di Darlo Del Corno
Nel cuore di uno
fra gli episodi più emozionanti dell' Iliade si apre un singolare caso filologico.
Siamo nel IX canto, la cosiddetta
"ambasceria": Odisso e Aiace trattano con Achille, invano, il suo
ritorno in battaglia. In loro aiuto interviene il «vecchio cavaliere Fenice»,
una sorta di pedagogo del riottoso eroe. Costui racconta come gli fosse
accaduto di approdare alla reggia di Peleo, per una licenziosa avventura della
sua giovinezza. Fenice aveva sedotto una concubina amatissima dal padre —
dietro istigazione della madre, egli protesta: una circostanza attenuante,
tanto per salvare il suo prestigio di educatore. Immediata è la maledizione del
padre: possa il traditore non avere mai figli. A sua volta Fenice reagisce furente:
«Allora pensai d'ammazzarlo col bronzo affilato; / ma un dio bloccò la mia
ira, facendomi balenare alla mente / il commento di tutti e il disprezzo
continuo della gente, / sì che non fossi chiamato parricida in mezzo agli
Achei» —, e quindi parte per il volontario esilio.
Su questi
quattro versi (458-61) scatta il problema testuale: essi mancano in tutti i
manoscritti, e solo Plutarco li tramanda, citandoli di passaggio in un suo
trattato. Nel valutarne l'autenticità assegneremo maggior peso alla documentazione
obiettiva, oppure alla densità poetica di questo ricordo — ossia al conflitto
fra l'emozione e la ragione, arcaicamente risolto dall'ossessione del disonore?
Semplifico una questione che coinvolge presupposti teorici assai più complicati
ma in ultima istanza è l'intelligenza "artistica" dello studioso
che si rivela nella scelta- e confesso che,quando ho avuto in mano
quest'imponente volume, mi è subito venuto fatto di controllare cosa ne fosse
dei quattro versi incriminati. Essi risultano relegati in apparato nell'edizione
oxoniense che la traduzione segue con rigorosa fedeltà; ma grazie all'unica licenza
che si è concesso Giovanni Cerri, il passo viene reintegrato nella battuta di
Fenice, di cui costituisce indiscutibilmente l'epicentro nell'allusivo
parallelo con Achille.
Quasi mezzo articolo per quattro versi, si obietterà ma il
caso esemplifica il compromesso imposto dalla presentazione scritta (a
qualsiasi momento della tradizione essa si trovi) di un testo orale. E
probabile che a far cadere la rovente confessione di Fenice fosse uno scrupolo
non tanto moralistico, quanto di verosimiglianza psicologica a dir vero, di
modesta qualità critica: ma comunque di epoca tanto alta da sopprimere i versi
nella tradizione vulgata. Fortuna volle che, in chissà quale anfratto della
storia testuale di Omero, essi si salvassero fino a Plutarco. All'editore
che abbia consapevolezza di tanto aleatoria vicenda spetta di mediare
l'assolutezza della scrittura con le variabili della memoria orale. È appunto
da una dialettica di tale genere che sorsero i poemi omerici, lungo un
processo tuttora non decodificabile nei dettagli, ma ampiamente riconoscibile
nelle linee generali. Su questa fase è lo stesso Cerri a ragionare in
un'introduzione eccellènte per dottrina, lucidità e misura di giudizio. A essa
si accompagna, pure attestando un diverso indirizzo circa la storia genetica
del poema, un saggio illustre della recente critica omerica; «La composizione
dell'Iliade» di Wolfgang Schadewaldt, campione della scuola cosiddetta
neounitaria.
L'ardua sintesi fra discorso orale e norme della scrittura
presta uno specifico nerbo anche alla traduzione, che costituisce
naturalmente l'obiettivo e l'interesse primario del volume. Una volta che si
ritenga l'opera di Vincenzo Monti un supremo modello di rielaborazione totale,
tanto autonomo nella qualità letteraria quanto inutilizzabile per accostarsi
all'autenticità della parola omerica, gli esempi più funzionali di età recente
sono le versioni di Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi 1950) e di Maria Grazia
Giani (Marsilio 1990), rispettivamente in versi liberi e in prosa. Fra le due
peraltro si colloca l'Odissea, tradotta da G. Aurelio Privitera per la
Fondazione Valla (1981-86), con una sapiente modulazione di effetti ritmici
all'interno di un tessuto prosastico, ma disposto graficamente in modo da far
corrispondere a ogni verso dell'originale la sua traduzione. A questo criterio
si collega anche il sistema prescelto da Cerri, sia pure con un più accentuato
proposito di riprodurre la cadenza esametrica del ritmo epico. Il risultato è
una sorta di leggibilità recitata: ossia un'adeguarsi spontaneo della lettura
mentale al flusso deila parola detta, a cui corrisponde il tono immediato, ma
non banale, delle scelte stilistiche e lessicali.
Provvisto di un equilibrato corredo di note a opera di
Antonietta Costo! i e di indici assai utili, il volume si rivolge a un
pubblico curioso di risalire all'archetipo della cultura europea, sia che i
lettori intendano confrontare il dettato omerico con i propri ricordi liceali,
oppure non siano in grado di assaggiare il gusto dell'originale. Viene da
chiedersi se questo ritorno si giustifichi esclusivamente al livello di una
sollecitazione storico-culturale, oppure se la lettura di Omero sia tuttora in
grado di valicare l'abisso del tempo per suggerire significati intrisi dell'esperienza
del presente. Si tratta di un problema cruciale, a cui si danno soluzioni diverse,
se non opposte; e può darsi che un approccio corretto debba iniziare da
un'altra domanda: che cosa chiedevano ai poemi omerici i loro contemporanei?
Una prima risposta si ricava dai
testi stessi: il programma dei cantori omerici è salvaguardare la memoria
degli uomini e delle gesta di un passato glorioso. Ma il canto degli aedi
nell'Odissea suscita piacere in chi li ascolta; e la gratificazione estetica
è la ragione primaria della loro attività. Dai poemi omerici i Greci appresero
soprattutto a definire la loro esistenza per mezzo della parola artistica; e
l'ipotesi oggi corrente, che essi costituissero una sorta di enciclopedia
pratica del sapere e dei comportamenti, non è surrogata se non marginalmente
dalle reazioni dell'uditorio, secondo quanto apprendiamo dal contesto.
Con ciò non si intende negare che la poesia omerica avesse una funzione didascalica ma, appunto, questa si svolgeva nell'ambito che alla poesia pertiene: quello delle emozioni.
Da Omero i Greci vennero educati a
comprendere che le emozioni sono il fattore indispensabile perché l'individuo
possa riconoscersi come tale, sappia appropriarsi della sua personale
esperienza come una realtà assolutamente unica, e al tempo stesso inter-relata
con gli altri uomini. All'interno di un sistema di valori relativamente
povero, gli eroi omerici traboccano di ricchezza vitale, sanno imprimere
all'esistenza una qualità incomparabile; e ciò accade perché possiedono
l'intensità delle emozioni a orientarli.
Hegel identificava il romanzo come la continuazione dell'epos
nella società borghese; e il romanzo ha costituito per l'uomo moderno la scuola
delle emozioni. Ma anche il romanzo vive un periodo epigonale, da cui non bastano
a redimerlo sempre più rade eccezioni — e d'altra parte il nostro tempo
sembra relegare le emozioni nel novero.delle enfasi superflue: senza che questo
abbia accresciuto la qualità interiore della vita. Ma occorre che le emozioni
vengano non soltanto sollecitate, bensì soprattutto educate all'autenticità.
Il ritmo riflessivo della lettura, la meditata appropriazione della parola
artistica nella piena comprensione della sua autonoma e peculiare valenza
sono un magistero fondamentale per reagire all'aridità dell'informazione — e
probabilmente mette conto di conoscere il pathos di Ettore di fronte
al destino suo e dei suoi cari più che i fremiti banali dell'attualità.