L’ironia metafisica di Umberto Eco

di Alessandro Scurani

(tratto dalla rivista "Letture", n. 534 febbraio 1997
fonte: http://www.stpauls.it/letture/0297let/0297le116.htm)

La negazione di verità assolute è una costante del suo pensiero. Il segno è assunto come sostituto significante di qualcosa d'altro, che non deve esistere necessariamente. Contrario a ogni forma di retorica, usa il riso e il dileggio per abbattere le costruzioni più seriose.

Mi scuso con Umberto Eco se ho accettato di scrivere di lui. Forse sono il critico meno indicato per farlo. Non conosco quasi nulla della sua vita. Non ho interesse per la semiotica. Anzi, considero la lettura del suo Trattato di semiotica generale una delle penitenze più gravi della mia vita. Me ne assolve Eco stesso nella nota introduttiva a Sugli specchi: "Il lettore digiuno di tecnicismi semiotici [...] può evitare di leggere gli scritti dell'ultima sezione. Sopravviverà lo stesso" (pag. 6). Le mie saranno solo osservazioni, ipotesi di un cammino ideologico - letterario dedotte dalla lettura delle sue opere, anche e soprattutto quelle diverse dai tre famosi romanzi.

1. L'ammirazione per il Medioevo

Eco scopre la ragione di molti tratti della sua personalità leggendo una Storia degli alessandrini: "Alla base del mio scetticismo, della mia indifferenza per i Valori astratti, della mia diffidenza per il Noumeno, non stavano scelte culturali o scelte ideologiche, ma solo il fatto che ero nato ad Alessandria" (Il costume di casa, pag. 9). Alessandria è città che detesta l'amplificazione retorica, le violenze. E sospettosa delle grandi imprese. Il suo immaginario popolare ignora streghe, diavoli, fate, mostri, fantasmi, grotte. E parca di leggende. Ritorna sul tema della sua città nell'ultimo capitolo del Secondo diario minimo: "Il miracolo di San Brandolino". Giudicati barbari da Dante Alighieri, gli alessandrini conobbero una sola grande epopea: quella sui campi di Marengo, contro le truppe assedianti del Barbarossa. Ma anche allora la vittoria fu opera non di famosi condottieri, ma dell'astuzia contadina di Gagliaudo. Un alessandrino non rivela con facilità il proprio nome a un estraneo. Non va soggetto a infatuazioni per le imprese sportive o i successi politici. Alessandria è città di grandi spazi, che creano nel cittadino un senso di solitudine. L'unica caratteristica suggestiva è la nebbia, che in alcune stagioni trasforma la città in una specie di Milano della scapigliatura. Tutto vi è moderato, perfino i miracoli del suo protettore, san Brandolino, che una volta, pregato dal re di guarirgli il figlio, non lo guarì, ma si limitò a predirgliene la morte.

È in questa città che Eco trascorse la sua infanzia e adolescenza, con le prime inspiegabili crisi di rigetto delle tradizionali forme religiose. Fu durante una partita di calcio, a 13 anni, "osservando gli insensati movimenti laggiù nel campo, sentii come se il sole alto meridiano avvolgesse di una luce raggelante uomini e cose, e come se davanti ai miei occhi si dipanasse una recita cosmica senza senso [...] per la prima volta dubitai dell'esistenza di Dio e ritenni che il mondo fosse una finzione senza scopo" (Sei anni di desiderio, pag. 40). Ricorse al suo confessore, che gli elencò una serie di personaggi celebri credenti in Dio: Dante, Newton, Manzoni, Gioberti e Fantapiè. "Confuso da questo consenso delle genti, rimandai di circa un decennio la mia crisi religiosa". Ciò non gli impedì di scegliere come oggetto della sua tesi di laurea il più ortodosso dei filosofi cattolici. Eco si laureò a Torino nel 1954 con la tesi Il problema estetico in Tommaso d'Aquino: una tesi quanto mai conformista, che egli riprenderà e in qualche modo reinterpreterà nel 1970. Ma intanto aveva messo un piede nella cultura medievale e non lo ritirerà più. Scoperse un mondo dalle ricchezze varie e insospettate, dotato degli strumenti idonei per risolvere i problemi del tempo. Scoperse una parentela stretta tra le metodologie scolastiche e quelle moderne. I medievali appaiono solo più creativi e più acuti nelle analisi. A cominciare dal grande Agostino, "il primo autore che, sulla base di una cultura stoica ben assorbita, fonda una teoria del segno": "Signum est enim res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire" (De Doctrina II,I,I - Il segno è ogni cosa che ci fa venire in mente qualcosa d'altro al di là dell'impressione che la cosa stessa fa sui nostri sensi - riportato in Sugli specchi, pag. 222). "Tutte le semiotiche testuali e tutte le ermeneutiche contemporanee viaggiano ancora lungo le linee di forza prescritte da Agostino, anche quando sono semiotiche o ermeneutiche secolarizzate" (Ivi, pag. 223; cfr. anche Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, edizione 1970, pag. 7). Scoperse che la sua, più che una crisi di fede, era una crisi filosofica. Il punto debole del Tomismo era che non si preoccupava di giustificare la validità dei suoi strumenti conoscitivi. Per il vero tomista il reale era il conosciuto. Ma nella sensibilità moderna di Eco si era insinuato il sospetto kantiano: il Noumenon era il non ancora noto.

Del resto questo stesso sospetto aveva già ammaliato i primi discepoli di Tommaso. Erano usciti dalla tutela del Maestro privilegiando il conosciuto nei confronti del reale. Gli autori della seconda scolastica supponevano intatta la sostanza del sistema tomista e si dedicavano con entusiasmo all'analisi delle forme di pensiero - dove la razionalità trovava in sé stessa la propria garanzia - e muovevano i primi passi in campo sperimentale. La scuola medievale sviluppò in modo particolare la retorica e, in campo più propriamente filosofico, la Logica Minor. Eco conosce molto bene queste scienze e usa la Logica Minor spesso come strumento utile, più spesso come sottolineatura umoristica dei suoi racconti. E tipico del nominalismo di ogni tempo sviluppare al massimo la crosta del pensiero filosofico, disperando di penetrare oltre.


Segue - 2