il mondo dell'arte pirandelliano è fatto di esistenze mancate, di esperienze frustrate, di coscienze lese o incompiute: che è quanto accomuna i suoi tré grandi romanzi (L'esclu­sa, del 1901; // Fu Mattia Pascal, del 1904; / vecchi e i giovani, del 1913). E non sono soltanto le situazioni umane a dissolversi o pietrificarsi. Anche le forme della società, i costumi, i rapporti fra gli individui, appaiono inconsistenti e vacui oppure fermi e cristalliz­zati. Il dramma, la politica, l'ironia e la desola­zione che colmano le Novelle per un anno e le Maschere Nude nascono dallo scontro o dalla convergenza di questi disfacimenti o paralisi della vita personale e della realtà esterna. Cioè dalla incapacità degli uomini a uscire da un sistema di relazioni, che essi si sono fatte con le proprie mani, come singoli e come specie. E perciò la vita nella concezione pirandelliana è un'alternativa di cristallizzazioni e di dissol­vimenti. Nel momento che un lembo dell'espe­rienza si asside nella coscienza dell'individuo e ne occupa il pensiero ed il sentimento, la vita cessa di essere una forza dinamica e nello stesso istante si separa dalla corrente della storia per congelarsi e pietrificarsi. E' questa la maggiore rottura con il verismo. Su questo piano Pirandello è l'anti-Capuana, l'anti-Ver-ga, l'anti-De Roberto, anche l'anti-D'Annunzio (se pensiamo alle novelle della Pescara e a certo naturalismo dei romanzi).

Non è la vita che lo interessa quale cronista ed espositore, ma la reazione che si è cristallizza­ta nella coscienza di chi la vive, e meglio, di chi l'ha vissuta o ne è stato comunque toccato e continua a portarla dentro come un'attitudine fossilizzata. E perciò i personaggi pirandellia­ni corrono tutti verso la stasi e l'immobilità per un eccesso di coscienza, e trasferiscono alla realtà quel loro senso cristallizzato e ossificato dell'esperienza. Si può anche convenire che il disfacimento della vita quale era patito o va­gheggiato dall'estetica decadentìstica tocca il limite estremo nel mondo pirandelliano. Salvo che qui non è più un ritmo o un metodo, cioè non è alternativa ne consonanza, ma soltanto un tramite, un veicolo, un pretesto. Tutti gli elementi del verismo e del decadentismo - la

vita, la realtà, l'esperienza, la storia, la società, il costume eccetera - sono disarticolati, smon­tati ad uno ad uno, disfatti, per formare ogni volta lo scheletro mummificato su cui l'indivi­duo stende le proprie sembianze. E queste sono apparentemente mobili, concitate, pole­miche, ma soltanto in superficie, mentre ade­riscono ad un'esperienza inamovibile, che ha l'inalterabilità di certi minerali. Questa è la disperazione dell'arte pirandelliana, che si di­spone, per l'appunto, su due piani di opposte dimensioni e strutture. L'una, che è la vita e la realtà, non ha misura ne obblighi ne limiti, e per se stessa non è qualificante, ed è anzi quasi meccanica e indifferenziata; l'altra, che è la coscienza umana, si deve informare ad essa, e farsene una ragione, una coerenza, una nor­ma, insomma un'esperienza individuale e storica: ma sono, l'una rispetto all'altra, inso­ciabili, irriducibili, insolubili, perché governate rispettivamente da leggi difformi e da energie e direzioni divergenti.

Alla fine, nel fondo di ciascun protagonista pirandelliano si verifica un divorzio con la realtà, e l'uomo è continuamente rigettato nel caos informe e indistinto, naufrago in mezzo a una folla di naufraghi. Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto salvavano ancora la vita, come ritmo e vicenda di bene e di male, come concorso e reazione di psicolo­gia e società; riuscivano a saldare le biografie alla storia, al costume, alla natura, a una para­bola di destino. Ma Pirandello ne annienta i legami, ne corrode le corrispondenze, ne vanifica tutte le relazioni che l'individuo tenta. Ogni volta i suoi attori corrono sulle strade dell'esperienza esclusi come la protagonista del suo primo romanzo (L'esclusa, appunto), oppure preteriti come il Fu Mattia Pascal, o semmai sopraffati e traditi come i tanti perso­naggi de / vecchi e I giovani. Per loro non c'è pietà, neanche quella che i maestri di Pirandel­lo avevano saputo concedere ai loro protago­nisti e interpreti. A confronto del mondo piran­delliano, i romanzi di Verga, di Capuana, di De Roberto appaiono se non proprio ottimisti, almeno consolati da un'alternativa, da una lotta, da un attrito, che comunque ammette o tollera un vincolo degl'individui con lavila, una dialettica del destino personale con la sorte del mondo, con il corso della società, con la vicenda della natura.