luzza e Nela:
Che cos'è, che cos'è il vino ferrato?
Liolà: Che cos’è? Si prende un pezzo di ferro, s’arroventa, si ficca dentro un bicchiere di vino, e giù! Fa miracoli. - Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spossessano.
Zio Simone: Mi dovrebbero anche spossessare?
Liolà: E come no? Anche questa legge possono mettere domani. Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le fa figli. - Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A chi l’ha dato quest’albero la terra? - A me! - Viene lei, e dice di no, che è suo. - Perché suo? perché è sua la terra? - Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei sarà buttato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il seme, e là: sfronza l’albero!
Zio Simone: Eh, vedo che la sai lunga tu!
Liolà: Io? No. Non abbia paura di me, zio Simone. Non voglio nulla io. Glielo lascio a lei di lambiccarsi il cervello per tutti i suoi danari e d’andar con gli occhi di qua e di là come le serpi. Io, questa notte, ho dormito al sereno; solo le stelle m’han fatto riparo: il mio lettuccio, un palmo di terreno; il mio guanciale, un cardoncello amaro. Angustie, fame, sete, crepacuore? non m’importa di nulla: so cantare! canto e di gioja mi s’allarga il cuore, è mia tutta la terra e tutto il mare. Voglio per tutti il sole e la salute; voglio per me le ragazze leggiadre, teste di bimbi bionde e ricciolute e una vecchietta qua come mia madre.

Abbraccia e bacia la madre, mentre le ragazze, commosse, battono le mani; poi, voltandosi alla zia Croce:

Via, via, che altro c’è da fare, zia Croce? Trasportare le mandorle schiacciate nel magazzino di zio Simone? - Pronti! - Ragazze, avanti, sbrighiamoci, ché poi zio Simone ci darà da bere!

Entra nel magazzino, poi, dalla porta si mette a caricare sulle spalle delle donne i sacchi pieni di mandorle.

Sotto, a chi tocca! - Qua a te, Nela! Via! Qua, Ciuzza! Via! - A te, Luzza! Via – Qua a voi, Moscardina, coraggio! - A lei questo piccolino, zia Gesa! - E questo ch’è il più grosso di tutti me lo carico io! - Sù, andiamo, ragazze! Andiamo, zio Simone!

Zio Simone: (a zia Croce) Ritornerò più tardi a portarvi i danari, cugina.
Zia Croce: Non vi date fretta, cugino: me li darete col vostro comodo.
Liolà: (a zia Ninfa) Lei mi venga dietro coi bambini, ché uno, è certo, glielo venderemo.

S’avvia con le donne e con zio Simone; quando tutti sono usciti, torna indietro.

M’aspetti un pò, zia Croce; tornerò per dirle una cosa.
Zia Croce: A me?

Tuzza scatta in piedi, rabbiosamente.

Liolà: (voltandosi a guardarla) O che ti prende?
Zia Croce: (voltandosi anche lei a guardare la figlia) Già. Che significa?
Liolà: Niente, zia Croce. Sarà stato un crampo. Non ci faccia caso. Ritornerò di qui a poco.

Via per il fondo, col sacco in ispalla.

Tuzza: (subito, con rabbia) Badi che non lo voglio! non lo voglio! non lo voglio!
Zia Croce: (restando) Non lo vuoi? Che dici?
Tuzza: Vedrà che verrà a chiederle la mia mano. Non lo voglio!
Zia Croce: Sei pazza? E chi te lo vuol dare? - Ma dimmi un pò: come può aver l’ardire, lui, di venire a chiedermi la tua mano?
Tuzza: Se le dico che non lo voglio! - Non lo voglio!
Zia Croce:
Rispondi a me, scellerata: ti sei messa con lui? - Ah, dunque è vero! - Dove? Quando?
Tuzza: Non gridi così, alla vista di tutti!
Zia Croce: Infame! Infame! Ti sei perduta?

Afferrandola per le braccia e guardandola negli occhi.

Dimmi! Dimmi! - Vieni dentro! Vieni dentro!

Se la trascina in casa e chiude la porta. Si sentono dall’interno pianti e grida. Intanto dalla casa colonica lontana di zio Simone vengono canti e suoni di cembalo. Poco dopo zia Croce viene fuori tutta sossopra, con le mani nei capelli e, come una pazza, senza sapere ciò che fa, si mette a rassettare sotto la tettoja farneticando.

Ah Dio, la santa domenica! la santa domenica! E come si farà ora? Io l’ammazzo, io l’ammazzo. Tenétemi le mani, Signore, l’ammazzo! Ha il coraggio di dire che sono io la colpa, svergognata! io, perché m’ero messo in capo di darla in moglie a zio Simone e perché - dice - l’avevo messo in capo anche a lei!

Rifacendosi davanti alla porta.

Ma quand’anche fosse vero, era una ragione questa perché tu ti mettessi con quel laccio di forca?
Tuzza: (affacciandosi alla porta, tutta scarmigliata e pesta, ma impronta e fiera) Sì, sì, sì.
Zia Croce: Stai dentro, faccia da galera! Non ti far vedere da me in questo momento, o, com’è vero Dio...
Tuzza: Vuol lasciarmi parlare, sì o no?
Zia Croce: Guardate che faccia! Osa parlare! Osa parlare!
Tuzza: Prima:
"Parla! parla!" - tacevo – e lei, pugni e schiaffi; per farmi parlare; ora che voglio parlare...
Zia Croce: Che vuoi dirmi più? Non ti basta quello che mi hai lasciato capire?
Tuzza: Le voglio dire perché mi son messa con Liolà.
Zia Croce: Perché? perché sei una svergognata, ecco perché!
Tuzza: No. Perché quando zio Simone, invece di prendersi me, si prese quella santarella di Mita, io sapevo che questa santarella faceva all’amore con Liolà.
Zia Croce: Ebbene? Che c’entrava più Liolà, dopo che Mita s’era maritata con zio Simone?
Tuzza: C’entrava, perché, dopo quattr’anni dal matrimonio, ancora le girava come una farfalla attorno al lume. Gliel’ho voluto levare!
Zia Croce: Ah, per questo?
Tuzza: Sì, per questo! Quante cose doveva avere quella morta di fame? Non bastava il marito ricco? Anche l’amante festoso?
Zia Croce: Stupida! Stupida! E non capisci che così hai fatto il tuo danno soltanto? Ora non ti resta più che di maritarti -
Tuzza: (subito) - che? io, con quello? io, un marito che sarebbe mio e di tutte? Fossi matta! Mi contento perduta. Ma sa perché? Perché il mio danno ora posso rovesciarlo addosso a chi me l’ha portato. Rovinata io, rovinata lei. Questo volevo dirle.
Zia Croce: E come? Oh Dio! Mi pare impazzita, mi pare!
Tuzza: Non sono pazza, no! Veda che zio Simone -
Zia Croce: - zio Simone? -
Tuzza: - non è da ora che mi dice d’esser tanto pentito di non avermi preso in moglie in luogo di Mita.

Così dicendo, comincia a rilisciarsi i capelli e rifarsi la pettinatura, mentre gli occhi le s’accendono di malizia.

Zia Croce: Lo so: l’ha detto anche a me. Ma che forse tu...?
Tuzza: (fingendosi inorridita) No, che! io? con mio zio?
Zia Croce: E allora? Che vuoi fare? Io non ti capisco!
Tuzza: Quanti parenti ha zio Simone? Più di quanti capelli abbiamo in capo, non è vero? E le mostra i capelli che ora sta a intrecciare. E figli, nessuno. Bene. Non poté essere prima; potrà essere ora.
Zia Croce: (trasecolata) Vorresti dargli a intendere che il figlio...?
Tuzza: No, non intendere! Non ce ne sarà bisogno. Mi butterò ai suoi piedi; gli confesserò tutto.
Zia Croce: E poi?
Tuzza: E poi darà lui a intendere agli altri, e prima di tutti alla moglie, che il figlio è suo. Gli basterà averlo così, pur di prendersi questa soddisfazione.
Zia Croce: Tu sei il diavolo! Tu sei il diavolo! Vuoi far credere a tutti...?
Tuzza: Persa per persa, ora che il male me lo son fatto con quello...
Zia Croce: (subito, interrompendo) Via, via dentro, via dentro: eccolo qua che viene con Liolà!

Tuzza, subito, dentro.

Ah, Madonna mia, come farò a reggere ora? come farò?

Prende la scopa e si mette a scopare tutti i gusci delle mandorle rimasti per terra, fingendosi in gran faccende.

Liolà: (entrando con zio Simone) Dia, dia i danari a sua cugina, zio Simone, e se ne vada, perché ho da parlare io, ora, a zia Croce.
Zia Croce: Tu? E chi sei tu, che comandi così a mio cugino d’andarsene? Qua, per tua norma, mio cugino è come a casa sua. Entrate, entrate, cugino: di là c’è Tuzza.
Zio Simone: Posso darli a lei i danari?
Zia Croce: Se volete; e se no, è lo stesso. Siete il padrone, e potete fare tutto quello che vi piacerà. Entrate, e lasciatemi sentire ciò che mi vuol dire questo matto.
Zio Simone: Non gli date retta, cugina: vi farà girar la testa, come l’ha fatta girare a me. è matto davvero!

Entra nella casa colonica, e zia Croce ne richiude la porta.

Liolà: (quasi tra sé) Eh sì: lo sto vedendo...
Zia Croce: Che dici?
Liolà:
Niente. Le volevo fare un discorsetto; ma che so! mi pare... mi pare che non ce ne sia più bisogno. Lei dice che son matto; zio Simone dice che son matto; e sto proprio vedendo che avete ragione tutt’e due! Si figuri che gli volevo vendere un figlio! Un figlio, a lui! Lo vuole gratis; e mi pare che abbia già bell’e trovata la via, d’averlo gratis.
Zia Croce: Che dici? che stai farneticando?
Liolà: Ho visto sua figlia Tuzza springare un palmo da terra appena le dissi che volevo tornare a parlarle...
Zia Croce: Me ne sono accorta anch’io. E con questo?
Liolà:
Ora vedo che lei fa entrare in casa con tanti vezzi e moìne zio Simone che se ne sta qua dalla mattina alla sera...
Zia Croce: Hai comandi da dare tu in casa mia, se zio Simone entra, se esce?
Liolà: Nessun comando, zia Croce. Sono venuto soltanto per fare il mio dovere. Non voglio che si dica che sia mancato per me.
Zia Croce: Quale sarebbe, sentiamo, questo tuo dovere?
Liolà:
Ecco: glielo dico subito. Ma già lei lo sa. Non sono uccello di gabbia, zia Croce. Uccello di volo, sono. Oggi qua, domani là: al sole, all’acqua, al vento. Canto e m’ubriaco; e non so se m’ubriachi più il canto o più il sole. Con tutto questo, eccomi qua: mi taglio le ali e vengo a chiudermi in gabbia da me. Le domando la mano di sua figlia Tuzza.
Zia Croce: Tu? Eh, vedo che proprio sei uscito di cervello. Mia figlia? Vuoi ch’io dia mia figlia a uno come te?
Liolà: Dovrei ringraziarla, zia Croce, e baciarle la mano per questa risposta. Ma badi che sua figlia me la deve dare: non per me; per lei.
Zia Croce: Mia figlia? Guarda: piuttosto che darla a te, io la mando alla forca. Hai capito? Alla forca. - O non ti basta, dì, aver rovinato tre povere ragazze?
Liolà: Eh via, la smetta, zia Croce, che non ho mai rovinato nessuno, io!
Zia Croce: Tre figli! Ti son nati soli? Tu sei come quelle serpi che impastojano le vacche!
Liolà: Si stia zitta, ché lo sa bene come e da chi mi son nati quei figli! Lo sanno tutti! - Ragazzotte di fuorivia. - Male è forzare una porta ben guardata; ma chi va per una strada aperta e battuta...Ognuno, anzi, le so dire, non si sarebbe fatto scrupolo di buttar da un lato col piede ogni intoppo per queste strade. Io no. Tre povere creaturine innocenti... Stanno con mia madre, e non darebbero impiccio, zia Croce. Maschietti, quando cresceranno, lei lo sa, per la campagna, quante più braccia c’è, più ricchi siamo. Sono buon massajo: garzone, giornante; mieto, poto, falcio fieno; fo di tutto e non mi confondo mai: sono, zia Croce, come un forno di pasqua, e potrei mantenere tutto un paese.
Zia Croce: Bravo, ragazzo mio: vedi ora a chi devi andare a tenerlo, codesto bel discorso: con me, non attacca.
Liolà: Zia Croce, non mi dica così. Badi che, infamità, come non voglio farne io a nessuno, così non voglio che ne facciano gli altri, servendosi di me! - Desidero che me lo dica sua figlia, in presenza di zio Simone, che non mi vuole.
Zia Croce: Non ti vuole! Non ti vuole! Me l’ha detto lei stessa, qua, or è poco! Detto e ripetuto. Non ti vuole!
Liolà: (tra sé, stringendosi il labbro con due dita) Ah, dunque è vero?

Fa per lanciarsi alla porta: ma zia Croce lo previene e gli si para davanti: restano un momento a guardarsi negli occhi.

Zia Croce!

Zia Croce: Liolà!
Liolà: Voglio che me lo dica Tuzza, ha capito? Tuzza con la sua bocca, e davanti a zio Simone!
Zia Croce: E dàlli! Non ha più nulla da dirti Tuzza. Te lo sto dicendo io, e basta così! Vàttene, vàttene via, che sarà meglio per te.
Liolà: Ah sì, per me, certo; ma non sarà meglio per un’altra: lei m’intende! Badi che non le verrà fatta, zia Croce!

Le mette un braccio sotto il naso.

Annusi!
Zia Croce: Vàttene, che vuoi che annusi?
Liolà: Non ne sente l’odore?
Zia Croce: Sì, della malacarne che sei!
Liolà: No, del guastafeste che sono! Non perdo per una mischiata mal fatta, io, se lo tenga bene in mente! - Per ora mi prendo questa boccata di paglia, e la saluto.
Zia Croce: Sì, sì, bravo, tira via, tira via, e statti lontano, lontano.
Liolà: (masticando tra i denti, ridacchiando e pigliandola alla larga per passare davanti alla porta di Tuzza, canta e, dopo ogni verso, sghignazza)
Ora com’ora, nessun ci fa caso (ah ah ah)
Rischi, se sali, di romperti il muso (ah ah ah)
E resterai con un palmo di naso.
(sghignazzata più lunga) A rivederla, zia Croce!

Via dal fondo.

Zia Croce resta sopra pensiero. Poco dopo, la porta della casa colonica è aperta e ne vengono fuori zio Simone e Tuzza: questa, disfatta dal pianto (finto o vero), quello, turbato e costernato. Restano un pezzo in silenzio, perché zia Croce avrà fatto loro, subito, cenno di tacere.

Zio Simone: (domandando piano) Che ha detto? Che voleva?
Voce di Liolà: (in lontananza) E resterai con un palmo di nasòòò...
Zio Simone: (a Tuzza) Ah! Con lui? Tuzza si nasconde la faccia tra le mani. Ma... ma dimmi: lo sa?
Tuzza: (subito) No no, non sa nulla! Non lo sa nessuno!
Zio Simone: Ah, bene. (A zia Croce) Solo a questo patto, cugina: che non lo sappia nessuno! E il figlio - è mio!
Voce di Liolà: (da più lontano) E resterai con un palmo di nasòòò...

TELA.

Analisi del testo: Liolà

Struttura della commedia. Il testo è articolato in tre brevi atti, le cui scene si svolgono nella campagna di Agrigento, a settembre,durante i lavori della schiacciatura delle mandorle prima e della vendemmia poi. Nell’atto I si preannuncia il motivo intorno al quale ruota la commedia: la mancanza di eredi per zio Simone, un uomo ricco che non sa a chi lasciare i propri beni e ritiene la giovane seconda moglie, Mita, colpevole di sterilità. L’assenza di figli innesca l’inganno di Tuzza, nipote dello zio Simone, che, in attesa di un figlio da Liolà, giovane allegro e spensierato, specie di mitico procreatore che mette incinte le donne e poi si accolla la cura gioiosa dei figli, dichiara, con l’assenso del vecchio, che il figlio che attende è dello zio.

In quest’atto si presentano i personaggi della commedia, tutti in scena. Nell’atto II prende corpo un altro inganno: Liolà ingravida Mita, che ama da tempo e che non sopporta di vedere angariata dal vecchio marito, il quale ora si vanta di attendere un’erede della nipote Tuzza. L’inganno moltiplicato è affidato a Liolà, il riproduttore, il cui compito è quello di fertilizzare il mondo come il vento che trasporta i semi di fiore in fiore, di terra in terra.

L’atto III vede il rovesciamento della situazione: Tuzza viene messa da parte dallo zio Simone, che è convinto di essere stato in grado a sessantanni di procreare con la legittima moglie. Liolà si offre di prendere con sé il figlio di Tuzza, ma la donna respinge con violenza la proposta e quasi si sfiora la tragedia, quando la giovane si scaglia << contro Liolà con un coltello in mano>>. Ma il finale tragico viene negato dallo stesso Liolà che bloccando il braccio di Tuzza e premendo sulle sue dita fa << cadere il coltello a terra, ride e rassicura tutti, che non è stato nulla >>.

Personaggi. Domina tutta la commedia il personaggio di Liolà che bene rappresenta la forza vitale e procreatrice, il demiurgo fecondatore sempre in movimento, ilare, circondato dai tre figlioletti che ha allevato nella gioia e nel canto, aiutato dalla propria madre, zia Ninfa. Con i figli e la madre Liolà ha creato una famiglia "allargata", nella quale le madri naturali dei suoi figli sono assenti, in uno scenario in cui trionfa la paternità, essendo la figura materna solo presente nella forma "surrogata" della nonna. Ma Liolà anticipa anche un aspetto, per così dire, da eroe ragionatore, tipico del successivo teatro pirandelliano, quando convince Mita ad accettare il suo aiuto per ingravidarsi, rivelando che l’aver nascosto di essere il padre del figlio che Tuzza attende è stato un atto calcolato, un atto d’amore per Mita che ora potrà vantarsi di poter dare un figlio al vecchio, e presumibilmente sterile, marito.

Nella commedia non manca il coro, costituito dai commenti, spesso malevoli e pettegoli, espressi dalle donne che sono state conquistate dalla simpatia trascinante di Liolà.

Tra i personaggi femminili spiccano Tuzza, vittima del suo stesso inganno e Mita, modesta fanciulla << contenta >> della sua << cosuccia >> e del suo << orticello >> che passa dalla vergogna umiliante inflittale dal marito, che continua a rinfacciarle la sua sterilità, all’orgoglio della propria maternità "legittima". Entrambe le giovani acquistano importanza nella vicenda, perdendo con la maternità il ruolo subalterno rispetto allo zio Simone, e usano l’inganno.

PRESENTAZIONE CRITICA DI LIOLA’

(R. ALONGE)

La critica pirandelliana più attenta ha cominciato negli ultimi anni a riportare Pirandello al grande alveo della più illustre drammaturgia borghese di respiro europeo, quella che tra Ibsen e Strindberg porta avanti uno scandaglio accanito sul nodo capitale del rapporto fra maschio e femmina. In questa ottica un testo come Liolà, nonostante la sua patina superficiale "dialettale", è importantissimo perché fonda, sin dal 1916, agli inizi insomma della creatività drammaturgia pirandelliana, uno dei miti portanti di tutta l’opera teatrale del nostro autore. È il mito dell’uomo solo, in dura opposizione alla donna, cui tenta di sottrarre continuamente brandelli di spazio vitale. Si pensi all’immagine indimenticabile del Leone Gala del Giuoco delle parti, filosofo accanito ma anche cuoco insuperabile, tenace organizzatore della propria autonomia di maschio autosufficiente, in guerra feroce, sino all’assassinio, con la "grande nemica", con la propria ex moglie. Ebbene, Liolà anticipa di due anni Il giuoco delle parti. Le donne del protagonista della commedia campestre sono riduttivamente «ragazzette di fuorivia», da usare sessualmente e da lasciare. Liolà porta più a fondo di tutti la lotta contro la donna: la donna è espropriata non solo dello spazio della cucina ma anche del suo ruolo naturale e storico di allevatrice di figli. Liolà è uno straordinario ragazzo-padre che contesta alle donne il diritto alla maternità. Se ne va in giro per la campagna agrigentina trascinandosi dietro i suoi tre figli, frutto della sua furia procreatrice, ed è pronto ad accogliere anche il quarto, che sta per nascere da Tuzza. Che poi i tre figli siano tutti e tre maschi la dice lunga sulla pulsione fallocratica e maschilista del personaggio. Da notare infine che proprio questo particolare della schiera dei tre figli e della condizione di ragazzo. padre costituisce il punto di maggior innovazione rispetto alla vicenda originariamente trattata nel Fu Mattia Pascal, a conferma del fatto che Liolà è cosa assolutamente originale e spontanea, al di là degli elementi di contatto con la matrice narrativa.

Ma se il protagonista autentico del teatro pirandelliano è l’uomo solo, il palcoscenico risulta poi paradossalmente colmo di personaggi femminili. Diciamo allora che tutte queste donne sono la proiezione esterna di un occhio maschile, le immaginazioni fantasmatiche dell’eroe maschio. E s’impone subito la visione tipica della donna nell’universo pirandelliano, la schizofrenia fra una donna come oggetto sessuale, elemento carnale, in qualche modo infernale, e una donna portatrice di valori spirituali, che si riassume essenzialmente nel profilo della madre, di una madre declinata sempre come "santa", al di sopra dell’osceno commercio con il sesso. Accanto a Liolà c’è infatti, non a caso, una madre vedova, privata con ciò stesso di ogni funzione erotica, che non esiste se non nel quadro della maternità: una donna soltanto madre di cui il figlio può appropriarsi interamente, risolvendo così il proprio complesso d’Edipo con l’eliminazione della sua causa.

La commedia è stracolma di figure femminili (quasi solo figure femminili, se si eccettuano i personaggi di Liolà e di zio Simone), ma tutte si ridistribuiscono sotto le due grandi coordinate indicate. Comare Gesa, zia di Mita, "raddoppia" zia Ninfa, la madre di Liolà (ha allevato Mita nell’onestà e nel timore di Dio), ma zia Croce e sua figlia Tuzza si collocano automaticamente sul versante delle donne di malaffare. Dirà proprio comare Gesa: «E in galera anche quelle due infamacce, madre e figlia! Sgualdrine!». L’originale in agrigentino ribadiva l’ingiuria: «Cajordi! Cajordi!». E così pure la Moscardina condannava «lu ‘ngannu di sti due’ cajordi, matri e figlia» (nel testo in lingua la violenza lessicale si attenua: «l’inganno di quelle due schifose, madre e figlia»). Tuzza in particolare ha tratti infernali. Quando si accinge a esporre il suo disegno di far passare zio Simone come padre del figlio nascituro, «gli occhi le s’accendono di malizia». La stessa madre le dice: «Tu sei il diavolo! Tu sei il diavolo!». Nel caso migliore la paragona a Maria Maddalena, cioè a un’immagine di prostituta (per quanto pentita).

La forza costrittiva di questa alternativa antagonistica fra "donna buona" e "donna cattiva" è ribadita paradossalmente dal personaggio di Mita che, pure, ha, in nuce, la possibilità di unificare gli estremi , di rappresentare per Liolà l’esempio di una vita riconciliata, di gettare un ponte fra il disprezzo e la venerazione, fra il colpo e lo spirito, fra l’amore fisico e l’amore spirituale, riuniti nella stima e nella tenerezza. Mita non appartiene in teoria né alla categoria degli oggetti sessuali (ha sempre rifiutato di cedere a Liolà, sia prima che dopo il matrimonio con zio Simone, meritando così il rispetto di Liolà), né alla categoria delle madri, elevate dalla loro maternità al rango di "sante".

Fra Mita e Liolà avrebbe potuto essere amore vero, autentico, "normale", ma ormai i giochi sono fatti, e non è più possibile. Resta, al massimo, il tempo breve di un sospiro di nostalgia.

Al di là dei rimpianti rimangono e incombono le "funzioni", quella della madre e quella della donna di piacere. Mita è personaggio "fuori di chiave" perché non riesce ad essere né l’una né l’altra. Vorrebbe essere madre, ma come la Vergine Maria, senza il peso dell’atto sessuale.

D’altra parte il sistema di riferimento alla Vergine è costante in tutta la commedia, il primo atto si apre proprio sull’invocazione a Maria. Le donne cantano la Passione, ma con allusione al dramma della madre di Gesù. Ci sono poi almeno una decina di casi in cui la Vergine è richiamata come vocativo d’esclamazione ma anche non risultano dalla versione in italiano perché l’invocazione registra un passaggio dal femminile al maschile, dalla Vergine a Dio. ( R.Alonge )

 

Torna su